1. Siamo moderni o scimpanzé?
La sapienza inizia con il timore del Signore, recita il salmo 111 (v. 10). Si può essere d’accordo. Hegel lo era; nel IV capitolo della Fenomenologia dello Spirito (1807) ci racconta come vanno le cose tra servo e padrone, viste dal punto di vista del terzo, il Signore assoluto: la morte – der Tod, maschile in tedesco – che il servo teme non meno del padrone. Il timore della morte genera la sapienza, die Weisheit; è un classico: la soggezione alla morte genera il soggetto.
Molto bene, così la sapienza è sistemata in conformità allo spirito religioso di tutti i tempi, millenario ma sempreverde e sempre più vicino alla psicologia. Ma con la scienza, con il sapere laico, con il Wissen e la Wissenschaft, che prescindono da ipotesi sul Divino Architetto dell’Universo, Demiurgo o Spirito Assoluto che sia, come la mettiamo? Esiste un qualche timore, per non dire angoscia, che genera la scienza?
Qui sono molto tentato di rispondere di sì, ben sapendo di suscitare l’automatica attivazione di un complesso di resistenze, che sembra essere già lì, pronto a scattare come una molla per neutralizzare simili attacchi o provocazioni. Fraintendendole, naturalmente, per esempio, supponendo che si voglia matematizzare, cioè meccanizzare, il mondo della vita. Allora si parla con disprezzo di scientismo, in riferimento all’obsoleta immagine positivista della scienza.
A mia volta provo a dirlo citando Kierkegaard, famoso antihegeliano:
il timore e il tremore di fronte all’infinito genera la scienza.
L’infinito fa paura, questo è il dato di fatto perdurante, tuttora attuale, esattamente come il timore di quella Signora che ci pervade tutti, credenti e non credenti. Ma da lì a dire che la paura dell’infinito faccia nascere la scienza ne corre. Tanto è vero che per secoli di scienza alla Galilei o alla Cartesio se n’è vista poca, eccezion fatta per qualche anticipazione ellenistica o medievale. Se tale paura esiste, sul lungo periodo non è stata feconda di altro che di inibizioni scientifiche. Per essere storicamente più credibile e in sintonia con l’attuale diffuso e ingenuo antiscientismo, dovrei dire: Il timore dell’infinito inibisce la scienza. Ed è quanto provvisoriamente ammetto.
Aristotele resta il campione insuperato di inibizione da infinito. Cosa gli aveva fatto di male, l’infinito? Non poco. Comprometteva la scienza come lui la intendeva. In tempi prescientifici – con questo termine intendo l’epoca prima di Galilei e di Cartesio – la scienza era conoscenza certa delle cause, cioè era conoscenza storica; in latino era scire per causas, cioè sapere i fondamenti dei fenomeni1. L’infinito comprometteva irrimediabilmente la storicizzazione della scienza antica, destabilizzando l’ordine stabilito (da chi?) delle cause e degli effetti. Perché?
Il tema eziologico, o della causa, è inattuale nella riflessione filosofica corrente, presa com’è da interessi pratici più rilevanti – si pensi ai problemi della bioetica e della biopolitica. Ma, anche se non riconosciuto, c’è una certa urgenza a riaffrontare l’argomento, perché da lì passa la linea di discriminazione tra scienza antica e moderna. Non saremo mai moderni – direi alla Latour – se non ci chiariamo bene le idee sulla differenza tra scienza antica e moderna: la prima che era scire per causas, essenzialmente diacronica e storica, la seconda che è scire per theoremata, sostanzialmente per simmetrie che si danno nella sincronia. Qui mi soffermo sul “pericolo infinito” come era percepito dagli antichi pensatori e come è avvertito dai moderni umanisti, perché condiziona lo spettro delle possibili riflessioni epistemologiche e in un certo senso le incornicia, circoscrivendo il campo culturale che oggi ci tocca dissodare.
Per la cultura antica, più cognitiva della moderna, scienza voleva dire conoscenza di quel che c’è come effetto di qualche causa precedente. Gli antichi erano ontologici: seguivano virtute e canoscenza. La virtus, prima che potenza etica, era la potenzialità degli effetti rispetto alle cause. L’oppio fa dormire perché ha la virtus dormitiva, Molière fa dire al dottorando in medicina. La causa è determinante ma non immediata da determinare. Conoscere l’effetto An significa conoscere la causa An-1; ma conoscere la causa An-1, non basta; si deve conoscere la sua causa An-2; via di questo passo, dopo un numero finito di passi, si arrivava alla causa prima A1, supposta esistere per definizione, che ratifica la conoscenza, rendendola effettiva. La catena finita delle cause A1, A2, … An-1, An era anticamente considerata l’unica forma di scienza. Di infinito, neanche a parlarne. Piuttosto che ammettere l’infinito, l’antico era disposto ad accettare la seguente alternativa: o la causa prima non esiste, perché non è effetto di alcuna causa, quindi viene meno tutta la catena eziologica, o, se esiste, è effetto di sé stessa, quindi è diversa da sé stessa – contraddicendo il principio di identità.
Siamo davanti al famoso principio di ragion sufficiente. Esso stabilisce che
1. ogni effetto ha almeno una causa, che lo determina;
2. ogni causa determina esattamente un effetto e solo uno.
In termini semplici: a cause uguali, effetti uguali. È il principio deterministico dell’ontologia aristotelica, grazie al quale la causa determina con certezza l’effetto – e uno solo – cioè il passaggio dall’essere in potenza all’essere in atto – e uno solo. Tolto il principio di ragion sufficiente, il costrutto ontologico crolla come muro da cui si scalza la pietra angolare.
Praticamente, senza principio di ragion sufficiente, non solo non si darebbe conoscenza del mondo, ma neppure esisterebbe il mondo; svanirebbe non solo l’epistemologia ma anche l’ontologia; il mondo risulterebbe vuoto; ogni ente rimarrebbe in potenza, nel grembo di dio, il divino artefice, e non ci sarebbero enti in atto; ci sarebbe niente, perché niente determina alcunché, come temeva Leibniz. Perché non esiste niente invece di qualcosa? si chiedeva. Perché c’è una ragione per ogni cosa, rispondeva allora il catechismo ontologico; oggi risponde il nuovo realismo.
Il pericolo è proprio questo: l’infinito minaccia di nientificare il mondo2. Se si dovesse regredire indefinitamente di causa in causa, senza mai arrivare alla causa prima, il mondo rimarrebbe senza eventi. Se dopo la causa A1, si dovesse risalire alla causa A-1 e dopo la causa A-n alla causa A-n-1, non solo non si arriverebbe ad alcuna conoscenza, ma addirittura a nessun ente, perché nulla sarebbe definitivamente determinato dalla causa prima, che non esiste. Non lo dico io, lo dice L’Aquinate che, argomentando sul regresso all’infinito, “dimostra” l’esistenza di dio come causa prima. Oggi come oggi, tenere l’infinito a distanza è più che giustificato. Abbiamo altri problemi più urgenti da risolvere; sono problemi pratici e concreti su scala globale, che vanno dall’effetto serra alla denutrizione infantile, dalla sopravvivenza di 500 milioni di malarici nel mondo a ...
Per ragioni teoriche e pratiche Aristotele proscrisse l’infinito in atto dalla sua fisica, che fu anche la sua vera metafisica, finita per essere la fisica della nostra vita quotidiana. L’infinito è concepito solo come façon de parler, diceva Gauss ancora nel XIX secolo, cioè solo come quantità – questa è la fallacia originaria – sempre più grande; l’infinito classico è solo un infinito potenziale che, passando all’atto grazie all’operazione di misura, risulta sempre finito e limitato, per quanto grande. Giustamente, una misura con strumenti finiti non può produrre – scrivere – un valore infinito. Allora, la misura è l’operazione logica che fa decadere l’infinito a finito, lasciando il primo in potenza e ammettendo in atto solo il secondo. Il nome greco per l’infinito potenziale era ápeiron, senza confini che lo limitano. Detto in termini lacaniani, l’infinito ha nei millenni condiviso il territorio logico dell’impossibile: “non ha cessato di non scriversi”. L’infinito o del reale? ci si potrebbe ragionevolmente chiedere, al seguito del maestro parigino.
(Mini-digressione storica. È curioso il modo in cui l’erudito compositore dell’enciclopedia del sapere matematico greco, Euclide, seppe “salvare” l’infinito con un trucco astuto. Non potendone fare a meno – non c’è matematica senza infinito – lo trasvestì da finito, nel pieno ossequio dei canoni del riconosciuto maestro Aristotele. Nel linguaggio topologico che adotterò in seguito, Euclide compattificò l’infinito. Come? Propose come postulato – il quinto – che due rette, tagliate da una trasversale, si incontrano dalla parte dove la somma degli angoli interni è minore di due angoli retti3. Insomma, se si verifica tale condizione, prima o poi le rette si incontrano “lì vicino” ...