CONTRO LA SCUOLA
Che tutti possano imparare a leggere, rovina alla lunga non solo lo scrivere, ma anche il pensare. […] Chi scrive col sangue e per sentenze, non vuole essere letto, ma imparato a memoria.
F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra – “Del leggere e scrivere”
Non è tempo di gentilezze, il nostro, di buone maniere, inchini e civetterie. Questa è un’era di segni. I miei sono tutti qui ben visibili, in fila come i grani di un rosario: le rughe sulla mia fronte, il tempo tra i miei capelli, la sterilità nei miei coglioni.
V. L.
Premessa
Da quando la scuola ha preteso di assomigliare a un confortatorio, sì, da allora credo sia cominciata la sua vera vocazione: quella all’ostinazione. L’ostinazione secondo la quale ogni effetto implica necessariamente una causa; un concetto-secondo inerisce un concetto-primo. La stessa ostinazione per cui nessun pensiero può nascere dal nulla e, dopo una piroetta, un’inanità, sprofondarvi nuovamente senza lasciare traccia alcuna.
Devo ammetterlo, prima di quel tempo, ossia prima che la scuola diventasse ciò che adesso appare, io immagino soltanto un “portico”, un “giardino”, un “viale” sassoso, ossia uno di quei luoghi in cui un tempo ci si incontrava deliberatamente per parlare della natura, del bene, della felicità… (Anche se molti indizi già non lasciavano sperare nulla di buono).
Finalmente oggi la scuola è fatta: «La scuola esiste», si è costretti ad affermare rimpiangendo la pace e la serenità claustrali dalle quali queste riflessioni inevitabilmente allontanano. La scuola ha il suo vessillo e le sue schiere, nessuno glieli tocchi.
Ma il fatto è che oggi il concetto di scuola affolla i nostri pensieri e non riusciamo a liberarcene, anche questo bisogna dire. È un’ossessione. In verità, a dare fastidio è per lo più l’idea che là dove c’era un pensiero e la sua meraviglia ora ci sia soltanto qualcuno che vuole insegnare.
Ed è questo, dopotutto, che io qui riassumo con l’espressione contro la scuola.
I
«Io non insegno», così dovrebbe cominciare qualsiasi discorso o trattato sulla scuola che meriti rispetto. Io non insegno, dunque, questo si dovrebbe dire senza temere di essere fraintesi. Oppure, parafrasando, si potrebbe dichiarare di non avere le miserabili ambizioni dell’accademico e nemmeno quelle più bizzarre e singolari del carnefice – afferma l’esegnante, quella strana figura d’uomo che si manifesta ogni qualvolta si affronta l’argomento che qui ci si appresta a sviluppare.
E invece, la seducente attrazione della scuola ha fatto sì che la fregola di insegnare si manifestasse anche in chi, dopotutto, non ne aveva né le attitudini né la stoffa.
Chi insegna, ossia colui che ha la predisposizione alle tenebre e l’indole del primitivo abitatore di spelonche, si accontenta di segnare-dentro i suoi modesti e incomprensibili graffiti. Ama brancolare nel buio. Il suo gioco preferito è moscacieca. Tollerare l’humus hosticus – il discente – in cui quotidianamente si imbatte, è poi cosa che lo riempie d’orgoglio.
Chi insegna ha una sola idea fissa e quell’idea è il dentro. Per questo, uscire allo scoperto, alla luce, educare – come si dice – è ciò che promette. Promettere, infatti, fu esattamente quello che fece Socrate con le sue manie da sudicia mammana. Se poi mantenne, non ci è dato sapere. Anche Agostino nel De Magistro si esprime più o meno allo stesso modo, ma il risultato e l’effetto non cambiano. «Si usano segni per insegnare e non viceversa», ripete il maestro al giovane e confuso Adeodato. In altre parole, fare dei segni, sì, ma soltanto dentro.
Che in più qualcuno ritenga che insegnare significhi trasmettere quella che volgarmente chiamiamo “cultura” e che il luogo in cui ciò accade sia la scuola, non è affatto un mistero. Da quando quei cialtroni di filosofi ne inventarono una, dove tra l’altro non c’erano né cattedre né predelle, il destino dell’uomo ebbe la sua indelebile ...