PER UNA CLINICA DELLO PSICANALISTA
LIMINARI
Avvertenza per il lettore.
Quando ho scritto il testo del sogno che apre questa raccolta, e che mi sono impegnato ad analizzare, avevo solo dieci anni…
Parlo, naturalmente, della mia età di psicanalista, esercizio che sempre produce sogni nello stile di quello sull’«iniezione a Irma», in cui il primo psicanalista cerca di discolparsi dal fare questo impossibile mestiere.
La maggior parte dei testi che qui si leggono sono stati scritti nel corso di dieci anni, e fanno di me uno straniero nel proprio paese. Quattro testi sono stati scritti per gli amici belgi1 e il quinto, ispirato dal massacro del 13 novembre, è stato pronunciato in spagnolo, a Barcellona, dove da tre anni tengo un seminario su Bataille.
Solo quattro dei testi che restano sono stati scritti all’indirizzo dei colleghi francesi: il primo, sul tema dell’autore nella psicanalisi, è stato scritto come prefazione al racconto, in forma di romanzo, di una psicanalisi dove l’analizzante è stata oggetto di una «effrazione» (titolo che lei ha dato al suo libro2). Gli altri due, pronunciati nella mia associazione3, in cui la funzione dello psicanalista figura nel titolo sia per essere negativizzata sia per privarla della sua principale risorsa, la poltrona. Infine l’ultimo, del settembre 2016, letto in un teatro in cui si esibivano pittori al lavoro, un narratore, musicisti e danzatori, e in cui lo psicanalista occorreva che ci fosse, per far dimenticare le malefatte che potevano a giusto titolo essergli imputate4.
Tuttavia è proprio presso i colleghi francesi che mi sono formato, impegnandomi a giustificare il mio esercizio della psicanalisi avendo degli analizzanti. Intendo dire che è proprio attraverso una scrittura che mi permette di pensare, e che arriva a captare almeno la loro benevolenza per essere letto, se posso dirmi ancora psicanalista.
Ma il mio uditorio è molto ristretto ed è fra i miei amici italiani che questa raccolta è ora pubblicata, come se mettessi con decisione i miei passi in quelli di Amleto dichiarando che c’è «qualcosa di marcio…» nella lingua in cui la psicanalisi ha fatto di Lacan il suo Re, come se non potessi impedirmi di andare a cercare altrove una scusa per dirmi psicanalista.
Al lettore giudicare se lo psicanalista qui dipinto ha qualche possibilità di esserlo ancora.
Jacques Nassif
Paris, marzo 2017
UN FILO DISFATTO SCIOGLIE
I. Preliminare
Nella notte fra l’8 e il 9 aprile 1978. Alla televisione, quella sera, c’era una trasmissione su Barrault di cui ho afferrato un pezzo. Di certe considerazioni sull’effimero e la morte, ho raccolto questa frase di Vitez: «Essere attore vuol dire rovinare la propria vita». Poi ho guardato un film di Delvaux, con l’impressione improvvisa d’aver trovato la chiave del suo titolo: Belle designa come meglio non si può l’impronunciabile del nome di una donna, quando la si desidera.
Poi ho fatto l’amore con una donna, quella che porta il mio nome, molto innamorata quella sera. Mi ha detto: «La mia pelle ti ama». Da parte mia era un atto a corpo morto. Mi sono detto: «Ora potresti morire».
Questo ha subito provocato la domanda: mia madre ha fatto l’amore con lui quella sera? Ne è morto, quel sabato alle tre del mattino, col cuore che finisce di battere?
L’ho saputo solo la domenica sera, quindici giorni fa. Davano un film di Delvaux, Una sera, un treno, che non avevo visto. Avevo acceso la televisione per la disperazione, ed era per cadere ancora una volta sulla morte e la separazione.
La morte è scritta nel nome di questo farmaco (quando si sa che lo scacco al re si dice Shah met e che re si dice anche Aga) di cui Anibal sulla soglia ha vantato i meriti. Questo farmaco biochimico che sopprime l’acidità di stomaco, tiene bene a bada anche l’ulcera, e dunque, per lui, il bisogno di analisi. Ma – sorpresa! –, era lo stesso di cui mio padre al telefono aveva fatto lo spelling, per chiedermi il prezzo in Francia, peraltro molto caro. A. si è accontentato di mostrare la cassetta, senza pronunciare il fatidico nome: Tagamet.
Ah! La farmacia di mio padre! I miscugli soprattutto. Circolo infernale dell’ipocondria: dal male al rimedio del male. Prendere questi farmaci era senza conseguenze? Non è forse anche proprio per questo, per quell’atto più sopra immaginato, che in fin dei conti è morto?
Ma ritorniamo, da questi elementi, alla conseguenza di quella notte: il mio sogno.
II. Racconto
Le sedute di un pomeriggio, in un anfiteatro incassato, come per una lezione di anatomia nella sala autopsie. Vengono interrotte da un gruppo che fa irruzione, guidati da Michel Foucault, per intonare il panegirico di uno dei miei clienti, senza dubbio morto per la psicanalisi. Manifestavano.
Ho fatto subito delle riflessioni sulla scenata che avviene fra i clienti che ancora restano e che mi attendono. Mi dico che non bisogna lasciarsi impressionare, che il can-can che stanno facendo li cambierà e che anche, per quelli che ronzano, sarà un dono.
Al contrario, sono più inquieto a proposito di quel che mi aspetta. È per lei o contro di me che manifestano? Comunque mi lasciano la parola, dopo che il corteo che hanno formato ha finito il suo giro nei posto dove mi trovo, che si è ingrandito al di là grande porta spalancata, fino alle proporzioni di un ingresso, quello del mio liceo o della grande scuola in rue d’Ulm.
Riconosco fra loro uno dei miei compagni di liceo perduto di vista, il poeta, il più vecchio amico in Francia. Mi ricordo che non avevo trovato il suo nome sull’elenco degli insegnanti di architettura che si sono opposti alla riforma d’Ornano pubblicato su «Le Monde». Il non letto di questo nome potrei scriverlo subito, giacché condensa i nomi dei miei due fratelli, morti di morte violenta, con quello del mio ex psicanalista.
Hanno smesso di gridare. Mi lasciano prendere la parola per primo, prima di M. Foucault. Dunque non sono venuti per denigrarmi. Se la prendono con l’istituzione. Sono nervoso. Devo essere breve per restituire la parola al più presto. Non mi viene altro che una frase banale sulla dissociazione, ormai definitiva, fra il nome e il corpo di… – poi il nulla! Non ricordo più il suo nome e mi sento la lingua impastata. Cedo, mostrando emozione, o rispetto del segreto professionale. D’altra parte, giacché sono là per lei, devono pur sapere di che persona si tratta.
Quindi segue la conferenza di M. Foucault. Respiro. Non dice una parola né su lei né su di me. Su una lavagna c’è una sorta di genealogia, non di una famiglia ma di rivoluzionari. Leggo, per esempio, il nome di Babeuf e di Fourier, che ho in effetti incontrato durante la giornata (un articolo sul «Monde des Livres» e un testo di F. Perrier in «La Chaussée d’Antin» che sto leggendo).
Gli accoliti di M. Foucault, nello stile di H., militante della sua causa, scrivono col gesso quei nomi sulla vecchia lavagna verde. Il loro posto nell’albero è predeterminato: ma il vuoto del loro nome resta comunque da completare.
Quel corso magistrale, di virtuosità ed erudizione spettacolari, è accompagnato dalla proiezione di diapositive. Tale nome indicato alla lavagna, dovrebbe corrispondere a tale riquadro del sapere, illuminato dalla sua immagine sullo schermo. Ma lì, e questo è proprio divertente, il sapere era approssimativamente rappresentato da un’invenzione tecnica, illustrato da un’immagine stereotipata. Non si deve dimenticare, viene dottamente ricordato, che non c’era ancora l’illuminazione elettrica o l’allacciamento alla fognatura.
Certo, si tratta di rifiutare l’idealismo che vorrebbe confondere il pensiero con i progressi della tecnica. Ma, in effetti, tutto l’insegnamento del maestro viene così riportato alla sua giusta dimensione di semplice applicazione del principio secondo il quale non si deve cadere nell’anacronismo. Rido sotto i baffi.
Mentre scorrono le diapositive che parlano da loro stesse, M. Foucault si gira verso di me per confidarmi di aver ricevuto in questi ultimi tempi una o due telefonate di mia madre che, con diversi pretesti, voleva metterlo a parte dell’inquietudine che le ispirava il fatto di vedermi così sempre dedicato nell’opera smisurata del mio grosso libro. Mi rivela tutto ciò con un gran sorriso.
Di colpo avrei dovuto ritrovare istantaneamente il nome che non mi veniva. Ma è, in questo caso, una specie di spago che si srotola nella mia bocca, bloccato fra due denti. Tiro, e arriva tutto.
Mi risveglio con la voglia di bere e di urinare. Doveva essere intorno alle tre del mattino, l’ora della morte di mio padre…
III. Analisi
Nel momento in cui scrivo il nome mi sfugge ancora, anche la bocca è slegata. Eppure so di chi si tratta. Le è accaduto di telefonare a M. Foucault con il quale ha avuto degli incontri episodici, ma piuttosto intensi, al punto che ha dovuto metterla alla porta con decisione. Così mi ha raccontato, lasciando intendere che è quel che provoca sempre.
Comunque non tutte le porte si sono chiuse. Dunque non è morta, almeno per quanto ne so, anche se attualmente non frequenta più il mio divano. Aveva interrotto la sua analisi perché si era trasferita in provincia. Una domenica mattina mi ha chiamato da casa di suo padre per dirmi che avrebbe letto il mio libro, quando sarebbe uscito, e che si vedrà.
Ho pensato che dall’analisi del sogno, nella quale mi sto impegnando, quel nome sorgerà di sicuro dalla rimozione. Alla mala parata consulterò la mia agenda, quella che si trova sul tavolo dove scrivo, che è nello stesso tempo il mio posto di ascolto (com’è possibile in una poltrona, senza niente davanti a sé per scrivere?).
Il peso del Reale mi ha costretto a differire il momento di questa scrittura. Lei ha richiamato, due giorni dopo il mio sogno trascritto la stessa notte per sicurezza. E subito ha urlato il suo nome al telefono (che mi è così ritornato subito in mente!) per annunciarmi che si giudicava colpevole di aver provocato l’attacco di suo padre, e soprattutto del suo trasferimento all’ospedale, subito seguito dalla sua morte. Riprenderà dunque la sua analisi? Si vedrà.
Ora è importante scrivere – perché ci sia differenza fra la sua analisi e quella del mio sogno, senza lasciarmi trascinare dalla «nera marea di fango dell’occultismo», come si esprime il buon Freud, che comunque credeva nella telepatia. Tutto quello che so, da analista quale sono, è che non è il filo buono.
Si tratta, in effetti, di scioglierne uno, e in primo luogo sul mio corpo; ma sul ventre e non in bocca, dato che esco dall’ospedale dopo un intervento da tempo programmato e previsto, così come l’avevo fissato, durante le vacanze scolastiche. Mi toglieranno i punti il lunedì della settimana prossima e non la notte del mio sogno. L’inconscio non fa certo questa differenza. Ma l’allusione è troppo trasparente perché sia lì che si nasconde il desiderio del sogno: è solo l’appoggio fornito dalla realtà.
La confusione delle date, più che lo spostamento sul corpo, avvicina la sua decifrazione. «Che amerei, si traduce: potermi defilare (sic!) da questo lavoro di analista, fosse solo per una settimana!». M. Foucault, incoronato confidente di mia madre, e che interrompe il mio lavoro al momento opportuno, non me ne offre forse la possibilità?
Questo mi apre un’altra pista. Quel maestro, con il suo atto, non diventa l’interpre...