XXI
Il falegname
Tra gli artigiani, chiamati a palazzo per allestire gli arredi e i paramenti dei festeggiamenti, veniva chiamato Zhang Yi, un falegname rinomato, perché sapeva creare grandi cose da piccoli legni.
Preciso, silenzioso e geniale, col legno poteva creare qualunque cosa, perché veniva dalla natura e la natura era in ogni cosa. Cao Tian ne aveva parlato all’imperatore, che aveva espresso il desiderio di sistemare la propria camera. Voleva un tavolino, un letto nuovo e più comodo e una specchiera più grande, perché in quella che aveva non entrava con tutto il corpo e lui non sopportava di specchiarsi a metà.
L’eunuco chiese disponibilità all’artigiano, che lo ascoltò dapprima con diffidenza. Quante volte aveva dovuto rifare un lavoro, perché il committente non era rimasto soddisfatto? E non perché il lavoro fosse stato eseguito negligentemente, ma perché la richiesta veniva da persone capricciose. Zhang Yi, con quel tipo di clienti, non voleva avere a che fare. Gli fu spiegato che la richiesta dell’imperatore non era capricciosa e che sarebbe stato pagato bene. Gli illustrò cosa voleva esattamente che costruisse, facendogli uno schizzo. Il falegname era un tipo sveglio e intuì subito il da farsi.
«Se l’imperatore si fiderà di me e del lavoro delle mie mani, se mi pagherà bene, allora ci penserò su e vi farò una proposta; comunque... – aggiunse indicando lo schizzo sul tavolo – quello è tutto sbagliato... Non c’è niente in proporzione... Non saresti stato un buon falegname!»
Quella reazione fece ben sperare Cao Tian e infatti l’artigiano accettò. Rimasero d’accordo che si sarebbe fatto vivo lui. Dell’intera richiesta imperiale, scelse il progetto del mobile più piccolo: un tavolino da collocare di fianco al letto, dove appoggiare gli oggetti per la notte.
“Ma quanto grande dovrei farlo quest’oggetto?”, pensava rigirando tra le mani la tavola di legno e continuando ad armeggiare per trovare le misure giuste per tagliarlo.
“Cosa dovrà mai appoggiarci un imperatore su un piano di legno così? Un bicchiere d’acqua? Una lucerna? Un ventaglio? Cosa ci mettono gli imperatori su un tavolino di fianco al letto?”, e tra lo sconfortato e il divertito, Zhang Yi iniziò il suo diligente intaglio.
Ci avrebbe impiegato poco tempo e poco legno, perché doveva sbrigare alcuni lavori in arretrato e quel mobilio imperiale, cui era stato detto di dare precedenza, gli aveva scompigliato l’ordine delle consegne. Non gli piaceva affatto che i clienti si lamentassero di eventuali ritardi e, se c’era un aspetto del suo lavoro sul quale non aveva mai permesso a nessuno di interferire, era proprio la puntualità e il rispetto verso il cliente.
Neppure a sua moglie dava retta quando lo chiamava per cena; abitando al piano di sopra, le bastava chiamarlo e lui sentiva, ma se doveva terminare un lavoro era capace di fare notte fonda e così il cibo si freddava. E poi gli piaceva consegnarlo direttamente a casa del cliente. Se qualcosa non fosse andato bene, magari una misura sbagliata o un’anta fuori squadra, allora preferiva sistemarla direttamente sul posto. “Solo un lavoro ben fatto può essere ben pagato”, questo era il suo motto.
«Prendi con te qualcuno che ti dia una mano! – gli suggeriva la moglie – Non vedi che non ci dormi la notte, tant’è il lavoro che devi sbrigare?», ma lui ignorava il suggerimento e a lungo andare la moglie aveva smesso di dirglielo. Il suo Zhang Yi era fatto così, un brav’uomo che sul lavoro era perfetto; la bottega era la sua seconda casa. Diceva che faceva bene da solo, perché sapeva dove trovare il pezzo di legno giusto: gli arnesi li riponeva sempre al loro posto e, se in bottega ci fosse stato un apprendista, avrebbe perso più tempo a spiegargli le cose che a farle. E poi l’unico che avrebbe voluto con sé sarebbe stato suo figlio, ma il destino era stato ingrato.
Del figlio non parlava con nessuno, neppure con la moglie, per evitare a entrambi di soffrire.
Lo chiamava ancora sottovoce, quando restava in bottega a lavorare fino a tardi, allora sì che gli si dedicava lungamente, come se lo avesse avuto ancora lì vicino a sé, intento a giocare con i trucioli che cadevano dal tavolo.
Gli aveva costruito una piccola nave con tanti remi e aveva ricavato da una mezza botte una vasca che riempiva d’acqua, dove il bambino faceva navigare la sua barchetta.
«Dov’è che la porti quella nave, Liu Ye?», gli chiedeva.
«Lontano da qui, voglio andare dove non è mai andato nessuno, così cercherò delle conchiglie per la mamma e gliele regalerò per il suo compleanno.»
Quella connaturata voglia di avventura e la dolcezza di quel bambino col suo briciolo di anni lo ripagava di tutta la fatica che faceva in veste di padre e marito per dar da mangiare alla famiglia e per tirare avanti ogni giorno.
E la nave era ancora lì, appoggiata sullo scaffale, tra gli arnesi da lavoro e lì sarebbe rimasta. Osservarla ogni tanto gli era di conforto.
Zhang Yi era anche un bravo laccatore e le richieste degli ultimi anni dimostravano che era aumentato l’interesse per il mobilio che usciva dalle sue mani.
Così la bottega gli riempiva la vita e, se la gente tornava per chiedergli altri lavori, significava che era rimasta soddisfatta di quelli precedenti: gente soddisfatta, ricavi in vista. La sicurezza del guadagno gli teneva la mente occupata e non pensava ad altro che a far mobili e sculture. Se quel tavolino non fosse piaciuto all’imperatore, non sarebbe stata in fondo una gran perdita. Comunque, una settimana più tardi lo finì e lo consegnò a palazzo.
«Bravissimo, il lavoro è pregevole! – gli disse Qin – Adesso mi farai un grande letto, comodo mi raccomando, il mio non mi contiene più! Ti pagherò bene, terrai i contatti con Cao Tian» e, rivolto all’eunuco, gli disse: «Dai a quest’uomo ciò che gli spetta e seguilo fino alla consegna dei prossimi lavori. Ora però lasciatemi solo».
Zhang Yi chinò il capo in segno di riverenza e uscì dalla sala camminando all’indietro, come esigeva il protocollo di corte per chiunque si palesasse alla presenza dell’imperatore. Ritornò alla bottega e, mentre era intento a cercare il tipo di legno giusto per il grande letto di Qin, ripensò a quell’uomo, così grande, seduto sull’inavvicinabile scranno reale nel dorato palazzo e così distante dalla vita dei sudditi. Con quella cortina di nappe che gli ornavano la fronte era quasi ridicolo e il suo volto... quanta tristezza trapelava da quel viso!
Il sovrano, stanco e grigio d’umore, ormai delegava ai comandanti ogni genere di trasferta e aveva smesso di ricevere rappresentanze dai paesi vicini.
Lo annoiava qualunque cosa e dimostrava interesse solo per coloro che gli parlavano dell’Aldilà, di medicamenti utili a superare il dolore fisico cui era soggetto. Non si trovavano rimedi efficaci e la soglia di sopportazione agli spasmi addominali si era abbassata notevolmente.
Zhang Yi si era sentito un misero uomo davanti a Qin, augusto sovrano; però, quando era nella sua bottega, nessuno poteva negargli, pur essendo un umile suddito, la libertà di ragionare su tutto ciò che voleva. Si sentiva libero in casa sua.
E così tra sé e sé pensava: “Ma perché un uomo come l’imperatore, così potente in quella meravigliosa dimora, dev’essere tanto triste? Lui che ha intorno ogni ricchezza? Se fosse toccata a me tanta fortuna avrei sorriso alla vita ogni giorno, senza chiedere altro!”.
Non contava più le volte in cui si era trovato con niente da mangiare, le volte che non era riuscito a vendere nulla e, ancora più spesso, quelle in cui aveva maledetto il mestiere di falegname, che aveva appreso dal padre, che l’aveva a sua volta imparato dal padre di suo padre, così via per intere generazioni. Gli sarebbe piaciuto molto di più andar per mari e forse suo figlio doveva aver preso quella passione proprio da lui.
Facendo quel mestiere, si era creato un giro di conoscenze che gli aveva assicurato una vita dignitosa. Verso quell’uomo così altolocato, così potente nella sua indiscussa sovranità, avrebbe dovuto nutrire rispetto e riverenza: a questo era obbligato ciascun suddito, a devozione e obbedienza.
“Ma io non posso farlo, non...