Resilienza
La psicologia positiva
Analizziamo il contesto di riferimento che nell’ultimo decennio ha permesso la crescita di importanza nella considerazione da parte degli studiosi della salute del concetto di resilienza, per poi focalizzarci sugli studi condotti in tale campo.
La psicologia è considerata per lo più una scienza legata alla sofferenza. Essa si è concentrata in prevalenza sul riparare i danni, riferendosi ad un modello di funzionamento degli esseri umani basato sulla malattia il cui obiettivo principale era curare le patologie mentali. Tale concezione viene proposta a partire dal modello concettuale che struttura il DSM (Diagnostic and Statical Manual of Mental Disorders). Infatti si evidenzia come storicamente la ricerca nell’ambito della salute mentale sia stata fortemente sbilanciata dalla parte del disagio psicologico e la salute fatta coincidere con l’assenza di sintomatologia piuttosto che con la presenza di benessere (Ryff & Singer, 1996).
Ancora oggi, nell’immaginario comune, lo psicologo viene identificato come colui che interviene su chi sta male al fine di farlo stare meglio. E’ necessario non perdere di vista anche gli altri obiettivi della psicologia, come rendere la vita degli individui più produttiva e soddisfacente identificando e sviluppando i talenti.
L’intervento su ciò che non funziona non necessariamente corrisponde alla promozione di un funzionamento ottimale, cosi come la mancanza del malessere non coincide del tutto con la presenza del benessere. Il riconoscimento di questa mancata corrispondenza ha spinto molti psicologi ad avviare un cambiamento di rotta concretizzato nella nascita di questa nuova branca della psicologia: la psicologia positiva. Il focus si sposta dal riparare ciò che non funziona a coltivare anche le qualità positive. Essa si propone di studiare la forza e la virtù che ha a che fare con il lavoro, l’educazione, l’introspezione, l’amore, la crescita, il gioco (Seligman & Csikszentmihalyi, 2000). La psicologia positiva considera la persona cercando di individuare in essa cosa funziona, cosa è giusto e cosa sta migliorando; si occupa di ciascuna persona e in ciascuna persona mira a individuare competenze e abilità al fine di promuovere il loro potenziamento. Non intende negare la patologia, la sofferenza o il disagio, ma si propone di ricercare una via alternativa al modello patologico che partendo dal riconoscimento degli aspetti positivi e delle potenzialità umane miri al loro sviluppo e miglioramento (Sheldon & King, 2001).
La necessità di fondare la psicologia positiva quindi, si comincia ad avvertire quando ci si pone l’interrogativo del perché, a seguito di un evento traumatico, persone in precedenza fiduciose e di successo diventavano sfiduciate e depresse, mentre altre malgrado le dure prove che hanno subito, riescono a mantenere la loro integrità e serenità. Da questa constatazione sorge spontaneo chiedersi da quali forze siano guidati questi individui. Per rispondere a questo quesito bisogna valorizzare le esperienze soggettive quali il benessere e la soddisfazione, focalizzandosi sui tratti positivi individuali: la capacità di amare e di lavorare, il coraggio, le abilità interpersonali, la perseveranza, la capacità di perdonare, l’orientamento al futuro, la saggezza. A livello di gruppo ci si focalizza sulle virtù civiche e le istituzioni che aiutano l’individuo ad essere un buon cittadino: la responsabilità, l’educazione, l’altruismo, la civiltà, la moderazione, la tolleranza (Seligman & Csikszentmihalyi, 2000).
Alla base di questo approccio vi è il concetto di prevenzione, partendo dal presupposto che il modello basato sulla malattia, che consisteva nel lavorare solo sui punti deboli, non era efficace in tal senso, si imponeva sempre più la necessità di una scienza basata sulla forza e sulla resilienza. Gli individui non dovevano più essere considerati passivi, ma esseri attivi, in grado di scegliere, di assumersi rischi e responsabilità.
Nell’ottica della prevenzione le azioni più efficaci sono quelle che si rivolgono non solo e non tanto ai segmenti della popolazione a rischio ma alla sua totalità; vanno promosse le strategie e gli interventi che mirano alla costruzione sistematica delle competenze, vanno incoraggiati gli aspetti positivi del sé che esistono in potenza e necessitano di aiuti e sollecitazioni per assumere lo stato di reali punti di forza. È necessario, pertanto, secondo Seligman (Seligman, 2002), spostare l’attenzione sul rafforzamento delle qualità positive, che fungono da protezione contro le difficoltà della vita, in modo da comprendere come promuoverle tanto nei singoli individui quanto nella popolazione in generale.
Il compito della psicologia positiva è proprio quello di promuovere e favorire il passaggio dall’intento di riparare e prevenire ciò che è disfunzionale a quello di promuovere ciò che, invece, funziona e può funzionare meglio. In questo modo verrà perseguito anche il terzo obiettivo della psicologia e quindi rendere più forti e produttive le persone sane e consentire la messa in atto delle potenzialità umane più elevate (Dunn & Dougherty, 2005). Tale approccio è fondamentale in un’ottica di promozione del benessere anche nei contesti lavorativi, come vedremo nel proseguimento di questo lavoro.
Tre sono i pilastri e i principali temi di studio di questa disciplina: il vissuto soggettivo positivo del presente, passato, futuro; l’analisi delle caratteristiche umane positive (punti di forza e virtù); il funzionamento positivo delle persone, delle famiglie, delle comunità e delle istituzioni (Seligman, 2002).
I paradigmi di riferimento della maggior parte degli studi e delle ricerche si possono ricondurre da una parte a una concezione edonica di benessere (Kahneman, 1999), in base alla quale il benessere consiste principalmente nel conseguimento di un piacere immediato, dall’altra a una concezione eudaimonica (Waterman, 1993), secondo la quale il benessere è qualcosa di più del piacere, rappresenta la realizzazione delle potenzialità umane e della propria natura. Tali prospettive saranno trattate successivamente, ora vediamo più nel dettaglio il concetto di resilienza.
I significati della parola “resilienza”
Il termine “resilienza” deriva dal latino resilio (da re e salio) che significa rimbalzare; non è un concetto unitario ma assume significati diversi a seconda degli ambiti e delle teorie in cui la parola viene utilizzata.
In ingegneria, la resilienza è la capacità di un materiale di resistere a un urto improvviso senza spezzarsi. Più precisamente la resilienza è definita come l’energia per unità di volume assorbita da un materiale portato a rottura in maniera fragile e si misura sottoponendo un campione del materiale stesso a prova d’urto tramite un magio a forma di pendolo (pendolo di Charpy), ed è ottenuta direttamente calcolando la differenza tra l’altezza iniziale da cui esso viene fatto cadere e l’altezza che raggiunge dopo aver rotto il campione del materiale sottoposto a misura. Il contrario della resilienza è l’indice di fragilità.
In informatica, la resilienza viene definita come la capacità di un sistema di adattarsi alle condizioni d’uso e di resistere all’usura in modo da garantire la disponibilità dei servizi erogati.
In ecologia e biologia, la resilienza è la capacità di autoripararsi dopo un danno. Le specie che presentano alti tassi di resilienza vengono definite r-strateghe. In linea di massima in un ecosistema ad una maggiore variabilità dei fattori ambientali corrisponde un’alta resilienza delle specie che vi appartengono.
In psicologia, la resilienza viene vista come la capacità dell’uomo di far fronte in maniera positiva agli eventi traumatici, di riorganizzare positivamente la propria vita dinanzi alle difficoltà. Persone resilienti sono coloro che immerse in circostanze avverse riescono, nonostante tutto e talvolta contro ogni previsione, a fronteggiare efficacemente le contrarietà, a dare nuovo slancio alla propria esistenza e perfino a raggiungere mete importanti.
La resilienza in psicologia
Il concetto di resilienza è entrato nell’ambito della psicologia dello sviluppo negli anni Settanta grazie all’affermarsi delle ricerche sulla promozione che mirano a comprendere perché molti individui riescono a far fronte autonomamente a condizioni di forte svantaggio, ossia quali siano le forze interne e esterne, che consentono alle persone di fronteggiare rischi e difficoltà (Oliverio ferraris, 2004). Si può quindi capire perché con lo svilupparsi della psicologia positiva si sia verificata una ripresa dell’interesse a livello internazionale nei confronti di questo concetto applicandolo alle ricerche sullo stress (Nelson & Cooper, 2005).
Tra le definizioni del concetto di resilienza in ambito psicosociologico troviamo: “processo positivo di adattamento nonostante la presenza di rischi e difficoltà” (Masten, 1994), successivamente migliorata come “competenza che si esprime nel contesto di sfide significative all’adattamento e allo sviluppo” (Masten & Coatsworth, 1998); “capacità umana universale di affrontare, superare e addirittura uscire rinforzati da esperienze negative. La resilienza può essere individuata a livello della persona, di un gruppo e di una comunità e fortifica le capacità vitali di coloro che ne sono coinvolti” (Grotberg, 1995); “adattamento positivo in risposta alle avversità” (Waller, 2001); “qualità che aiuta gli individui o le comunità a resistere e superare le avversità” (Newman & Blackburn, 2002).
Come si evince da queste definizioni, la resilienza indica un aspetto fondamentale per tutti gli esseri umani: la capacità di fronteggiare situazioni di crisi attivando energie e risorse al fine di proseguire lungo una traiettoria di crescita. Un punto particolarmente significativo è che la resilienza non viene intesa come una qualità statica, bensì come il risultato di un’interazione dinamica tra l’individuo e l’ambiente. Come altre abilità, la resilienza può essere acquisita attraverso un processo di apprendimento che deve essere sostenuto e incoraggiato dalle istituzioni formative (Labbrozzi, 2004).
La parola resilienza è associata ai concetti di tensione, stress, ansietà, cioè a tutte quelle situazioni più o meno traumatiche che ci colpiscono durante la vita e si riferisce alla capacità insita nella natura umana, ma che non sempre si mette in atto, di reagire positivamente alle difficoltà. Quindi è più della semplice capacità infantile o adolescenziale di resistere allo stress o a traumi violenti, è anche la capacità di usare l’esperienza maturata in situazioni difficili per costruire il futuro (Fontana, 2002).
Lo studio dei processi di resilienza si basa sulle capacità delle persone di affrontare situazioni difficili, sul piano oggettivo oltre che soggettivo, raggiungendo un livello di consapevolezza di sé più elevato ed una maggiore capacità di adattamento ai ruoli e ai compiti sociali. Il concetto di resilienza è stato proposto allo scopo di spiegare e comprendere quali variabili, interne ed esterne all’individuo, permettono alle persone di padroneggiare con successo le situazioni di crisi.
Secondo l’Institute for Mental Health Initiatives (IMHI, 2000) la resilienza comprende sei qualità: valore, speranza e ottimismo, competenza, bontà, potere, comunità.
Secondo Wolin e Wolin (Wolin & Wolin, 1993) insight, indipendenza, relazioni, iniziativa, moralità, creatività e senso dell’umorismo caratterizzano le persone resilienti. Tali variabili sono sovrapponibili, alcune fanno riferimento a qualità interne all’individuo, mentre altre indicano risorse disponibili nell’ambiente.
Infatti la resilienza è strettamente legata alla capacità di esaminare se stessi e di riflettere nel corso della propria vita, ovvero l’introspezione e l’insight, ed è connessa con l’abilità di mantenersi a una certa distanza, fisica ed emozionale, dai problemi senza isolarsi, in modo da creare un distacco che coinvolge e rende presenti a un evento senza esserne assorbiti. Le persone resilienti sanno di non dover risolvere i loro problemi da soli ma che possono contare di un supporto sociale per realizzare dei cambiamenti. La capacità di interazione, ovvero lo stabilire rapporti intimi e soddisfacenti selezionando partner positivi e stabilendo dei confini sicuri tra sé e l’altro, e la determinazione, ovvero avere chiaro ciò che è giusto e sbagliato difendendo le proprie convinzioni e sapendo affrontare i problemi, permette una capacità di gestione della propria vita e dei propri spazi (Fontana, 2002). Resiliente è chi sa sopportare i dolori senza lamentarsi, chi sa reggere le difficoltà senza disperarsi, chi ha il coraggio di intraprendere una vita che sa essere tortuosa, e per questo riesce a portare a termine quanto intrapreso. Resilienza è mettere ordine nelle esperienze di gioia e di dolore con un filo di correlazioni di significati che rende plausibili le interpretazioni positive e ristruttura le esperienze negative. Riconoscere l’impossibilità di cambiare il corso degli eventi, senza subire con rassegnazione ma credendo nella capacità di generare nuove potenzialità (Casula & Short, 2004).
Le principali variabili descritte in letteratura come elementi costitutivi del concetto di resilienza verranno riprese e approfondite nel proseguimento di tale lavoro.
Dalla rivisitazione della letteratura scientifica internazionale sul concetto di resilienza è possibile identificare gli ambiti all’interno dei quali si situa il lavoro dei ricercatori e dei professionisti. Tali ambiti possono essere sinteticamente suddivisi in: resilienza congiunturale, dovuta ad una crisi sfavorevole e ad avvenimenti improvvisi e destabilizzanti come guerre e catastrofi naturali; resilienza congiunturale e strutturale, che comprende situazioni collegate alla presenza di deficit congeniti o acquisiti; resilienza strutturale, legata a situazioni sfavorevoli o a stress cronici come situazioni di povertà, abbandono, maltrattamento (Malaguti, 2005a). Lo stress lavorativo potrebbe rientrare nella categoria della resilienza strutturale.
Nell’età infantile e adolescenziale
Gli studi sulla resilienza hanno avuto un excursus storico particolare. Partendo dalla metà degli anni Settanta si sono intensificati, soprattutto in contesti di ricerca nord-americani, gli studi volti a identificare gli elementi di rischio nell’infanzia e nell’adolescenza e le relative strategie di adattamento a situazioni di stress psicologico-sociale. Tali ricerche hanno utilizzato il concetto di resilienza intendendolo come una capacità di adattamento alle avversità in particolare riferimento al mondo infantile e adolescenziale.
Nell’arco dell’ultimo trentennio, possiamo individuare quattro posizioni teoriche relative al concetto di resilienza e alla sua evoluzione, in riferimento all’età evolutiva: abilità che sorge come fattore di risposta a situazioni di rischio determinate da una posizione socio-economica e biografica svantaggiata (Werner, 1993; Rutter, 1979); resistenza allo stress che implica sforzi significativi per mantenere un equilibrio interno (Garmezy, 1974); capacità di recupero da eventi traumatici che invalidano le risorse di coping e infine come hardiness (Kobasa, Maddi & Kahn, 1982).
Tre sono i modelli che caratterizzano le ricerche sulla resilienza nello sviluppo: modelli focalizzati sulla variabile, sulla persona, sul percorso evolutivo dei bambini resilienti (Masten & Reed, 2002).
I modelli focalizzati sulla variabile sono tre: modelli additivi i cui vantaggi e rischi contribuiscono indipendentemente alla competenza o all’adattamento positivo del bambino, modelli interattivi dove troviamo la presenza di effetti moderatori (vulnerabilità e fattori protettivi) che influenzano le variabili rischio/vantaggio e modelli indiretti dove un fattore protettivo previene una minaccia di rischio.
I modelli focalizzati sulla persona identificano le persone resilienti in gruppi ad alto rischio o in popolazioni normali e cercano di capire come essi differiscano dalle altre persone che non hanno la stessa capacità di affrontare le avversità. Le persone resilienti presentano, secondo questo modello, un alto livello di rischio o avversità e un livello di competenza o adattamento alto.
Studi sulla resilienza nello sviluppo hanno indagato il modo di vivere di bambini in condizioni avverse. Rutter (Rutter, 1979) ad esempio si focalizzò sui bambini con genitori affetti da disturbi psichici. Egli notò con sorpresa che molti di essi non presentavano malattie mentali e comportamentali disadattati, nonostante i loro genitori presentassero disagi mentali. Garmezy e colleghi (Garmezy et al., 1984) seguirono bambini con uno status socioeconomico basso che vivevano in ambienti familiari negativi. Alcuni mostrarono bassi livelli di competenza mentre altri presentarono alti livelli di competenza non mostrando problemi comportamentali.
Queste ricerche, pur differendo dalla popolazione presa in esame, approdarono a risultati assai simili: contrariamente a quanto atteso alla luce dei modelli dello sviluppo umano, la maggior parte dei giovani non andava incontro inevitabilmente a esiti problematici, ma anzi presentava un sufficiente equilibrio affettivo che corrispondeva ad un livello di funzionamento adeguato.
Uno degli studi più importanti è stato condotto da Werner e colleghi (Werner et al., 1992) che seguirono un gruppo di bambini dell’isola di Kuai, nell’arcipelago delle Haway (USA), per più di trent’anni. Tale studio longitudinale, iniziato nel 1955, ha seguito l’evoluzione nel tempo delle capacità di adattamento affettivo e relazionale in bambini che provenivano da famiglie svantaggiate. Sulla base della presenza di almeno quattro fattori di rischio, come disoccupazione dei genitori, basso reddito familiare, lutti e conflitti familiari cronici, un terzo di loro fu indicato come bambini ad alto rischio perché nati in un ambiente povero e con problemi. Per molti dei bambini sottoposti all’indagine ne erano derivate conseguenze considerate catastrofiche dal punto di vista dell’adattamento sociale e della salute mentale. Tuttavia di questi bambini, un terzo divennero adulti competenti e sicuri di sé con un livello soddisfac...