Un'orchidea al Polo Nord. Storia di una schizofrenia
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Un'orchidea al Polo Nord. Storia di una schizofrenia

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Un'orchidea al Polo Nord. Storia di una schizofrenia

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A volte la vita ci riserva, senza preavviso e senza un perché, degli schiaffi durissimi ai quali non possiamo in nessun modo sottrarci.Questo è il racconto dello schiaffo più terribile che io abbia mai ricevuto, al quale ho potuto reagire soltanto cercando di capire.Il ceffone del quale vi parlo si chiama Schizofrenia e mi ha colpito in pieno viso, quando la malattia psichiatrica si è come impadronita della mente di mia madre, Francesca.Dopo tanti anni ho deciso di raccontarne la storia, nella speranza che ciò renda un po' meno inutile la sua soff erenza, perché credo che condividere le esperienze, anche quelle più terribili, aiuti a capirle e ad affrontarle.In Italia lo stigma sociale della follia porta comprensibilmente i familiari dei malati a chiudersi in se stessi, evitando così il confronto con chi è vittima della stessa sorte, mentre nei paesi anglo-sassoni la tradizione del confronto è più radicata.Personalmente sarei veramente soddisfatto se questa storia divenisse l'inizio o una parte di un interminabile tam-tam!

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Informazioni

Anno
2012
ISBN
9788889845691

Mia madre e la sua famiglia

La mamma nacque alla fine degli anni venti, quarta di cinque figli, da genitori di origine contadina che si erano da qualche tempo trasferiti in città.
Suo padre, per me il nonno Tullio, era un mutilato ed eroe di guerra: a soli 18 anni aveva combattuto per la patria ed era stato ferito, più tardi fu addirittura nominato cavaliere di Vittorio Veneto e lui di questo ne andava veramente fiero.
Grazie a ciò il regime dell’epoca gli aveva dato la possibilità di avere una casa individuale in città, dove un quartiere era stato appositamente costruito per i mutilati della prima guerra. Questa fu forse l’unica fortuna della famiglia che, a parte la casa da signori, era molto povera.
Io ricordo mio nonno da vecchio e per me era l’unico che aveva sempre una caramella in tasca ed anche il solo della famiglia di mia madre che non aveva paura di un bacio o di un abbraccio. Ma ricordo anche il modo nel quale era trattato in casa dai suoi figli, quasi come un ospite scomodo in casa sua.
Era un uomo buono, ma sicuramente molto fragile e, se fosse stato per lui, forse la famiglia avrebbe avuto un destino anche peggiore. Negli anni quaranta aveva addirittura abbandonato moglie e figli per arruolarsi come volontario nella seconda guerra, quando a quarant’anni suonati nessuno lo avrebbe più cercato.
Forse con la divisa si sentiva più uomo che a casa sua.
Ricordo anche, dai racconti sul nonno, che beveva e si giocava la paga a carte; addirittura si narrava di quando, negli anni cinquanta, si era quasi giocato la casa, che fu salva solo grazie a suo figlio maggiore, lo zio Romeo, il quale pagò tutte le cambiali che il nonno aveva firmato.
Per tutto ciò sua moglie e i suoi figli, non l’avevano mai perdonato. Ricordo anche che da vecchio il passatempo preferito del nonno era giocare a solitario, con quelle carte romagnole consumate sempre dai soliti gesti, giocava per ore senza neanche accorgersene.
Ho spesso pensato che, all’origine dei suoi comportamenti, vi fosse un disagio profondo del quale nessuno mai si occupò.
Poi c’era sua madre, la nonna Bianca, che era la vera capofamiglia; lei in realtà la campagna non l’aveva mai abbandonata, era analfabeta e visto che per vivere non si poteva contare solo sui soldi che guadagnava il nonno, aveva sempre continuato a fare la bracciante.
Con i figli era severissima e non aveva tempo per smancerie, si rigava dritto e basta!
Dietro casa teneva anche l’orto e le galline: ricordo ancora la rapidità del movimento col quale tirava loro il collo e in casa era l’unica ad avere il coraggio di farlo.
Mi chiedo perché spesso le donne forti abbiano accanto uomini deboli e chi abbia bisogno di chi.
La mamma, durante la malattia, parlava spesso di lei come fosse certa che non le volesse bene, addirittura a volte nei suoi deliri sosteneva che qualcuno le avesse detto che l’avevano adottata. In realtà forse la durezza del carattere della nonna, poco incline o forse addirittura incapace di abbandonarsi alle emozioni, male si era incontrata col bisogno di affetto e sicurezza della mamma e forse anche dello zio Silvio.
Inoltre la nonna doveva lavorare e i figli, appena svezzati, passavano alle cure delle sorelle più grandi, che facevano del loro meglio, convinte forse che così i figli sarebbero cresciuti più forti.
Il primogenito, lo zio Romeo, era l’uomo di casa; lavorava e studiava contemporaneamente, in più seguiva l’istruzione delle sorelle e del fratello: era lui ad andare alle udienze e a decidere chi doveva studiare.
Si diplomò verso la fine della guerra e, dopo pochi anni, aveva già fatto carriera all’ENEL, così continuò per molto tempo a sostenere la famiglia con i suoi guadagni.
Per sua madre era il figlio perfetto, quello che non sbagliava mai.
Ricordo anch’io che la nonna non prendeva mai una decisione importante senza prima consultare lo zio Romeo, il quale non si sottrasse mai al ruolo che la famiglia gli aveva cucito addosso.
Lui e mia madre sono gli unici ancora vivi e Romeo per tutta la vita ha seguito le sorti della sua famiglia con la responsabilità di un vero padre e ancora adesso, che ha quasi novant’anni, non lascia passare una settimana senza chiamare per informarsi di sua sorella.
La nonna, come accade spesso col primo figlio maschio, era riuscita anche se non intenzionalmente, a fare di lui il suo uomo ideale: quello che avrebbe sognato di amare o che sarebbe stata lei da uomo.
La mamma invece lo ammirava, lo temeva e forse, come ho scritto prima, ne era in cuor suo innamorata.
Anche lui, somigliando alla nonna, era ed è molto concreto e poco portato per le smancerie. Io, forse influenzato dall’atteggiamento di mia madre, da bambino lo temevo e quando mi avvicinavo a lui per salutarlo con un bacio o un abbraccio come si usa tra parenti, si tirava indietro infastidito.
Durante un racconto recente di aneddoti del passato, lo zio Romeo mi narrò orgoglioso di quanto la mamma da giovane fosse brava. Lei doveva essere adolescente quando lui, poco più che ventenne, partiva da casa alle sei del mattino con la vespa, per andare a lavorare a Bologna: ebbene, la mamma si alzava sempre prima di lui, preparava il caffè, apriva il cancello e se era tardi lo aiutava persino ad allacciarsi le scarpe; se questo non è amore!
Poi c’erano le sorelle: la zia Clelia e la zia Lella; solo un anno di età le divideva e crebbero praticamente facendo tutto assieme, fino a quando a quarant’anni la più piccola delle due si sposò.
La mamma, quando rimuginava il passato, parlava della loro unione come di un’alleanza contro di lei, perché lei era più bella e andava bene a scuola.
Di certo con due sorelle più grandi non doveva essere stato facile farsi spazio in famiglia. La zia Clelia era sempre stata malata, era affetta da una cardiopatia congenita quindi, a causa della sua fragilità, aveva sempre beneficiato di un trattamento di favore da parte della nonna e questo forse accese un po’ di rivalità tra le sorelle, ma soprattutto si tradusse per lei, negli anni, in un pretesto in più per evitare le sfide della vita. Infatti non si sposò mai, non lavorò mai e dedicò tutta la vita alla famiglia. E pensare che da giovane, come diceva lei, era piena di filarini… ma uno era troppo basso, l’altro era troppo alto o parlava solo il dialetto; nessuno quindi superò mai la sua severissima selezione, fino a quando, incredibile ma vero, a sessant’anni trovò il suo primo fidanzato: era forse troppo basso e parlava un dialetto perfetto ma non era più sola e questo era ciò che contava.
Pensandoci ora il fidanzato della zia Clelia era come tipo molto somigliante al nonno: era un uomo semplice, di campagna, che nonostante l’età la trattava come se fosse stata la sua bimba o la sua principessa.
Continuo però a chiedermi perché alla zia Clelia occorsero sessant’anni per lasciarsi amare! Nonostante il fidanzato, la zia continuò comunque a vivere nella casa materna, dove la nonna ormai vecchia e lo zio Silvio malato avevano bisogno di lei, sia per le cure che per la gestione economica della famiglia.
Di fatto la dote principale della zia Clelia, riconosciuta quasi universalmente, era la parsimonia: percepiva a causa dei suoi problemi di salute una piccola pensione di invalidità alla quale si aggiungevano, per la gestione della casa, le pensioni dei nonni.
Ebbene, la sua capacità di risparmio era tale che con così poche risorse riuscì ad accumulare un vero capitale.
Questa sua dote la rese anche il terrore dei negozianti della città, infatti chi la conosceva, quando la vedeva entrare nel suo negozio, sapeva che quel giorno avrebbe dovuto cedere alle sue richieste di sconto.
Lei decideva cosa comprare e soprattutto quanto pagare, poi iniziava una cortese ma estenuante trattativa col negoziante, che terminava solo e sempre con la resa incondizionata del malcapitato. A causa di questa sua dote tutti i membri della famiglia, quando dovevano effettuare degli acquisti importanti, ricorrevano al suo aiuto e lei non si faceva certo pregare.
Penso che sconfiggere i commercianti nella trattativa fosse per lei una vera libidine. Probabilmente la sua capacità di tenere il punto fino alla vittoria, se le fu di aiuto per risparmiare denaro, non l’aiutò di certo nei rapporti interpersonali, dove la flessibilità, anche se non sempre è d’obbligo, serve e ciò fu forse tra le cause principali della sua prolungata solitudine.
La zia Lella era la mia preferita, minuta di corporatura e dolce di carattere ed era anche la mia stilista personale, infatti faceva la sarta e se da bambino vestivo meglio io del principe Carlo era soprattutto merito suo. Inoltre, prima di cominciare a lavorare per soldi, doveva vestire anche il resto della famiglia, ma lo faceva volentieri.
Fin da bambina era cresciuta un po’ all’ombra della zia Clelia, che aveva senza dubbio una personalità dominante, ma lei, senza cercare meriti, riusciva meglio della sorella maggiore in tutto, escluso ovviamente ottenere sconti!
Le due sorelle erano a scuola assieme perché la più grande aveva perso un anno, poi da ragazze frequentavano le stesse compagnie e da adulte lavoravano come sarte in casa assieme; in realtà la vera sarta, quella per l’abilità della quale i clienti erano pronti a pagare, era la zia Lella, che continuò la sua attività anche da sola, quando ormai quarantenne si sposò e lasciò la casa di famiglia.
Penso che il motivo della mia maggiore affinità con lei, rispetto alla zia Clelia, che era la favorita di mia sorella Anna, stesse nel fatto che aveva nei miei confronti la stessa dolcezza e premura di mia madre, anche se penso che questa loro somiglianza, in gioventù, avesse contribuito a creare qualche contrasto.
La zia Lella pur essendo più brava in tutto, non era mai riuscita ad avere dalla nonna le attenzioni riservate all’ammalata zia Clelia e si era quindi ritagliata il suo spazio da seconda figlia brava e diligente. Poi, dopo qualche anno, con l’arrivo di Francesca che era come lei brava e diligente, ma soprattutto più bella, si era forse accesa un po’ di competizione tra le due sorelle, le quali usavano, probabilmente senza accorgersene, le stesse strategie per conquistare quel bene così raro in famiglia, che era l’amore.
L’episodio della sorella che, durante una lite, le tirò le chiavi colpendola ad un occhio, che mia madre continua anche ora a citare come se fosse accaduto ieri, accadde proprio con la zia Lella, quando entrambe erano bambine. Da adulte erano invece molto unite e, quando la zia Lella decise di sposarsi, la mamma fu l’unica della famiglia ad incoraggiarla nel seguire il suo cuore, invece di ascoltare le critiche degli altri familiari: loro erano romantiche!
Per Il giorno del suo matrimonio la zia Lella oltre al vestito per sé e per lo sposo, preparò anche il vestito per noi nipotini che dovevamo partecipare alla cerimonia; il mio era bellissimo: pantaloni corti, giacca e cravatta, avevo addirittura il cappello come quello dei grandi; correva l’anno 1966 e da allora non sono più stato così elegante!
All’epoca sposarsi a quarant’anni era come minimo inusuale e molti in famiglia criticavano la scelta della zia Lella, che avrebbe potuto stare benissimo a casa dei suoi e invece ora doveva affrontare tutti i sacrifici di chi mette su casa, sposandosi per giunta con un uomo povero. Ma lei era innamorata e in casa coi suoi non ci voleva più stare. Così io avevo uno zio nuovo, lo zio Pino.
La zia Lella non ebbe figli, ma di sovente si offriva volontaria per aiutare mia madre nel badare noi ed io, che spesso trascorrevo a casa sua l’intero week-end, mi ero anche affezionato molto allo zio Pino.
Ricordo che mi portava la domenica mattina in piazza con la bici a comprare il giornale, quello con le pagine rosa e poi discuteva con gli amici di calcio, ma per motivi futili si innervosiva fino alle lacrime. Anche a lavorare spesso lamentava che lo prendevano in giro e mia zia amorevolmente lo consolava; per fortuna poi che non guidava la macchina e la patente ce l’aveva solo la zia, perché con lui a tavola, una bottiglia di vino non bastava mai.
Pensandoci adesso devo ...

Indice dei contenuti

  1. Sommario
  2. Introduzione
  3. Premessa
  4. L’Esordio
  5. La malattia
  6. Mia madre e la sua famiglia
  7. La situazione attuale della mamma e della famiglia
  8. Conclusione
  9. Appendice Teorica
  10. Postfazione