Contro l’università | Guido Viale (febbraio 1968)
L’università come strumento di integrazione
Il primo compito del movimento studentesco è operare delle distinzioni di classe all’interno della popolazione scolastica. Se è vero che nel periodo della loro formazione tutti gli studenti sono assolutamente privi del potere e sottoposti alla manipolazione delle autorità accademiche, è altrettanto vero che per alcuni inserirsi nella struttura di potere dell’università non è che un primo passo del loro inserimento nelle strutture di potere della società, mentre per la maggioranza degli studenti la subordinazione al potere accademico non è che l’anticipazione della loro condizione socialmente subordinata all’interno delle organizzazioni produttive in cui sono destinati a entrare.
Mentre quindi per gli studenti provenienti da classi sociali privilegiate e inserite nella gestione sociale del potere capitalistico, l’università funziona come meccanismo di cooptazione della classe dirigente, per la maggioranza degli studenti, ferma restando la loro condizione socialmente ed economicamente privilegiata rispetto alla classe operaia, l’università funziona come strumento di manipolazione ideologica e politica teso a instillare in essi uno spirito di subordinazione rispetto al potere (qualsiasi esso sia) e a cancellare, nella struttura psichica e mentale di ciascuno di essi, la dimensione collettiva delle esigenze personali e la capacità di avere dei rapporti con il prossimo che non siano puramente di carattere competitivo.
Fin dall’inizio dell’occupazione abbiamo individuato grosso modo tre strati della popolazione universitaria: quelli che l’università la usano (come base di lancio verso il conseguimento di posizioni di potere nella struttura sociale); quelli che l’università la subiscono (come fase necessaria attraverso cui bisogna passare per andare a occupare una condizione sociale predeterminata nella fittizia gerarchia di una mistificatoria stratificazione sociale); e quelli che dall’università vengono soltanto oppressi (in quanto essa funziona come strumento di legittimazione della loro posizione sociale subordinata).
La struttura interclassista dell’università, che nonostante il diverso trattamento che riserva ai diversi strati, si presenta a tutti gli studenti come un meccanismo di promozione sociale neutrale rispetto alla provenienza di classe, svolge un ruolo insostituibile come strumento di integrazione sociale e come mezzo per istituzionalizzare l’ideologia della stratificazione sociale continua (a ogni titolo di studio consegue l’appartenenza a un determinato strato sociale).
L’attuale agitazione nell’università di Torino può venire interpretata come una lotta condotta dal secondo strato della popolazione studentesca contro il primo per cercare di smascherare il ruolo mistificatorio della preparazione professionale come strumento di assegnazione ai vari gradi della stratificazione sociale. [...]
L’autoritarismo
La radice dell’autoritarismo accademico, come tutte le forme di potere autoritario non risiede soltanto in una serie di strutture istituzionali ed economiche, ma risiede soprattutto e in primo luogo nel consenso da parte di coloro che il potere lo subiscono. L’università è organizzata in modo da creare e conservare questo consenso, cioè in modo da mantenere gli studenti in uno stato di passività e di divisione reciproca. È questo che intendiamo dire quando affermiamo che la didattica autoritaria è una forma di violenza esercitata sugli studenti.
Finché gli studenti protestano per qualche giorno o finché criticano e sghignazzano in forma individuale alle spalle dei professori (e tutti gli studenti lo fanno), questo è perfettamente sopportabile e non cambia le cose. Se un’occupazione è fatta solo per protestare, e gli studenti non elaborano forme di collegamento e di unificazione, dopo un po’ si rendono conto che stanno perdendo tempo, che prima o dopo ci si logora e ci si stufa, e quando l’agitazione cessa le cose tornano come prima.
Ma se gli studenti sanno organizzarsi e imparano a discutere, essi riconquistano la loro autonomia e individuano rapidamente i veri problemi. La loro forza cresce e non diminuisce, la certezza di essersi messi sulla strada giusta li rafforza nella loro volontà di continuare, il loro esempio costituisce un elemento potenziale di generalizzazione dell’agitazione agli altri studenti non ancora toccati dal movimento. L’autorità dei docenti perde la sua base di consenso tra gli occupanti e viene seriamente minacciata presso coloro che ancora frequentano. I mezzi per dividere gli studenti hanno sempre meno presa, i discorsi sulla strumentalizzazione fanno ormai ridere tutti, le campagne denigratorie non hanno più peso. Il muro di omertà e di silenzio creato intorno alle forme e alle motivazioni politiche dell’agitazione cominciano a spezzarsi. Bisogna ricorrere alla forza.
Mentre l’aspetto istituzionale del potere accademico è il risultato dell’analisi tradizionale e ormai in parte scontata che il movimento studentesco ha fatto dell’università, il secondo aspetto, quello per cui l’autoritarismo si radica nel consenso autoperpetuantesi che la scuola e l’università riescono a imporre agli studenti attraverso la frantumazione delle loro istanze collettive e mediante la manipolazione dei singoli studenti ormai isolati di fronte all’apparato repressivo, è un elemento in gran parte nuovo che è emerso dalle discussioni nelle commissioni e in assemblea.
La denuncia del carattere baronale delle università italiane è stata condotta a più riprese da parecchi settori dello schieramento “di sinistra”, dall’“Espresso” all’ing. Martinoli (non dal Pci, il quale invece si è perfettamente inserito in questo meccanismo, ne condivide le responsabilità di gestione, vi ha collocato dentro una serie di pedine-docenti e si è sempre impegnato in un lavoro di copertura politico-ideologica dei docenti cosiddetti democratici. Vedi come esempio limite il numero del “Contemporaneo” del 5 gennaio ’68, in cui si intervistano presidi e professori dell’Università di Bari, dando assolutamente per scontato il ruolo “democratico” e “progressista” che l’università può assolvere per il solo fatto di esistere). Gli strumenti istituzionalizzati del potere accademico sono stati brevemente riassunti nel documento iniziale dell’agitazione:
Le autorità accademiche dispongono di numerosi strumenti per controllare gli studenti; elenchiamone alcuni:
• innanzitutto le aule e le sedi universitarie da cui si arrogano il diritto, in base a una legge del T.U. fascista, di cacciare gli studenti quando questi occupano l’università;
• i fondi destinati agli istituti e alle ricerche che permettono loro di imporre gli argomenti che essi preferiscono senza consultare gli studenti, che in ultima analisi sono gli unici destinatari dell’insegnamento universitario;
• il metodo poliziesco di controllare le frequenze, di prendere provvedimenti disciplinari, di interrogare gli studenti agli esami con metodi più simili a veri e propri interrogatori che a una libera discussione tra docente e discenti su argomenti che avrebbero dovuto venire approfonditi insieme [...];
• il sistema di cooptazione dei professori, i quali vengono scelti da altri professori sulla base di criteri insindacabili: nepotismo, identità di vedute politiche, correnti filosofiche o culturali, sottogoverno, posizione nel mondo dell’industria;
• il sistema di scelta degli assistenti i quali spesso vengono costretti a fare i lacchè o gli autisti dei professori fino a quando non hanno assimilato completamente l’autoritarismo accademico indispensabile per diventare professori;
• le borse di studio e il presalario che vengono assegnati o sulla base della decisione insindacabile di certi professori, o sulla base della media conseguita agli esami, il che è lo stesso;
• la posizione di forza negli enti paragovernativi, come il Cnr, le varie commissioni consultive per la riforma della scuola, le direzioni dei partiti politici, le quali permettono ai professori di imporre riforme funzionali ai loro interessi di casta.
Sui rapporti tra potere accademico e potere economico, e sull’integrazione sempre maggiore che tacitamente si va stabilendo tra di essi, l’analisi è stata molto più carente e meno approfondita, in primo luogo perché essa è stata condotta prevalentemente all’interno delle facoltà umanistiche, che erano in lotta, e qui l’insieme delle mediazioni sociali è molto più ampio, e il rapporto con il potere economico raramente assume la forma di un cordone ombelicale direttamente teso tra scuola e industria; in secondo luogo, e questo mi pare più importante, perché tutte le analisi fatte durante l’agitazione miravano a individuare una serie di obiettivi direttamente colpibili, non nel senso che si desse per scontata la possibilità di trasformare in senso democratico l’università, ma piuttosto ritenendo che è soltanto l’individuazione di un obiettivo immediatamente identificabile e concretamente presente quello che permette agli studenti di organizzare lo scontro con l’apparato di potere che li opprime.
Il fatto che nel corso dello scontro l’apparato di potere universitario si sarebbe presentato ben difeso da altri apparati repressivi della società, come la stampa, la polizia, la famiglia, il ricatto economico, costituiva di per sé una garanzia che, se lo scontro fosse effettivamente iniziato, sarebbe stata la stessa logica della repressione a fornire gli elementi per l’estensione e l’approfondimento di un’analisi del carattere autoritario della società in generale. L’analisi sociale, per non essere ideologia, deve marciare di pari passo con gli sviluppi della prassi. Essa deve precedere l’organizzazione del conflitto, ma rimane uno strumento di lotta politica solo nella misura in cui si radicalizza via via che si intravvedono nuove possibilità di allargare lo scontro.
Infatti, dopo un mese circa di agitazione, quando la partecipazione all’interno delle facoltà occupate si era ormai consolidata e rafforzata, di fronte alla necessità di allargare lo scontro, si è subito individuato nel Politecnico di Torino il prossimo obiettivo dell’agitazione. E si è scelto il Politecnico proprio perché in esso il potere accademico è molto più forte e consolidato per via dei legami finanziari, politici e personali con la struttura aziendale della Fiat, che rendono il Poli un’appendice del potere economico e sociale di quest’industria. Qualcosa sui rapporti economici tra università e industria è stato comunque detto e scritto nei documenti:
La ricerca scientifica in Italia è organizzata e gestita direttamente dalle industrie ed esclusivamente in funzione del profitto. Quando le industrie commissionano qualche ricerca all’università, la controllano completamente. I ricercatori dell’università diventano praticamente dei dipendenti dell’industria commissionatrice. Se il finanziamento è sufficientemente ingente, l’istituto di ricerca si trasforma praticamente in un reparto dell’ufficio di progettazione dell’industria che finanzia e controlla la ricerca: questo è il caso della maggioranza degli istituti del Politecnico di Torino; e di alcuni istituti della facoltà di chimica. La ricerca e l’entità dei finanziamenti restano completamente segreti, nessuno sa realmente che tipo di ricerca si svolge in questi istituti, e neanche una briciola di tale ricerca passa nella didattica.