Antonio Di Giovanni - Carmela Ferrara
Attimi paralleli
Una storia a due voci
“Non dire che vuoi amare: Ama.
Se anche durasse un solo istante.”
Indice
I Parte
1. L’incontro (Alex)
2. L’incontro (Loreley)
3. L’ospedale
4. L’ospedale
5. L’appuntamento mancato
6. L’appuntamento mancato
7. Il ricordo
8. Il ricordo
9. La Domanda
10. La Domanda
11. L’attesa
12. L’attesa
13. L’appuntamento
14. L’appuntamento
II Parte
15. L’amore (capitolo singolo)
16. Il risveglio
17. Il risveglio
18. La telefonata
19. La telefonata
20. La cena
21. La cena
22. Le paure
23. Le paure
24. L’imprevisto
25. L’imprevisto
26. L’assenza
27. L’assenza
28. La sentenza
29. La sentenza
30. Attimi
31. Attimi
32. La speranza
33. La speranza
III Parte
34. L’epilogo
35. L’epilogo
36. Alex e Loreley (capitolo singolo)
Questo romanzo è opera di fantasia. Ogni riferimento a persone, luoghi e fatti realmente accaduti è puramente casuale.
I PARTE
Capitolo 1 L’incontro
“Il prossimo treno partirà alle ore 21,00”
L’altoparlante della stazione, inesorabile, sancì la condanna, provocandomi una fitta di sconforto. Serrate le porte e lanciato un fischio il treno sferragliò davanti ai miei occhi. Ero arrivato di corsa alla stazione della ferrovia Roma-Lido nella speranza di riuscire a prendere il convoglio delle 20.30. Lavorare al centro di Roma non mi dava altra alternativa che viaggiare con il trasporto pubblico. Per evitare il traffico, avevo fatto di quei vagoni i compagni della mia vita. Mi spostavo ormai secondo uno schema ben preciso, nel quale riuscivo a coniugare spericolati tragitti alternativi a una discreta velocità di movimenti.
In lontananza vidi il profilo distante di quello che doveva essere il mio treno e seguii rassegnato con lo sguardo, per alcuni istanti, la linea dei vagoni azzurri che, come una scia di spuma marina, sfumò, lasciandomi con un’espressione di rammarico.
La solita banchina dai colori ormai sbiaditi e lavati dal tempo, riaccesi a tratti soltanto dal passaggio dei writers, accoglieva i miei passi. Mi rassegnai ad aspettare il treno delle 21.00.
Il lavoro in tribunale quel giorno era stato faticoso: tre processi, tutti particolarmente complicati, mi avevano sopraffatto. Lo sfinimento ormai faceva presa su di me.
Quando finalmente salii sul treno, non mi accorsi nemmeno di chi avessi intorno. Allentai il nodo della cravatta per prendere un po’ di respiro e sedetti, sfinito. Stavo chiudendo gli occhi per la stanchezza, quando la folata di un profumo intrigante ridestò i miei sensi. Alzai la testa e ciò che vidi imprigionò il mio sguardo.
Una donna di un’insolita bellezza sedeva davanti a me ed a quell’ora, su quelle vetture frequentate da pendolari sonnecchianti e senzatetto per lo più ubriachi e maleodoranti, il suo viso mi apparve come uno strappo nel cielo azzurro di carta.
Distolsi lo sguardo rapidamente, affinché non mi scambiasse per il solito maschio in cerca di avventure. Cercai invano un altro orizzonte, ma mi accorsi ben presto di non resistere, nemmeno per pochi attimi, a poggiare la mia vista su quegli occhi dallo sguardo profondo, custodi di un fascino irresistibile. Una donna con dei tratti così armoniosi era consapevole di non passare inosservata. La sua delicata bellezza e il suo fisico sottile mi avevano catturato.
Cominciai ad immaginare un approccio, ma stranamente quella sera, sia per la stanchezza, che per la tenerezza del suo volto, l’idea si disciolse come sale nell’acqua. I miei pensieri invece, imitando il librarsi dei gabbiani, iniziarono a fantasticare, pregustando l’intimità di una cena insieme a lei e di un dopo-cena ancora più interessante.
La sola idea di possedere una donna cosi incantevole mi eccitò. Fingevo, maldestramente, un’indifferenza che l’ingenuità di un bambino avrebbe potuto smascherare.
Mentre pensavo di assumere un atteggiamento dignitoso, un’improvvisa accelerazione del treno fece sì che il mio ginocchio, seppur impercettibilmente, urtasse la sua gamba tenuta accavallata con discreta eleganza a pochi millimetri da me. Mi affrettai a scusarmi e mi resi conto che fu più che altro per ascoltare nella risposta il suono delle sue parole, che suadentemente non tardarono ad arrivare. Quasi involontariamente intrattenemmo una piacevole conversazione.
Rapito dall’emozione, cercavo attraverso i finestrini completamente opachi e fatiscenti, di capire fin dove il treno fosse arrivato, per non rischiare che lei scendesse o che io arrivassi alla mia fermata, senza averle lasciato una traccia che potesse creare le condizioni di un futuro incontro. Ormai ero abituato a muovermi in una successione di istanti così stretti nel conquistare una donna, che mi facevo beffe della tirannia del tempo.
Mi venne in mente Carla, alla quale qualche anno prima avevo scritto velocemente il numero di cellulare sul braccio mentre da lontano il fidanzato sopraggiungeva al loro appuntamento. Lei aveva sorriso e, mentre si accingeva a salire nell’auto dell’ignaro compagno, non potendo parlare, si era limitata ad un malizioso occhietto. Mi aveva chiamato qualche giorno dopo: la nostra era stata una storia breve, ma di profonda emozione. Ci eravamo frequentati per qualche mese, poi lei si era sposata e non l’avevo vista più.
Mancavano solo due fermate alla mia e la donna che avevo di fronte, che continuava a parlare, non faceva il benché minimo riferimento a quale fosse la sua. Immersi nei sedili uno di fronte all’altro continuavamo a conversare del più e del meno, il che non agevolava la possibilità per me di lasciarle un recapito telefonico. Poi all’improvviso si scusò, affermando di dover scendere alla stazione successiva, la stessa dove sarei dovuto scendere anch’io. Sorrisi e respirai profondamente, per trattenere la soddisfazione ed evitare che la stessa si traducesse sul mio volto in una espressione di trionfo, palesandosi ai suoi occhi.
Scendemmo insieme, evitando entrambi di incrociare gli sguardi, consci del fatto che ci facesse piacere essere stati legati da quell’insolito colpo di fortuna. Nel congedarci ci stringemmo le mani che però tardarono a separarsi, quasi a testimoniare un sottile piacere nel rimanere ancora in contatto, avvolte da un impercettibile calore. Ancora un’ incertezza, un ulteriore secondo... poi il distacco, accompagnato dalla voce di lei che in maniera sommessa disse:
- Allora spero di rivederla, visto che abitiamo entrambi ad Ostia.
Fui totalmente assorbito dal suono della sua voce che a stento riuscii a comprendere il significato di ciò che mi aveva appena detto, come lo spettatore di un film muto che vede muovere solo le labbra.
- Certo - risposi, ma non volendo rischiare di essere in balìa di un destino che poteva divertirsi alle mie spalle e non farmela incontrare nuovamente, le dissi che l’indomani sarei stato lì, alle cinque del pomeriggio, e che mi avrebbe fatto piacere prendere un caffè con lei, che accettò l’invito.
Mentre si apprestava ad andar via, i suoi occhi si screziarono magicamente d’oro. La salutai, ricambiandole il sorriso.
Camminando lentamente verso casa, pensavo a quante volte avevo tenuto lo stesso comportamento. Ormai era il classico rituale, un modus operandi. Mi chiedevo spesso cosa fossi diventato, quali erano i risultati di quel percorso fatto per anni attraverso le tante donne che avevo conosciuto.
Lo riconoscevo, è vero, la mia vanità era aumentata giorno dopo giorno. La cura che avevo di me era maniacale. Curavo ogni minimo particolare: un atteggiamento che, protratto nel tempo, era diventato uno stile di vita, con movimenti e abitudini che erano divenuti gesti automatici. Tutte le mattine, in quello che io consideravo il tempio inviolabile della mia vanità, che per molti era semplicemente il bagno, compivo un vero e proprio cerimoniale, che per alcuni aspetti assumeva anche una certa sacralità. Dalla doccia alla sistemazione dei capelli, dal profumo alla scelta del vestito che, in perfetta sintonia, terminava con la perfezione millimetrica del nodo alla cravatta, calata nell’abbigliamento e miscelata dolcemente alle tinte, come i sapori del piatto più prelibato di uno chef.
Immerso nelle mie minuziose elaborazioni continuai a camminare nella direzione della mia autovettura cercando, con un certo nervosismo, le chiavi dentro la valigetta, che dopo qualche istante di affannosa ricerca spuntarono miracolosamente nelle mie mani.
Presi il telefonino e, prima di raggiungere l’auto, telefonai alla mia ex moglie per rassicurarla sull’insolito ritardo, visto che dovevo prendere mia figlia Giada e portarla con me per una breve sosta dai nonni. Eravamo separati ormai da alcuni anni, ma fondamentalmente rimasti sempre vicini. Il nostro era un rapporto fatto di rispetto e di collaborazione.
Pensavo a quella donna del treno, ancora prepotentemente impressa nella mia mente e continuavo a camminare sul ciglio della strada, fantasticando sul giorno successivo e sul quel caffè che mi avrebbe dato l’opportunità di rivederla.
Ma il destino in quell’istante si prese gioco di me. Immerso nei pensieri attraversai la strada senza la minima attenzione. Non mi resi conto di nulla: un bagliore, lo stridio di gomme sull’asfalto, un dolore acuto. Poi il silenzio.
Capitolo 2 L’incontro
Viale dell’Aventino era stranamente gremito di gente, la musica ad alto volume si diffondeva da alcuni pub e le auto rimanevano imbottigliate lì dove i lavori per il rifacimento dell’arteria cittadina creavano un imbuto. Un dettaglio, foto-tessera di un delirio urbano, immagini sfocate, pezzi di vita altrui che non mi incuriosivano più.
Speravo di non far tardi anche quella sera e finire col perdere il treno delle 20.30 che mi avrebbe riportata ad Ostia. Ero così stanca che l’idea di aspettare il successivo mi infastidiva. Frugai nella borsa alla ricerca del pacchetto di sigarette. Non feci in tempo a prendere l’accendino che un tizio mi si parò davanti con un sorriso e una fiammella accesa. Ci ero abituata e pur ricambiando il sorriso per il gesto galante, lasciai che mi accendesse la sigaretta e proseguii per la mia strada senza raccogliere l’avance.
Gli uomini sono sempre gentili quando ti vogliono conquistare. Indossano maschere dorate ed elmi di carta e pronunciano le esatte parole che vorresti sentire.
Anche Federico aveva fatto così, qualche anno prima. La sua maschera, però, ben presto era caduta ed era rimasto il volto vero che, delusa, non avevo voluto più guardare. Mi ero chiesta tante volte se fossi stata io a sbagliare in quella storia oscillante, che mi aveva donato attimi di intensa felicità e giorni di vuoti incolmabili. Troppe volte gliene avevo parlato chiedendo pari dignità e ricevendo in cambio la glaciale indifferenza di un uomo che spariva per giorni e giorni, lasciandomi sola senza un perché.
L’amore non è un appuntamento di due ore tra un impegno e l’altro, seguito da silenzi che inaridiscono l’anima. L’amore è condivisione, rispetto, stima, attenzioni, fiducia. È accettare l’altro nella sua totalità amandone anche i difetti perché fanno parte della sua natura, è la rinuncia che non pesa e che diventa gioia, quando sai che produce gioia. Non è solo un articolo spostato, c’è una grande differenza tra “il volere bene” e “volere il bene” di chi ti sta accanto.
Federico non voleva il bene di chi gli stava accanto. Lui voleva una donna telecomandata, pronta ad accettare qualsiasi cosa, una bambola da mostrare a se stesso con orgoglio, una femmina con la quale trascorrere momenti piacevoli quando ne aveva desiderio.
La storia era andata avanti così per mesi, senza che io avessi il coraggio di impormi, e ogni qualvolta un timido tentativo riusciva a superare quel terrore che avevo di perderlo, lui reagiva pesantemente. Il nostro rapporto si era concluso in un freddo pomeriggio di dicembre, grigio come le nuvole che sovrastavano la città.
Eravamo in un bar di piazza del Popolo, quello che era successo era ancora nitido nei miei ricordi: l’arrivo, il caffé, la sua espressione seccata, il solito rimprovero per averlo distolto dagli impegni importanti che aveva. Quella volta però non ci avevo badato e le parole mi erano uscite tutte d’un fiato come spinte da una forza irrefrenabile. Con lo sguardo fisso e le nocche serrate gli avevo detto che per lui sarei stata disposta a qualsiasi cosa, tranne che a rinunciare alla mia dignità e, sebbene lo amassi, non mi sarei più accontentata di un uomo a metà, così attorcigliato intorno a se stesso da non riuscire a vedere gli altri.
Ciò che Federico aveva risposto mi aveva colpita come una frusta: “Sei una donna stupida che vive nel mondo dei sogni. Credi che sia disposto a cambiare la mia vita per te? Se non ti sta bene vai pure a cercarti il principe azzurro”. Lo avevo guardato, mi ero alzata ed ero andata via, senza una parola e senza voltarmi indietro.
Ai brutti ricordi del passato si aggiunse la delusione del presente: arrivata alla stazione di Piramide vidi il maledetto treno delle 20.30 che si allontanava. Non mi rimaneva che prendere quello delle 21.00. Avevo un po’ di timore. Quella stazione, di sera, era un mix di ubriachi e barboni, ma ormai ero lì e presi posto su di un sedile del treno che sostava in attesa della partenza, nella speranza che accanto a me si sedesse qualcuno, almeno apparentemente, affidabile.
Ciò che mi colpì, considerato il tipo di pendolari presenti a quell’ora, fu vedere entrare nel vagone un uomo vestito elegantemente, che si dirigeva in maniera distratta verso di me. Dai ...