Rivoluzioni violate
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Cinque anni dopo: attivismo e diritti umani in Medio Oriente e Nord Africa

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Cinque anni dopo: attivismo e diritti umani in Medio Oriente e Nord Africa

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L'analisi più aggiornata di quanto sta accadendo nei paesi del Medio Oriente e del Nord Africa cinque anni dopo le cosiddette "Primavere": Tunisia, Egitto, Siria, Iraq, Palestina, Marocco e Libia. Uno strumento indispensabile per conoscere le pratiche con cui si difendono i diritti umani nella regione Mediterranea, con una serie di ritratti degli attivisti che si sono battuti e ancora reclamano giustizia, diritti e libertà. Osservatorio Iraq è una testata indipendente che si occupa di Medio Oriente e Nord Africa attraverso analisi, traduzioni e relazioni con attivisti, giornalisti e società civile della sponda sud del Mediterraneo. Un ponte per... è un'associazione di volontariato per la solidarietà internazionale nata nel 1991 subito dopo la fine dei bombardamenti sull'Iraq, e attiva in Medio Oriente da oltre 25 anni con lo scopo di promuovere iniziative di cooperazione a favore delle popolazioni civili colpite dalle guerre e prevenire nuovi conflitti.

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Informazioni

Anno
2017
ISBN
9788863572056
I libri necessari
Con il contributo di
@2016 Edizioni dell’Asino
Isbn 978-88-6357-193-6
www.asinoedizioni.it
Distribuzione: Messagerie libri
Progetto grafico: Orecchio Acerbo
La curatela dei testi è di Cecilia Dalla Negra
La foto in copertina è di Eduardo Castaldo
Hanno collaborato:
Giuliano Battiston, Cecilia Cardito,
Domenico Chirico, Goffredo Fofi,
Giulio Marcon, Sara Nunzi,
Alessandra Stabile, Ilaria Pittiglio, Nicola Villa.
Questo libro è stampato su carta
conforme ai principi Fsc
Stampato a Szczecin, Polonia, presso Booksfactory.it
Rivoluzioni violate
Cinque anni dopo:
attivismo e diritti umani
in Medio Oriente
e Nord Africa
a cura
di Osservatorio Iraq
e Un ponte per...
Questo libro è dedicato alla memoria di tutte
le persone che in questi cinque anni hanno pagato con la vita una legittima rivendicazione
di diritti, dignità e libertà.
نهدي هذا الكتاب إلى كل اللذين ضحوا بحياتهم أوتعرضوا للاعتقال والقمع في السنوات الأخيرة من أجل المطالبة بحقوقهم المشروعة وفي سبيل الدفاع عن كرامتهم وحريتهم
Prefazione
Uno spazio comune da tenere aperto | Francesco Martone
I dati e i casi presentati in questa pubblicazione forniscono ulteriore prova che nei paesi del Medio Oriente e del Nord Africa qui analizzati lo spazio per la società civile si sta restringendo, e forse in alcuni non si è mai davvero aperto. Uno spazio materiale e immateriale di agibilità democratica e iniziativa politica che intercorre tra il demos e chi governa. Una crepa aperta nel sistema dell’autoritarismo popolato da tortura, arresti arbitrari, persecuzioni. Il quadro globale è allarmante, e fa il pari con quello che si registra in questa regione attraversata cinque anni or sono dalle rivolte arabe, e quindici anni fa, in parte, dall’irrompere della guerra globale al terrorismo. Primo intento di questa nostra pubblicazione è quello di offrire un quadro della situazione relativa ai difensori dei diritti umani in alcuni paesi dell’area, prioritari per le relazioni internazionali dell’Italia ma anche per l’azione dell’associazione Un ponte per… che da venticinque anni opera per costruire ponti di solidarietà con popolazioni vittime di guerra o di occupazione militare.
Pensiamo ad esempio alla situazione dell’Iraq oggi, che con i suoi conflitti interreligiosi manovrati ad arte da chi governa, le violazioni dei diritti umani, l’appropriazione delle leve del potere da parte di élite vecchie e nuove, stride con la mission che giustificò la guerra del 2003. Una mission inizialmente mirata a evitare l’uso di armi di distruzione di massa – mai trovate – da parte di Saddam Hussein, e poi, in pieno delirio neo-con, a disarticolare il tessuto sociale e politico per ricostruire un modello di democrazia di stampo occidentale. Il tutto condito con la retorica della tutela dei diritti umani, come se fosse possibile garantirla manu militari. In alcuni paesi della regione la guerra è stata ed è il leitmotiv con il quale confrontarsi, con le sue conseguenze immediate o di lungo periodo. Una guerra combattuta da più attori, che restringe gli spazi di agibilità, li comprime in un permanente stato di eccezione, spoglia le persone della propria dignità e dei propri diritti con legislazioni di emergenza, securizzazione di ogni spazio, militarizzazione dell’ordine pubblico.
Lo sanno gli attivisti iracheni che guardano oltre, attraverso il lavoro paziente di costruzione di reti quali il Forum sociale iracheno, e lo sanno le associazioni internazionali che con noi li sostengono nell’Iniziativa di solidarietà con la società civile irachena (Icssi).
E lo sa il popolo palestinese, per il quale la guerra, in realtà, c’è sempre stata. L’attacco sistematico ai difensori dei diritti umani in Palestina e Israele permea ormai la politica di Stato, si fa legge. Basti pensare alle decisioni del parlamento israeliano volte a perseguire le organizzazioni che si occupano di diritti umani, utilizzando anche il pretesto della lotta al terrorismo. Guerra e terrorismo sono i due poli tra i quali si comprime oggi lo spazio di agibilità delle società civili. Lo sa la Siria, teatro di un conflitto agghiacciante che si protrae da anni scalzando un moto legittimo di libertà e democrazia nel quale si è inserito Daesh. Lo spazio che occorre tenere aperto, in questo caso, è anche nelle nostre menti, per permetterci di leggere gli eventi e di cogliere gli sforzi della popolazione per autodeterminazione, diritti, dignità. Il caso siriano è emblematico dell’urgenza di un cambio di passo nella visione del mondo e delle cose, uno sguardo che sia finalmente “decolonizzato”. Che riconosca cioè la capacità dei soggetti di essere artefici dei propri processi di liberazione ed emancipazione. All’immagine della Siria in frantumi si contrapporrebbero allora le migliaia di organizzazioni, associazioni, cooperative locali, iniziative per la difesa dei diritti umani che resistono, e tentano di tenere aperto un altro spazio: quello che andrà popolato domani. Un luogo di comunità, dialogo, rispetto, convivenza.
E quale spazio possibile nella Libia di oggi? Le cronache ci raccontano di un paese sull’orlo della spartizione, attraversato da mille rivoli di violenza e sopraffazione, da Daesh, dai disegni strategici contrapposti delle fazioni politico-militari di Tripoli e Tobruk. Quali spazi si possono tenere aperti allora per i difensori dei diritti umani in un paese verso il quale il solo interesse delle cancellerie mondiali sembra essere la sicurezza delle frontiere per prevenire nuovi flussi di migranti o l’approvvigionamento di petrolio? La realpolitik sfrutta, con le ambiguità e gli opportunismi del caso, la retorica dei diritti umani. Come si spiegherebbe altrimenti l’uso strumentale fatto in Libia del principio della “responsabilità di protezione” dei civili, preso a pretesto per un’operazione militare volta a rimuovere con la forza il regime? Il vulnus persiste, e dimostra la fallacia di qualsiasi dottrina mirata a costruire la democrazia dall’alto, a tavolino o per mano armata, come se la società fosse un luogo asettico, un laboratorio di sperimentazione. Che però riguarda persone in carne e ossa, come quelle che cinque anni fa hanno occupato la Casbah di Tunisi e piazza Tahrir al Cairo, scintilla di un sussulto di rivolta che ha attraversato tutta la regione. Per un po’ i media e la vulgata ufficiale pareva si fossero dimenticati di quel fermento, di quella legittima aspirazione di libertà. Non per errore, ma per deliberata decisione, si è deciso di chiudere uno spazio di visibilità per calcolo. Oggi il regime egiziano di al-Sisi è un fido alleato dell’Occidente nella lotta al terrorismo, nella tutela della pax americana di Camp David, nella guardia alle immense risorse petrolifere. E poco conta la sistematica persecuzione di attivisti, sindacalisti, intellettuali, giornalisti, avvocati. Uno spaccato che la vicenda di Giulio Regeni ha riportato all’attenzione, ma che rischia di sparire nuovamente nei meandri degli opportunismi di rito. Nella vicina Tunisia l’onda lunga delle rivolte arabe sembrava avesse attecchito più che altrove. Ma la navigazione nelle acque dell’autodeterminazione è una domanda infinita, per parafrasare uno splendido saggio del filosofo inglese Simon Critchley. La crepa che si apre è come un rompighiaccio, ma si rischia di restare schiacciati come il vascello di Shackleton. E a bordo ci siamo anche noi. Anche per questo, insieme a tante associazioni italiane Un ponte per… sta lanciando una campagna per la protezione dei difensori dei diritti umani sulla scia di quanto chiesto dall’Onu ai paesi dell’Unione europea. Per tenere aperto uno spazio di visibilità e protezione, e permettere loro di lasciare i propri paesi se minacciati. Questa pubblicazione è dunque uno strumento di informazione e mobilitazione che vogliamo offrire a chi si adopera per sperimentare percorsi di lavoro comune, giacché se quello spazio si chiude non lo fa solo per i cittadini del Medio Oriente e del Nord Africa. Rischia di chiudersi anche per noi.
Il respiro breve di una modernità non elitaria | Marina Calculli
“È un caso difficile. Cosa pensi debba fare? Resistere?
Eh? Non voglio nulla più che la giustizia”.
Cuore di tenebra di Joseph Conrad
Se nel suo abbrivio il 2011 sembrava annunciarsi come l’annus horribilis per i regimi del Medio Oriente, generando allerta per un potenziale effetto domino presso gli autocrati del resto del mondo, mentre qualcuno già parlava di “quarta ondata di democratizzazioni”, alla fine di quello stesso anno la rivoluzione (thawra) proclamata in molte piazze arabe era già stata violata. Soffocato sotto il peso della resilienza degli anciens régimes, di restaurazioni, svolte bonapartiste e inazione della comunità internazionale, l’obiettivo di inventare un nuovo ordine politico nel mondo arabo sembra essere stato mancato. Eppure il 2011 è stato anche l’anno in cui la rivendicazione dei diritti umani, civili, economici e politici nei paesi arabi ha svelato tutto il suo potenziale plastico, in un moto propulsore dal basso, emancipato dai tradizionali vincoli ideologici e pragmatici. Da un lato, i movimenti nati nel 2011 sono stati in grado di scavalcare il recinto entro cui i vecchi poteri soffocavano o, nel migliore dei casi, confinavano il dibattito sulle libertà civili e politiche, consentendo forme di attivismo “tenuto a vista” e, per questo, frustrato già nelle premesse. Dall’altro, l’aspirazione al cambiamento sociale ha mostrato tutta la sua autonomia rispetto alle politiche estere di Stati occidentali che, in nome della liberalizzazione e della democratizzazione, avevano modellato per decenni il loro interventismo in Medio Oriente.
Cosa, dunque, è andato storto? Come si è disperso l’anelito pragmatico del 2011 volto a modificare la realtà politica e sociale? Cinque anni – quelli che separano l’uscita di questo libro dall’inizio delle proteste – sono un tempo troppo breve per valutare compiutamente le falle e i fallimenti della prassi rivoluzionaria nel mondo arabo. Troppe sono le variabili in gioco, a partire proprio dall’assenza di una teoria che sospingesse il dispiegamento di quella prassi. È questo, d’altra parte, il più grande rimpianto di alcuni intellettuali arabi, come Mohammed Dibo: il non aver saputo fornire agli attivisti del 2011 strumenti adeguati a orientarsi in una realtà che si andava dischiudendo per la prima volta dopo diversi decenni di chiusura. Ma per comprendere come le rivoluzioni siano state violate, bisogna individuare prima di tutto i meccanismi viziosi che hanno generato confusione tra vittime e carnefici, tra azioni legittime e illegittime, fino a privare le piazze degli strumenti fondamentali per negoziare il cambiamento. Si tratta di smascherare la razionalità politica che soggiace alla straordinaria assenza di sostegno domestico e internazionale verso gli attiv...

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  1. Uno spazio comune da tenere aperto | Francesco Martone