Passati remoti. 1914-1919 due saggi sulla Grande Guerra
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Passati remoti. 1914-1919 due saggi sulla Grande Guerra

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La "grande" guerra perché la prima "mondiale": nove milioni di morti e sei milioni di mutilati, una carneficina che ha segnato la storia dell'Europa e ha aperto la strada alle rivoluzioni e alle dittature degli anni successivi, e infine a una seconda e più feroce guerra ancor più "mondiale". In due saggi tanto distanti nel tempo, Isnenghi ricostruisce da grande storico un'epoca e le sue contraddizioni, lontano dai luoghi comuni, dalle interpretazioni di comodo.Mario Isnenghi ha insegnato a Padova, Torino, Venezia. Tra le sue opere, più volte ristampate, Il mito della Grande guerra, L'italia in piazza e Garibaldi fu ferito.

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Informazioni

Anno
2015
ISBN
9788863571592
Argomento
History

Il “fecondo inganno” degli interventisti democratici

“Anche in ciò in guerra ci è stata maestra… la nostra condotta non ha una sfera di ispirazione ideale o psicologica che vada oltre l’individuo… Meravigliose energie di intelligenza e volontà non trovano così stimolo all’azione che in un campo grettamente ristretto”.
(dal programma di “Volontà”, 1918, Zona di guerra)
“… non posso vivere senza stabilire tra me e la folla un contatto incessante… ciò che agisce in maniera decisiva nella mia coscienza, e anche più in giù, nella zona oscura del subcosciente, è il bisogno di operare una sutura tra me e la storia vivente, di stabilire un contatto…”
(da Passione dei fratelli Rupe, 1914, di Leonida Repaci)
“Non vi pare che tutti già si sia altri ? Anche quelli che maledicono quest’ansia d’oggi, questa guerra di domani ? … Tutto oggi vale meno e vale di più…” – scriveva a un mese dalla guerra il 24 aprile 1915 Ugo Ojetti sul “Corriere della sera”, massimo organo dell’interventismo moderato: e parlava di “lucida ebbrezza: invidia per i ventenni, che han la fortuna di conoscere la vita così”, abbandonandosi poi per un attimo al rimpianto come del tagliato fuori: “È troppo tardi, e troppo tardi per te. Resta quello che eri, resta quello che gli altri credevano che tu fossi. Fa posto ai nuovi”. Più brutalmente Corradini: “Ancora la divisione è una sola: i vivi e i cadaveri”.

I vivi e i cadaveri
Significativa la coincidente disposizione psicologica all’evasione da un mondo di frustrazione e spreco di vita, tra l’“Idea Nazionale”, aggressiva portavoce delle nuove leve nazionaliste, e il tradizionale quotidiano del liberalismo moderato. La fuga in avanti dalla società, l’attitudine a vivere la guerra come grande occasione individualistica di rivalsa, insieme esistenziale e politica, come la stagione dell’illecito ratificato a dovere, sono nella cultura italiana le componenti pressoché permanenti di un interventismo altrimenti straordinariamente composito e eterogeneo sul piano delle motivazioni e delle prospettive. Valga, a pezza d’appoggio sia pure sintetica, qualche altra citazione dalla stampa dell’epoca. “Amiamo la guerra!” – esclama Papini, su “Lacerba”, la rivista sua, di Ardengo Soffici e dei futuristi, impegnata allo spasimo nella campagna per l’intervento – “… contro i vecchi, i pusilli, gli invalidi”. E, quando sembra allontanarsi la possibilità che l’ltalia intervenga, sentite sulla “Voce” l’ansia disperata di Prezzolini: “Si troverà in questo tempo o più tardi l’attimo che ci permetta la prova? Mentre scriviamo temiamo che esso sia perduto, che non torni più, che noi vivremo tutta la vita con questa disillusione, amareggiati e sfiduciati”. E Renato Serra, di rincalzo, in quel suo fine Esame di coscienza di un letterato, uscito sulla “Voce” di De Robertis nel 1915, pochi giorni prima della morte in guerra dell’autore: “Fra mille milioni di vite c’era un minuto per noi; e non l’avremo vissuto. Saremo stati sull’orlo, sul margine estremo… E siamo rimasti fermi”. Un’intuizione che è insieme una radicale dissociazione. ebbe di tale stato d’animo collettivo di certa cultura borghese, Pietro Jahier, che così ne scrisse nella “Voce” del giugno 1915: “Non penso che al popolo: gli intellettuali sono convinti: si batteranno contro la noia e contro il nemico se il mal di stomaco non sarà eccessivo; saran valorosi se la notte prima avranno potuto dormire”. Effettivamente. anche da poche righe – che si potrebbero moltiplicare e ritrovare con poche varianti in tanti altri, vecchi e giovani, fino ai casi più noti di D’Annunzio, Corradini, Marinetti – è possibile intuire la ferita, lo stato di insoddisfazione – di se stessi, del paese – da cui matura, quasi una rivelazione improvvisa, la speranza di rigenerazione in cui, superati i dubbi, lasciati in sospeso gli obbiettivi, giocare finalmente tutti se stessi: “una parola paurosa e fascinatrice: g u e r r a !” (Nel primo numero del “Popolo d’Italia”, Mussolini).
Che tali confessioni a se stessi, come nel caso di Serra, o esibizionistiche vantazioni d’energia. come in quello di Papini, Martinetti, eccetera, non siano solo fatti di patologia letteraria e casi di solitudine ma documento sociale rappresentativo, è dimostrabile, si può dire ad apertura di pagina, scorrendo le lettere dei caduti sconosciuti. Rara anche negli epistolari d’ispirazione democratica, come quello a cura di Adolfo Omodeo – benché si tratti quasi sempre di ufficiali e quindi di figli della borghesia – la coscienza della situazione nei suoi termini politici generali: sostituita, frequentemente, da visioni unilaterali di tono irredentista e risorgimentale antiaustriaco, del tipo che agli interventisti come Salvemini o Slataper appariva valido, sì, sul piano emotivo. ma limitato sul piano obbiettivo da una provinciale convinzione di “guerra nostra” antiaustriaca, isolata dalla guerra generale. Non meno frequentemente il latitare del motivo propriamente politico e la sublimazione nella “orribile e splendida realtà” della guerra[1] d’un sentimento di frustrazione preesistente – e certo solo individuale ma socialmente condizionato e storicamente significativo – ricordano gli accenti di tanti scrittori della guerra e ne confermano la storica rappresentatività. “Più mi avvicino al fuoco nemico e più il mio cuore sussulta di gioia: non so come avrei fatto a rimanere a casa in questi momenti…” “Nel suo orrido. è bella, fortemente emozionante la guerra”. “Ho passato giorni memorabili. Ho vissuto, vissuto, vissuto. Ho ancora l’anima piena di quei grandi momenti. Momenti sublimi!” “Benedite, carissimi, a questa guerra. Senza di essa sarei forse miseramente malato di mente e di corpo”. “ Non è meglio morire in questa grande occasione, anziché di bronchite a ottant’anni?”
Sembra di riconoscere i tratti che G.A. Borgese darà nel dopoguerra al suo tipico interventista e volontario di guerra, Filippo Rubè, in dichiarazioni come questa di un giovane aspirante ufficiale caduto sul San Michele: “… ormai sono diventato come un morfinomane; esso non potrebbe vivere vere senza quel liquido che lo rovina, che lo avvicina sempre più alla tomba: io non potrei di punto in bianco, lasciare questo caro frastuono, questo continuo rombo di cannone, questo crepitio di fucileria, questo rullio di mitragliatrici…”; e insieme anche il potenziale positivo intrinseco in quell’abbandonarsi a questa grande occasione; per cui l’abbandono, che per un verso implica irresponsabilità e smobilitazione della persona, per l’altro può anche rivelarla a se stessa e potenziarla, non solo per l’estrinseca via dell’egotismo, ma anche per la via esigente e costruttiva di Jahier e di tanti giovani italiani, sottratti e come liberati dalle strettezze della vita sociale precedente, come per l’appunto, al di là della logora formulazione, nel caso del giovane ufficiale citato: “Debbo alla guerra se ho potuto provare anch’io quella grande soddisfazione di chi compie il proprio dovere”.

La cattiva coscienza dell’interventismo
È significativo ritrovare non alieni dall’interpretare l’esigenza di crisi liberatrice – il “cupio dissolvi”, come la chiamerà Borgese in Rubè – intellettuali “ufficiali” del mondo borghese-liberale, come per l’appunto Ometti, lo stesso Borgese e per certi aspetti L. Barzini e A. Panzini, per dire solo di quelli più direttamente innervati nell’apparato tradizionale del sistema.
Per converso, troveremo irriducibili avversari della “borghesia”, campioni di mille ribellioni egotiste da rivista e da salotto – i dannunziani in genere, Soffici, in particolare, ma la guarigione era diffusa – divenuti repentinamente, una volta scoppiata la guerra, uomini d’ordine convinti e generosi propugnatori di patriottiche idealità. Sono gli incerti del mestiere, Mussolini ne seppe qualcosa; e quelle eran le parole d’ordine e i miti giustificatori dei momento, le rassicurazioni agli altri e a se stessi: non tutti potevano avere la disinvoltura o contentarsi di dire “Amiamo la guerra!”, come Papini: o “si afferrano a volo le vaste astrazioni di bontà e di pace per farne delle bandiere al nuovo massacro”, come dichiara entusiasta e sprezzante F.T. Martinetti, l’esaltatore della “guerra sola igiene del mondo”, nella sua Alcova d’acciaio (un’autoblindo, naturalmente).
Abbiamo accennato come la guerra sia sentita come crisi liberatrice all’interno stesso di un certo mondo borghese ufficiale: d’altra parte il disamore al presente, penetrante fino alla censura delle stesse origini risorgimentali dell’Italia liberale, percorre sottilmente come una coscienza insieme disgregatrice e non capace di antitesi dialettica, gran parte della cultura postunitaria, dalla scapigliatura ai gruppi dannunziani, futuristi e vociani. attraverso il verismo: tutte le riviste del primo novecento sono percorse da tal senso di distacco e solitudine dell’intellettuale e dalla ossessionante ansiosa ricerca d’una via d’uscita, che il limite antiproletario quasi in tutti compresente alla polemica antiborghese e antigiolittiana, blocca in partenza e devia, prima verso mal soddisfacenti soluzioni di clamorosa ribellione individualista; poi, anche attraverso la mediazione della guerra, nell’abbandono al fascismo.
Che poi i nazionalisti da una parte, Mussolini, i sindacalisti-rivoluzionari, alcuni gruppi di anarchici interventisti dall’altra, guardassero alla guerra come a un momento di una loro – e pur diversa e non sempre ancora chiarificata – lotta alternativa al sistema, non ha bisogno, in questa sede, di particolari dimostrazioni: così come basterà ricordare l’imponente, anche se mal guidato, blocco neutralista. nelle sue tre stratificazioni, socialista, cattolica, liberale-giolittiana. Ma la strumentalizzazione del conflitto a opposti fini di politica interna ed estera, anzi a vere proprie strategie di superamento dello Stato nelle sue forme esistenti, apparirà più chiara se – fatto salvo il nucleo ufficiale dell’interventismo, sintetizzabile nei nomi di Salandra Sonnino e Cadorna, e di Vittorio Emanuele sullo sfondo – ci volgiamo ai gruppi che si è convenuto chiamare degli interventisti democratici: transfughi del socialismo come Bissolati e in particolar modo Salvemini per la forza di trascinamento ideale che rende la sua “Unità” uno degli strumenti più vitali e francamente battaglieri di quegli anni: repubblicani, radicali, circoli massonici, intesofili e antiaustriaci per amore alla Francia razionalista e odio al Vaticano, gruppi variamente influenzati dalle tradizioni mazziniana e garibaldina. Ora, la letteratura di guerra appare largamente e anche contraddittoriamente influenzata dalle diverse correnti di interpretazione dell’intervento: se una ne manca solitamente e proprio quella più ufficiale e vicina agli orientamenti governativi, del cui carattere esteriore e della cui scarsa diffusione nelle coscienze è un ulteriore indizio la carenza o il convenzionalismo del rispecchiamento letterario. Quanto all’accettazione dell’ideologismo giustificatorio, di marca democratica o nazionalista. esso, se da un lato giova momentaneamente allo Stato esistente, coprendolo e giustificandolo nelle sue scelte di governo, sia nei riguardi dei combattenti che in quelli degli Stati esteri, dall’altro potenzialmente lo elude e lo mette in crisi. Non a caso quasi tutti i diari o libri di guerra esprimono, se pur con differente indirizzo di soluzione, un senso di estraneità e di separazione dal passato anche più recente del paese e la persuasione, psicologica prima che propriamente politica, che l’entrata in guerra sia stata per l’Italia insieme un ultimo atto e la levatrice d’una situazione nuova che il dopoguerra realizzerà nella sua pienezza. Che se poi qui le prospettive e gli auspicati punti di arrivo si dividono, non è men vero che le condizioni di partenza dei differenti interventisti sono in buona misura assimilabili.
Possiamo effettivamente parlare, dopo questo breve quadro generale, di un interventismo “democratico”?[2]. Sì, come di uno tra gli altri, in alleanza tattica e sotterranea e a volte aperta lotta strategica con gli altri, se badiamo al livello, agli strumenti propriamente politici e ideologici, gruppi, correnti di opinione e di partito. quotidiani, periodici. E riferendoci a una eventuale interpretazione diaristica o narrativa – che è ciò che qui vorremmo prendere in esame – la quale ne saggi e misuri il grado di penetrazione nella coscienza del paese? Qui la maggior parte dei nomi si autoelimina da sola, andando a confluire nelle diverse espressioni dell’“ attivismo” bellicista a sfondo rnetapolitico e poi, alla resa dei conti, nutrito di succhi egotisti e virtualità reazionarie; restano in mente alcuni nomi, pochi, direi soprattutto quelli di Emilio Lussu. Piero Jahier, e, sullo sfondo, Giani Stuparich. (Lasciamo ai margini, in questa sede, l’interventismo “rivoluzionario”, d’altronde intimamente dubbioso e contestato, di Cino Rupe in Passione dei fratelli Rupe - 1914, di Leonida Repaci). In qual senso potremmo parlare per i loro scritti di interventismo “democratico”? Poiché è quanto dell’uomo è filtrato e ha trovato espressione durevole nello scrittore che primariamente ci sta a cuore, siano tali scritti nati nel vivo d’una esperienza contemporanea, come nel libro di Jahier (Con me e con gli alpini, scritto nel 1916, pubblicato nel 1919) o nel silenzio carico di ripensamenti e di memorie di una ricostruzione successiva (Lussu, Un anno sull’altipiano, 1936). Chiaro che, trattandosi di lavori di impostazione diaristico-narrativa, non potremmo ricercare in essi il diretto, specifico riferimento a una situazione e a una struttura: ma se, sondando gli stati d’animo e le aperture d’ambiente, la scelta, il taglio dei fatti, la cornice in cui si inscrivono, il giudizio su di essi, il tipo di reazioni suscitate nello scrittore-ufficiale dal quotidiano contatto con la realtà della guerra – trincee, fanti-contadini, divisione degli animi, morte a comando – cerchiamo di situare politicamente questi intellettuali, rispetto alle origini, allo svolgimento, agli scopi della vicenda, che cosa ne ricaviamo? Una cosa prima di tutto: la dissociazione di responsabilità dalla classe dirigente; la verifica della non coincidenza d’animo, di giustificazioni, di prospettive con coloro che politicamente e militarmente dirigono la guerra e con l’Italia che essi rappresentano e difendono; se di interventismo “democratico” si tratta. non è certo la democrazia dello stato liberale e dell’Italia d’anteguerra. La lotta per l’intervento, il tipo di conduzione politico-militare impresso al conflitto dai ceti dominanti. al di là delle “unioni sacre” del momento,. non fecero che dilatare la frattura e la coscienza di essa; non a caso la guerra sarà quasi dovunque in Europa matrice di esigenze e possibilità rivoluzionarie; non a caso d’altra parte in Italia “tra nazionalismo c liberalismo di destra si saldo proprio in quei momenti la forza politica che fu poi piattaforma del fascismo”.[3]

I migliori sono quelli che corrono a espiare
Perché dunque vuole la guerra Jahier ? Qual senso le attribuisce? Cerchiamo di capirlo da Con me e con gli alpini, il suo diario del 1916. Innanzi tutto saranno da scartare, anche a vantaggio dell’autore, le pagine di più diretta motivazione politica antiaustriaca e antitedesca, che in realtà si rivelano ambiguamente cariche di potenziale prussianesimo, attraverso una retorica esaltazione della ubbidienza felicemente e riposantemente irresponsabile in cui può quietamente adagiarsi il soldato nostro, sicuro del buon diritto del suo paese e saldo nella sua buona coscienza di italiano: pagine sorprendenti o sottilmente preoccupanti in un Jahier, coscienza per altri versi e tanto più durevolmente tormentata e interrogativa, e in tutto il suo diario teso a idealizzare una sua figura d’uomo-natura attivo, autonomo e socialmente incorrotto: il quale, a differenza del borghese e dell’operaio, non sia subordinato e disumanato ma integralmente realizzato e responsabile: e con cui, a parte ogni giudizio su tale modello sociale e sulla arretratezza della sua incarnazione storica, non si vede cosa abbiano a fare le pagine devozionali sullo spirito d’ubbidienza e di subordinazione. No, la “politica” di Jahier è altrove che in queste pagine tortuose e programmatiche, troppo segnate dal tempo. La “politica” di Jahier e le ragioni umane del suo interventismo sono da ricercare in un rigoroso senso della vita che cerca nella guerra nuovi doveri; nella coscienza oppressa e bruciante dello squallore in cui si perde e immiserisce l’esistenza del piccolo-borghese d’anteguerra (il motivo vitalistico di Serra, Prezzolini in fondo anche degli altri, futuristi e dannunziani; anche qui la guerra come via d’uscita e grande occasione esistenziale, ma come umanamente concretata e socialmente ricca di fermenti dialettici e evolutivi!); dunque nella rivolta, progressivamente maturata negli anni che precedono la guerra, a questa condizione di cose – socialmente e non solo individualmente considerata (ed espressa nelle Resultanze in merito alla vita e al carattere di Gino Bianchi); ma il punto è questo: che le pagine di Con me e con gli alpini, quelle sulla disciplina, sulla vita di caserma, su singole figure di soldati popolani eccetera, scandiscono da parte dell’intellettuale ansioso e mal soddisfatto una presa di contatto tanto interiore e consapevole con il popolo-soldato e tanto avvertita delle sue contemporanee necessarie implicazioni dialettiche in direzione del ceto d’origine dell’autore – la borghesia, gli ufficiali – da valere come una interiore lacerazione, lo sviluppo di un processo di allontanamento da tempo iniziato; il segno di un rifiuto e, insieme, quello di una nuova, più aperta e socialmente soddisfacente, radicazione sociale di marca tendenzialmente alternativa.
Nel segno positivo è quindi il marchio originale dell’“evasione” di Piero Jahier; nel segno positivo, cioè nella presenza di una potenziale prospettiva sia pure politicamente ancora confusa, tesa a dare una risposta al senso d’insoddisfazione storica che è una componente tanto generalizzata dell’interventismo degli intellettuali, e, prima ancora, della cultura ottocentesca seguita alla delusione risorgimentale; qui è ciò che contraddistingue l’uso della guerra di Jahier (ché di uso, cioè di utilizzazione, strumentalizzazione, in senso politico e esistenziale insieme, anche in questo caso si tratta); è ciò che lo isola nella prospettiva e nei possibili punti d’arrivo dai Marinetti e dai Soffici, da...

Indice dei contenuti

  1. Quarta di copertina
  2. Nota editoriale
  3. Introduzione
  4. Il “fecondo inganno” degli interventisti democratici
  5. Dal 1914 al 1919: guerra voluta, guerra non voluta