Gli asini rivista 27-28
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Indice numero 27-28 maggio-agosto 2015StrumentiUna scuola per dividere di Giulio MarconLa pratica e la grammatica di Mauro BoarelliMedia crudele di Federica LucchesiniIl labirinto universitario di Claudio Giuntaincontro con Gabriele VitelloLa fabbrica degli psicologi di Mauro ScattoliniGocce d'acqua nel deserto di Tomas EocrateMorti in mareLa strage infinita di Alessandro LeograndeI barbari alle porte di Francesco Ciafaloni10 punti per porre fine alle morti in mare di Alarm phoneLa legge dell'ospitalità di Assemblea dei lavoratori dell'accoglienza di RomaExpo, una farsaPeggio di quel che temevamo di Ivan GiacomettiLe domande di un giovane cronista di SpaamGrandangoloIl bidone. L'aggressione al nostro patrimonio di Tomaso Montanariincontro con Nicola VillaArte, grafica, fiaba per lettori bambini di Fausta Orecchioincontro con Goffredo Fofi e Nicola VillaUna vita da uomo? di Laura Bispuriincontro con Giulia Elia e Sara NunziPraticheCrescere a Genova di Giacomo D'Alessandro78 Crescere a Napoli di Fabio Germoglio85 Elsa Morante a scuola di Fiamma FerzettiVeri maestriTesti di A. Artaud, R. Baden-Powell, V. Brancati,A. Camus, R. Dewey, P. Goodman, Y. Grevet,J. Korczak, S. Laffi, A. Lindgren, L. Lombardo Radice, L. Milani, M Montessori, E Morante,A. S. Neill, G. Noventa, A M. Ortese, J. H. Pestalozzi, R. Rolland, J.-J. Rousseau, A. Savinio,Vamba, K. Vonnegut, C. Ward, M. ZoebeliImmaginiImparare di Oreste Zevolacon una nota di Stefano De MatteisScenariA Rimini con Margherita di Grazia Honegger FrescoUn crocevia di novità pedagogiche di Andrea GavaQuestione di pelle di Cristina BassoNon c'è peggior sordo... di Luca Des DoridesSpudoratezze pedagogiche e cinematografiche di Emiliano MorrealeUomini e cavalli di Annamaria ManzoniTravestimenti di genere di Federica LucchesiniWolf Bukowski e la narrazione del "farinettismo" di Luca LambertiniGIUGNO / AGOSTO 2015

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Informazioni

Anno
2015
ISBN
9788863571578

Veri maestri. Un’antologia provvisoria

Se si entra in una libreria e si chiede un libro di Enrico Pestalozzi, il fondatore della moderna pedagogia, il commesso ti guarda sbalordito, poi corre al suo computer e la sua ricerca si ferma subito, perché non uno solo dei suoi libri è disponibile, e neanche un’antologia – anche se, al tempo di La Nuova Italia e della collana dei Pedagogisti antichi e moderni, ve n’era una eccellente curata da Antonio Banfi, che non era un nome qualsiasi. I professori di pedagogia attuali si fanno una cultura, come diceva Flaiano dei giovani scrittori, leggendo le proprie opere, e per di più imponendole ai loro allievi. È per questo che, da tempo, sogniamo se non una collana almeno un’antologia, e non del solo Pestalozzi ma dei tanti autori che hanno saputo meglio aprirci gli occhi e la mente al lavoro che ci eravamo scelti.
Non sempre si è trattato di autori – di “maestri” – che si potessero chiamare, o si possano chiamare anche oggi, canonici. La verità è che stimoli di tipo pedagogico ugualmente interessanti e convincenti di quelli dei maestri riconosciuti di questa pratica e scienza ci sono venuti spesso e volentieri da “educatori non autorizzati”, da scrittori e poeti, da filosofi e sociologi, da teologi e teatranti. anche i più arditi e visionari nel loro campo e che proprio per questo si sono posti le domande giuste da farsi sulla condizione dell’uomo e sul suo destino, e per questo, obbligatoriamente, sulla trasmissione del sapere da una generazione all’altra, e dei modelli di convivenza e delle cose da sapere indispensabili ai fini della realizzazione individuale e dell’armonia di una collettività.
Contiamo di realizzare in tempi brevi questa antologia pedagogica irregolare e vitale, in cui le convinzioni e i consigli dei grandi pedagogisti moderni possano trovarsi accanto alle convinzioni e ai consigli di chi è arrivato per altre strade a idee ugualmente importanti, e non conta quanto radicali o quanto sagge, quanto praticabili e quanto, invece, utopiche e però giuste, necessarie, illuminanti. Nell’attesa, offriamo ai nostri lettori qualche esempio antico e nuovo, di grandi dell’altro ieri e di ieri, pedagogisti per scelta e pedagogisti per caso o per vocazione e convinzione profonda, e perfino di qualche “asino” di oggi. Saremo felici di accogliere dai nostri lettori i loro suggerimenti , i brani (meglio se in fotocopia) che essi giudicano utili ad arricchire la nostra ancora embrionale selezione, anche di autori imprevedibili e bizzarri... (Gli asini)
Alberto Savinio | Tragedia dell’infanzia
Al loro ingresso nel mondo, i piccoli uomini sono accolti come nemici. La guerra scoppia tra infanti e adulti, tra l’autorità costituita e questi fieri battaglioni di uomini minuscoli che movono alla conquista del mondo.
Che l’umanità sia così arida di cuore, così spenta di fantasia, così parca di ambizioni, così limitata di desideri; dinota che nella guerra quotidiana tra infanti e adulti, una “vile” vittoria corona di giorno in giorno la fronte degli adulti.
Feste circondano il neonato, l’allegria è di rigore? Ogni eccesso, si cerchi a quale “contrario” fa da contrappeso. Anche la gioia intorno al neonato è un eccesso – di cui bisogna scoprire il contrappeso.
La conduttibilità di elettricità dei corpi, è in proporzione alla refrattarietà di essi corpi all’elettricità.
Si ama il bambino, oppure nel bambino si ama un’altra cosa: la madre, l’amore, l’accoppiamento di cui lui, poverino, non è se non il frutto involontario? Amiamo noi stessi nel bambino? Amiamo nel bambino il nostro proprio orgoglio?
La maternità oltre a tutto è un atto d’orgoglio. Assurdamente, anche la paternità oltre a tutto è un atto d’orgoglio. Quando venne al mondo la mia bambina, i parenti si rallegravano con me “che certamente ero ben orgoglioso...”
Orgoglioso di che?... Vergognoso vorrete dire.
Basta avvicinare appena appena questo interrogativo alla realtà dei fatti, per vergognarci di noi stessi. Quali ragioni “dirette” noi abbiamo di amare il neonato – questo sconosciuto, questo “brutto” sconosciuto?
Il neonato è un simbolo. I simboli non si amano per se stessi. È il simbolo della nostra proprietà. Basta questo presupposto a giustificare l’ostilità, l’odio, la ribellione del figlio ai genitori. Del figlio “che vuole essere amato per se stesso”; del figlio, “questo incompreso”; del figlio nel quale vigila un sordo ibsenismo – un ibsenismo che ancora non ha trovato il suo Ibsen.
(...) Noi uomini di memoria pura, di coscienza immacolata, noi soli possiamo capire quanto stolta, quanto immorale è l’invocazione dell’uomo comune: “Ripetere l’infanzia, stagione spensierata della vita...”
Infanzia: a te, ingrato campo di battaglia senza onore, la memoria di noi uomini coscienti non si rivolge con nostalgia. Non ti desidera: ti sfugge. Non t’invoca: ti ripudia. Tu vuoi dimenticare – soprattutto.
Ogni ricordo, e sia pur l’ombra d’una reminiscenza di ciò che fu l’infanzia, è la conferma spietatamente crudele che la vita, per legge, è una sconfitta.
Infanzia – onda continua di rivoluzione, e sistematicamente stroncata dai “grandi”, questi reazionari. Rivoluzione infaticabile e mai delusa, perché essa non sospetta la disfatta cui è destinata. Non veggono le retroguardie l’insidia nella quale le avanguardie cadono via via. Balda, fidente, l’avanzata continua da che mondo è mondo: l’inaridimento della fede, lo svaporamento delle illusioni avviene per dispersione, come fiume “bevuto” dalla sabbia. (Tragedia dell’infanzia, 1937)
Jean-Jacques Rousseau | Ciascuno di noi è educato da tre specie di maestri
La coltivazione migliora le piante; l’educazione migliora gli uomini. Se l’uomo nascesse grande e forte, la sua statura e la sua forza gli sarebbero inutili, fino a che non avesse imparato a servirsene; esse gli sarebbero dannose, privandolo dell’aiuto degli altri e abbandonato a sé stesso, morrebbe di miseria prima di aver conosciuto i suoi bisogni. Ci si lamenta dello stato d’infanzia, e non si comprende che la razza umana sarebbe perita, se l’uomo non avesse cominciato dall’essere fanciullo.
Noi nasciamo deboli e abbiamo bisogno di forze; nasciamo sprovvisti di tutto e abbiamo bisogno di assistenza; nasciamo stupidi e abbiamo bisogno di giudizio; tutto quello che noi abbiamo quando nasciamo, e di cui abbiamo bisogno da adulti, ci è dato dall’educazione.
Questa educazione ci viene dalla natura, dagli uomini o dalle cose. Lo sviluppo interiore delle nostre facoltà e dei nostri organi, è l’educazione della natura; l’uso che gli altri c’insegnano a fare di queste facoltà e di questi organi è l’educazione degli uomini; e l’acquisto della nostra esperienza sugli oggetti che ci commuovono è l’educazione delle cose.
Ciascuno di noi è dunque educato da tre specie di maestri. Il discepolo, nel quale le loro lezioni si contraddicono, è male educato e non si troverà mai d’accordo con sé stesso; colui invece pel quale quel triplice insegnamento sarà armonico e tenderà al medesimo fine, raggiungerà il suo scopo e vivrà coerente a se stesso. Questi solo è educato bene.
Ora, di queste tre specie di educazione, quella della natura non dipende da noi e quella delle cose ne dipende solo sotto certi aspetti. Quella degli uomini è la sola, di cui noi siamo veramente padroni, benché non lo siamo che per ipotesi: giacché chi può sperare di dirigere interamente i discorsi e le azioni di tutti quelli che circondano un fanciullo?
Se dunque l’educazione è un’arte, è quasi impossibile che essa riesca, poiché il concorso necessario al suo pieno successo non dipende da nessuno. Tutto quello che si può ottenere a forza di cure, è solo di avvicinarsi alla meta; ma occorre una certa fortuna per raggiungerla. (Emilio, 1762)
J. Heinrich Pestalozzi | Portare alla perfezione la cosa più insignificante
I più, quando arrivavano erano in quello stato che è la conseguenza inevitabile dell’estrema degradazione della natura umana. Molti vennero con una scabbia tanto profonda che non potevano quasi camminare, altri con le teste piagate, molti con addosso cenci carichi di parassiti, molti scarni come scheletri, consunti, gialli, con ghigni di scherno e occhi pieni di paura, le fronti solcate dalle rughe della sfiducia e della preoccupazione, alcuni pieni di ardita sfacciataggine, abituati all’ipocrisia, alla mendicità (...). Anzitutto volevo e dovevo conquistarmi la fiducia e l’affetto dei bambini. Se ci riuscivo, potevo aspettare che tutto il resto venisse da sé....per quanto grave e desolata fosse l’ impotenza in cui mi trovavo, essa fu favorevole ai miei fini. Mi obbligò a essere tutto per i miei bambini. Da mattina a sera ero proprio solo in mezzo a loro. Ogni aiuto, ogni gesto, ogni parola d’insegnamento che giungesse loro, proveniva da me. La mia mano era la loro mano, il mio occhio riposava nel loro. (...) Ero sicuro che molti genitori attiravano i ragazzi a casa, soltanto quando erano stati liberati dai cenci e dai loro parassiti. Evidentemente molti venivano all’istituto solo collo scopo deciso di farsi pulire e rivestire per poi andarsene via. Ma finalmente fu proprio la lor persuasione a vincere... e a crescere... cosicché nel 1799 avevo circa ottanta ragazzi. I più di essi avevano buone disposizioni, alcuni addirittura ottime. Imparare era una novità per loro e non appena videro che riuscivano in qualche cosa il loro zelo diventò instancabile (...). Il mio principio fu questo: portare alla perfezione la cosa più insignificante che i bambini imparavano, non far loro dimenticare nessuna parola imparata, non permettere mai che tornassero a scrivere male una lettera che avevano scritto bene... ero paziente con i più lenti, ma se qualcuno faceva male qualcosa che aveva già fatto bene, diventavo severo. La quantità e la disparità dei bambini facilitarono il mio compito. (...) I miei ragazzi erano felici di insegnare agli altri quello che sapevano, il loro senso dell’onore si risvegliava ed essi imparavano doppiamente facendo ridire da altri quello che essi ripetevano. Così ebbi rapidamente aiutanti e collaboratori...che avevano fatto progressi insieme alla mia scuola e che, nella capacità di insegnare ai più deboli che non avevano imparato, per i bisogni dell’istituto sarebbero divenuti senz’altro più variamente utilizzabili di veri e propri insegnanti. (Il metodo, 1945)
John Dewey | Vivere nel proprio tempo
Non è raro il caso di incontrare persone che hanno frequentato poco le scuole e che da questa deficienza hanno tratto un beneficio positivo. Esse hanno conservato il buon senso e l’accorgimento nativi, il cui esercizio nelle condizioni in cui sono state chiamate a vivere ha dato loro un prezioso dono: la capacità di apprendere dalle loro esperienze. Che beneficio c’è ad accumulare le prescritte notizie di geografia e di storia, ad apprendere a leggere e a scrivere, se con questo l’individuo perde la sua anima, il discernimento delle cose buone, dei valori cui queste cose si riferiscono; se perde il desiderio di applicare ciò che ha appreso e, soprattutto, se ha perduto la capacità di estrarre il significato dalle esperienze future in cui via via si imbatterà?
Quale è dunque il vero significato della preparazione sul piano educativo? Il primo luogo, un individuo, giovane o vecchio, deve trarre dalla sua esperienza presente tutto quanto essa gli offre in quel momento. Se si considera che il fine che controlla è la preparazione alla vita le possibilità del presente sono sacrificate a un ipotetico futuro. Ogni volta che questo accade, l’attiva preparazione per il futuro vien meno o è falsata. L’ideale di adoperare il presente unicamente come preparazione al futuro è in sé contraddittorio. Significa omettere o persino eliminare le sole condizioni che permetterebbero a un individuo di preparare il proprio avvenire. Noi viviamo sempre nel nostro tempo e non in un altro: solo estraendo in ogni momento il pieno significato di ogni esperienza presente ci prepariamo a fare altrettanto nel futuro. (Esperienza e educazione, 1949)
Maria Montessori | La parola educazione
Ora, supponete che la vita indipendente dell’infanzia non sia riconosciuta nei suoi caratteri e nei suoi fini e che l’uomo adulto interpreti caratteri che sono diversi dai suoi, come errori che scorge nel bambino e che si affretta a correggere. Ecco avvenire una lotta tra il forte e il debole che è fatale per l’umanità: perché dalla perfetta e tranquilla vita spirituale del bambino dipendono la salute o la malattia dell’anima; la forza o la debolezza del carattere; la chiarezza o l’oscurità dell’intelligenza.
E se in quest’epoca delicata e preziosa si stabilisce una forma sacrilega di schiavitù, il seme della vita diverrà sterile, e non sarà più possibile agli uomini di portare a termine le opere grandi a cui la vita li destina.
Ora, la lotta tra l’adulto e il bambino è realizzata nella famiglia e nella scuola, in quella forme che si chiama ancora con vecchia parola: l’“educazione”.
Quando abbiamo riconosciuto la personalità infantile in se stessa e le abbiamo offerto campo di espansione, come ne abbiamo fatto prova nelle nostre scuole, ove fu costruito per il bambino un ambiente adatto al suo sviluppo spirituale, ci si è rivelata una personalità infantile tutta nuova, con caratteri sorprendenti, del tutto opposti a quelli finora conosciuti. Con un appassionato amore dell’ordine e del lavoro, il bambino dà prova di qualità di intelligenza assai superiori a quanto noi si fosse supposto. È evidente che nell’educazione comune il bambino ricorre per istinto a infingimenti per nascondere le sue capacità, per adattarsi ai giudizi dell’adulto che l’opprime.
Il bambino compie il crudele sforzo di nascondere se stesso, seppellendo nel suo subconscio tutta una vita che vorrebbe espandersi, e che è fallita nelle sue aspirazioni. E, con tale fardello nascosto, va ad arruolarsi tra gli errori del mondo.
La questione dell’educazione rispetto alla guerra e alla pace è questa e non riguarda il contenuto della cultura. Si parli o no di guerra ai bambini, si adatti in un modo o nell’altro la storia dell’umanità a uso dei fanciulli, ciò non cambia nulla al destino della società. (Educazione e pace, 1953)
Albert Camus | Il primo maestro
Poi andavamo in aula. Col signor Bernard, le lezioni erano sempre interessanti, per la semplice ...

Indice dei contenuti

  1. Strumenti
  2. Morti in mare
  3. Expo, una farsa
  4. Grandangolo
  5. Pratiche
  6. Veri maestri. Un’antologia provvisoria
  7. Imparare di Oreste Zevola
  8. Scenari