Autismo. Apprendere con il metodo comportamentale
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Quando i genitori dei bambini autistici comprendono che nei loro piccoli c'è qualcosa che non va, oltre a sperimentare paura e angoscia, attraversano momenti di crisi in cui devono mobilitare risorse e strategie di coping per fronteggiare una situazione che coinvolge sia il piano affettivo che il piano cognitivo. Inoltre, i genitori incontrano difficoltà nella scelta del trattamento, nell'instaurare un rapporto con il figlio e nella gestione dei suoi comportamenti.Grazie ad internet, alle associazioni e alle informazioni che giungono dagli specialisti queste famiglie trovano dinnanzi a loro diverse vie da perseguire… ma quale scegliere?Ad oggi, l'intervento comportamentale si è dimostrato efficace nel trattamento dell'autismo. Applicando i principi del comportamentismo, l'intervento ha l'obiettivo di favorire i processi di apprendimento di abilità specifiche migliorando così la qualità di vita dei bambini e delle loro famiglie.Sara La Grutta e Annalisa De Filippo, dopo aver delineato le caratteristiche principali dell'autismo, e più in generale dei Disturbi Generalizzati dello Sviluppo, illustrano l'intervento individualizzato di tipo comportamentale, presentando sommariamente i programmi relativi alle diverse aree dello sviluppo.Un testo rivolto a genitori, operatori e studenti interessati al tema dell'autismo o che si confrontano quotidianamente con tale realtà.

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Informazioni

Anno
2012
ISBN
9788889845820

L’Autismo

Sara La Grutta, Annalisa De Filippo

1. I Disturbi Generalizzati dello Sviluppo

I Disturbi Generalizzati dello Sviluppo o Disturbi Pervasivi dello Sviluppo, diagnosticati nei primi anni di vita, comprendono un gruppo di disordini caratterizzati da una compromissione grave e generalizzata in diverse aree dello sviluppo: insufficienza qualitativa nello sviluppo dell’interazione sociale reciproca, nello sviluppo delle capacità di comunicazione verbale e non verbale e nell’attività immaginativa. Spesso vi è la presenza di comportamenti, attività ed interessi ristretti, ripetitivi e stereotipati. Vi può essere un certo grado di ritardo mentale e, talvolta, condizioni medico generali quali anomalie strutturali nel sistema nervoso o anomalie cromosomiche.
I Disturbi Generalizzati dello Sviluppo indicati nel DSM-IV includono il Disturbo Autistico, il Disturbo di Asperger, il Disturbo di Rett e il Disturbo Disintegrativo della Fanciullezza.
In ultimo, vi è la categoria diagnostica “Disturbo Generalizzato dello Sviluppo Non Altrimenti Specificato” in caso di una compromissione grave e generalizzata dello sviluppo, dell’interazione sociale reciproca o delle capacità di comunicazione verbale e non verbale. Inoltre, se sono presenti comportamenti, interessi o attività stereotipati, essi non devono soddisfare i criteri per uno specifico Disturbo Generalizzato dello Sviluppo.
Di seguito verranno presentati sommariamente i Disturbi Generalizzati dello Sviluppo, mentre nel secondo paragrafo si illustrerà nel dettaglio il Disturbo Autistico.

1.1. Disturbo di Asperger

Il termine “Sindrome di Asperger”, o Disturbo di Asperger, venne coniato dalla psichiatra inglese Lorna Wing, in una rivista medica del 1981, a seguito del lavoro dello psichiatra e pediatra Hans Asperger (1944).
Tale definizione è stata molto utile a livello clinico per definire ed identificare i casi che, per la loro caratteristica “lieve”, non avrebbero potuto ricevere una diagnosi di autismo (Grassi, 2005).
Nello studio del 1944, Asperger riferì di una malattia molto simile a quella trattata l’anno prima dallo psichiatra Leo Kanner (1943). Appare interessante come entrambi gli autori, partendo da casi diversi e da background socio-culturali differenti, abbiano messo in evidenza le caratteristiche della comunicazione e le difficoltà di adattamento sociale, ponendo particolare attenzione alle stereotipie dei movimenti e ai successi intellettivi molto variabili, che spesso interessano solo alcune aree (Frith, 1989).
In un primo momento si era ipotizzato che Asperger avesse descritto un tipo di bambino molto diverso da quello di Kanner; solo successivamente sono emerse le analogie che hanno permesso uno studio più approfondito ed una valutazione differenziata delle due patologie.
L’approccio di Asperger nella comprensione di questa patologia è singolare, in quanto egli ha tentato di collegare il comportamento autistico alle normali variazioni della personalità e dell’intelligenza. I bambini osservati da Asperger mostravano notevoli disturbi di integrazione sociale e possedevano una “intelligenza autistica”, che si collocava all’opposto dell’apprendimento convenzionale e dell’astuzia accorta. Secondo l’autore, l’intelligenza autistica costituisce un ingrediente vitale di tutte le creazioni dell’arte o della scienza (Frith, 1989).
Il Disturbo di Asperger, che sembra essere più comune nei soggetti di sesso maschile, si caratterizza per una compromissione grave dell’interazione sociale e per la presenza di comportamenti, attività e interessi ristretti e ripetitivi. I bambini con tale disturbo non mostrano il bisogno di compagni di gioco, presentano interessi limitati e mancanza di empatia, tendono ad essere motoriamente goffi, ad avere una scarsa coordinazione motoria ed un’atipica deambulazione. È frequente la presenza di stereotipie motorie e non vi sono ritardi significativi del linguaggio (Cazzullo et al., 1998). Gli individui affetti da questa sindrome possono osservare un sorriso mostrato da un’altra persona senza capire se si tratta di accondiscendenza o malizia. Trattandosi di un disturbo con ampio spettro di variazione, alcuni individui sono in grado di leggere le espressioni facciali e le intenzioni degli altri; alcuni mostrano difficoltà nel guardare negli occhi le persone, mentre altri hanno uno sguardo penetrante.
Asperger definì i suoi pazienti “piccoli professori”, basandosi sull’osservazione di giovani pazienti che possedevano un bagaglio di conoscenze, ristrette a singoli campi di interesse, paragonabili a quelle dei professori universitari. Infatti, gli individui con tale sindrome hanno un’intelligenza nella norma, talvolta superiore, un’intensa attenzione ed una tendenza a capire logicamente le cose, a scapito di una capacità di interazione sociale nettamente inferiore che già nell’ambiente scolastico può portare a difficoltà nelle relazioni.
La Sindrome di Asperger viene comunemente considerata una forma di autismo ad alto funzionamento, caratterizzata dunque da difficoltà nelle relazioni sociali piuttosto che da un’alterazione della percezione, della rappresentazione e della classificazione della realtà, tipiche dell’autismo, da cui si distingue anche per la mancanza di ritardo nello sviluppo del linguaggio e per un maggior coinvolgimento emotivo.
Nella pratica clinica, però, i criteri diagnostici non sempre permettono una diagnosi differenziale tra autismo ad alto funzionamento, Disturbo di Asperger e Disturbo Generalizzato dello Sviluppo Non Altrimenti Specificato (Szatmari, 2003; Walker et al., 2004).
Per ciò che attiene al decorso della patologia, mentre molti pazienti continuano ad avere notevoli problemi, alcuni riescono a superare gli ostacoli, ad avere successo nel lavoro, a sposarsi e ad avere figli.
Per quanto riguarda l’eziologia si pensa che la maggioranza dei casi siano causati da fattori genetici. Nello studio di Gilbert (1990) oltre la metà del gruppo di soggetti con Disturbo di Asperger aveva un parente di primo grado con problemi analoghi.
In merito agli interventi rivolti ai soggetti con Sindrome di Asperger, il miglior approccio sembrerebbe quello di porsi l’obiettivo di migliorare l’adattamento scolastico e relazionale; tra i vari trattamenti proposti sarebbe preferibile orientarsi verso interventi psicoeducativi e colloqui di counseling, che mirano ad insegnare all’individuo come affrontare le proprie emozioni, imparando a potenziare le carenze nelle capacità relazionali (ERE).

1.2. Disturbo di Rett

Il Disturbo di Rett, o Sindrome di Rett, è un disturbo neuroevolutivo che rappresenta una delle cause più comuni di ritardo mentale grave nei soggetti di sesso femminile. La prevalenza di tale disturbo è 1 su 10.000/12.000 bambine, con nessun caso riportato nei maschi.
Tale patologia prende il nome da Andreas Rett, neurologo austriaco, che per primo la descrisse nel 1966 dopo aver osservato la presenza di sintomi comuni in alcune bambine da lui visitate. I suoi articoli scientifici furono ignorati per molti anni, in quanto scritti in lingua tedesca; solo nel 1982, la comunità scientifica internazionale venne a conoscenza della Sindrome di Rett, grazie alla pubblicazione in lingua inglese del neurologo svedese Hagberg (1989), che descrisse in maniera dettagliata i sintomi tipici della malattia.
L’esordio della Sindrome di Rett si colloca intorno alla fine del primo anno di vita quando, dopo un iniziale sviluppo nella norma, si evidenzia un arresto nello sviluppo psicomotorio, con decelerazione nella crescita della circonferenza occipitofrontale della testa. Tale regressione, preceduta da ipotonia, ridotta motilità, eccessiva attività ripetitiva e incapacità ad iniziare un gioco, può essere improvvisa o graduale. Progressivamente si notano anomalie nella manipolazione e nelle capacità linguistiche, di solito completamente perse entro i 18 mesi. Compaiono gradualmente anche stereotipie nelle mani (per esempio torcerle, batterle, morderle, strizzarle) e sono presenti periodi di arresto respiratorio con tremori e rigidità ed anomalie elettroencefalografiche. Inoltre, si assiste a un ritiro sociale e ad una progressiva perdita di interesse per l’ambiente circostante. In alcuni casi il decorso della patologia vede apparire spasticità talvolta associata a scoliosi e deformità degli arti inferiori, con conseguenti perdita della deambulazione, ove acquisita, ed epilessia.
La Sindrome di Rett sembra essere un disturbo genetico probabilmente dovuto ad una mutazione autosomica dominante, letale per i maschi (Cazzullo et al., 1998).
Per quanto riguarda gli interventi terapeutici per le bambine con la Sindrome di Rett, sembrerebbe predominare il trattamento sintomatico e di supporto.
Per ciò che attiene alla diagnosi differenziale, sebbene la presenza di stereotipie e ritiro sociale possano indurre a una diagnosi di Disturbo Autistico, vi sono delle caratteristiche distintive tra le due patologie: la Sindrome di Rett colpisce solo le femmine, mentre l’autismo prevalentemente i maschi; nel Disurbo di Rett le stereotipie sono qualitativamente diverse e meno complesse, la perdita del linguaggio è irreversibile e il ritardo mentale è più grave; sono presenti anche microcefalia (testa più piccola rispetto al resto del corpo), ritardo di crescita, alterazione della marcia associata ad atassia del tronco e aprassia, non riscontrabili, invece, nei soggetti autistici (Cazzullo et al., 1998).

1.3. Disturbo Disintegrativo della Fanciullezza

I dati epidemiologici indicano che il Disturbo Disintegrativo della Fanciullezza, denominato anche Disturbo Disintegrativo dell’Infanzia, Sindrome di Heller, demenza infantile o psicosi disintegrativa, è una condizione molto rara: si stima la presenza di 11 casi su un milione di bambini nati, con prevalenza nei maschi; spesso è associata a ritardo mentale grave e compare mediamente tra i 3 e i 4 anni. Secondo il DSM-IV un criterio diagnostico prevede che l’esordio debba avvenire prima dei dieci anni di età. Il decorso della patologia è continuo e, nella maggior parte dei casi, perdura per tutta la vita.
I prodromi possono includere aumentati livelli di attività, irritabilità e ansia, seguiti da una perdita del linguaggio, delle capacità sociali, delle capacità motorie, del gioco e del controllo della defecazione e della minzione.
All’esordio la patologia può presentare sintomi attribuibili alla sfera autistica, ma secondo i criteri del DSM-IV, il Disturbo Disintegrativo della Fanciullezza può essere diagnosticato solo se i sintomi sono preceduti da almeno due anni di sviluppo nella norma. I primi sintomi includono una perdita o una grave regressione dell’uso del linguaggio, seguita da deterioramento intellettivo e comportamentale, perdita di interesse per l’ambiente e alterazione dell’interazione sociale.
Anche se l’età di comparsa è più tardiva e l’entità del deterioramento è maggiore rispetto all’autismo, può essere estremamente difficile determinare se si tratta di un caso di autismo a esordio tardivo o di un Disturbo Disintegrativo della Fanciullezza (Cazzullo et al., 1998).

1.4. Disturbo Autistico

Il Disturbo Autistico, o autismo, è un disturbo straordinariamente enigmatico, al contempo sottile nelle sue manifestazioni. I soggetti affetti da questo deficit erigono un muro impenetrabile tra se stessi e il mondo circostante e sembrano vivere in una loro dimensione.
L’etimologia della parola “autismo” deriva dal greco autòs (io stesso) e tale termine è stato introdotto per la prima volta nell’ambito della psicopatologia da Eugen Bleuler, nel 1911, per definire il particolare ripiegamento su se stessi e sul proprio mondo interno che caratterizzava alcuni soggetti schizofrenici. Egli considerò l’autismo come un sintomo ed una modalità comportamentale tipica della schizofrenia, che indicava una perdita di contatto con la realtà ed una polarizzazione di tutta l’attività mentale sul mondo interiore. In particolare, l’autore sostenne che l’autismo fosse caratterizzato da un restringimento delle relazioni con le persone e con il mondo esterno, così estremo da escludere qualsiasi cosa eccetto il Sé della persona (Grassi, 2005).
La tipica immagine del bambino affetto da autismo è sorprendente, in quanto nella maggior parte dei casi, il soggetto colpisce chi lo osserva per la sua incantevole bellezza, ma sotto questa apparenza si cela un’anomalia neurologica sottile e devastante.
Al contrario, osservando i bambini affetti da altri disturbi evolutivi, si nota che il loro particolare aspetto fenotipico mette chiaramente in evidenza il deficit facendoli apparire handicappati. Il vantaggio di non possedere caratteristiche fisiche specifiche che potrebbero indurre ad una facile etichettatura di “malati” può, però, rappresentare per i bambini autistici un ostacolo ad una diagnosi precoce.
Il DSM-IV cita alcuni studi epidemiologici, secondo i quali il tasso di Disturbo Autistico è relativamente raro e riguarda 2-5 casi su 10.000 soggetti, mentre secondo le stime basate sulle ricerche condotte in Inghilterra e negli Stati Uniti l’autismo interessa 4-5 bambini su 10.000 nascite. Alcuni autori sostengono che la prevalenza dell’autismo sia maggiore, ma per il momento non ci sono dati epidemiologici a sostegno di questa tesi (Fombonne, 1999). Peeters (1994), ad esempio, riferisce un’incidenza di circa 10 casi ogni 10.000 soggetti.
Bisogna sottolineare, però, che in letteratura esistono numerosi tentativi di definire con precisione il numero delle persone affette da autismo, finora tutti infruttuosi; la riprova di ciò consiste nei risultati degli studi del 1997, pubblicati dalla Società Nazionale dell’Autismo, che fanno variare l’incidenza da 5 su 10.000 a 91 su 10.000. Un’incidenza così variabile, però, va spiegata ed analizzata attentamente: tali stime si riferiscono, infatti, alla più vasta definizione di autismo, che include tutte le patologie che rientrano in questo spettro (Cumine, Leach, Stevenson, 2000).
Inoltre, è interessante rilevare che le stime sull’incidenza della patologia variano notevolmente a seconda del paese per fattori genetici, influenze ambientali e criteri diagnostici (Pani, Sagliaschi, 2004).
Tutti gli studi effettuati in quest’ambito riflettono i risultati di Kanner in merito alla preponderanza dei maschi rispetto alle femmine, anche se queste ultime pazienti mostrano spesso sintomi più gravi (Pelios, Lund, 2001). Ciadella e Mamelle (1989) suggeriscono un rapporto di due maschi per una femmina, mentre Lord e Schopler (1987) riportano dati attestabili su un rapporto di 5:1. Uno studio più recente (Volkmar et al., 1993) ha confermato che le differenze di genere sono correlate ai punteggi del Q.I. e non alla gravità dell’autismo. Tali risultati sono in linea con le ricerche che hanno mostrato come le caratteristiche dell’autismo siano di per sé relativamente indipendenti dalle capacità intellettive e dalle abilità apprese (Frith, 1989).
Le prime preoccupazioni sul normale sviluppo del bambino compaiono attorno al secondo anno di vita a causa dell’assenza, o presenza deficitaria, di alcuni comportamenti sociali quali il contatto oculare, l’attenzione condivisa, l’imitazione di semplici azioni (ad esempio battere le mani), la ricerca di persone familiari oppure il voltarsi nella direzione di uno stimolo uditivo o visivo significativo (Dahlgren, Gillberg, 1989; Klin, Volkmar, Sparrow, 1992). Esiste, tuttavia, una minoranza di individui diagnosticati come autistici che non sembra dimostrare anormalità nello sviluppo entro tale periodo (Volkmar, Cohen, 1991); è possibile che una manifestazione così tardiva delle caratteristiche sopra descritte sia comune in soggetti con intelligenza nella norma.
Trattandosi di un disturbo che colpisce globalmente lo sviluppo mentale, le sue manifestazioni cliniche variano notevolmente a seconda dell’età cronologica e dello sviluppo del bambino: in età precoce i segnali risultano molto sottili e difficilmente evidenti, a differenza di quelli che si manifestano in bambini più grandi (Bottarini, 2005). In generale, però, si riscontra che il deficit sociale diventa evidente tra il secondo e il terzo anno e che spesso emerge frequentando l’asilo: il bambino non fornisce risposte sociali adatte ai suoi pari e non è in grado di socializzare con loro (Frith, 1989). Con lo sviluppo, il soggetto si può dimostrare maggiormente disponibile ad essere coinvolto passivamente nell’interazione sociale mostrando più interesse al rapporto con gli altri, ma quando ciò avviene l’uso dell’altro è comunque strumentale, con il fine di appagare le proprie esigenze momentanee: in questi casi, infatti, il rapporto interpersonale che instaura è limitato alla richiesta di qualcosa e non allo scopo di condividere interessi, bisogni ed emozioni (Bottarini, 2005).
Quando poi, a tre anni, il bambino non parla e sembra non comprendere ciò che gli viene detto, la preoccupazione dei genitori aumenta e fa scattare il campanello d’allarme, che induce la famiglia a contattare uno specialista. Sovente, i tempi della diagnosi sono molto lunghi in quanto le famiglie effettuano varie peregrinazioni da uno specialista all’altro prima di ottenere una diagnosi certa. Poiché la valutazione in bambini molto piccoli è complessa, risultano fondamentali le osservazioni routinar...

Indice dei contenuti

  1. AUTISMO. Apprendere con l’intervento comportamentale
  2. Indice
  3. Premessa
  4. Introduzione
  5. L’Autismo
  6. Il metodo comportamentale
  7. Apprendere con l’intervento comportamentale
  8. Conclusioni
  9. Bibliografia
  10. Sitografia