Tiziana Campanella
Nella mente di Jane
Emergere dal silenzio
Indice
I
II
III
IV
V
VI
VII
VIII
IX
X
XI
XII
XIII
XIV
XV
XVI
XVII
XVIII
XIX
XX
XXI
XXII
XXIII
XXIV
XXV
XXVI
XXVII
XXVIII
XXIX
XXX
XXXI
XXXII
XXXIII
XXXIV
XXXV
XXXVI
Note
I
Andare o restare. Scappare o aggredire. Mentire e fingere di non sentire. Giusto o sbagliato. Bianco o nero. Essere liberi e indipendenti o fragili e inconsistenti. Scrivere per sciogliere e districare tutto quello che c’è dentro, dipingerlo con un acquerello, rappresentarlo pur di non ingoiarlo. Senza fare rumore.
Correre ineluttabilmente verso qualcosa per poi scoprire che non ha sapore, interrompersi per restare un po’ tra la mente, a rincorrere fantasie, echi di antichi suoni, a fantasticare una vita diversa, intinta di qualcosa di buono, immaginarla piena di passioni che disarmano ogni delusione e poi, ritornare in una terra reale che come un deserto condanna alla disperata e perenne ricerca di una goccia d’acqua, pregando che non sia solo frutto di un errante miraggio.
Dentro questo paesaggio io viaggio. Ora avanti, ora indietro. E non mi arresto mai, nonostante io, resti ferma.
Avete mai avuto la sensazione di percorrere due fiumi che non s’incontrano mai?
Sono in partenza. Sono su un treno che corre troppo velocemente. Non riesco a pensare. Non riesco a respirare. Ho sbagliato tempo, ho sbagliato luogo, ho sbagliato posto. Un’epoca fa si viaggiava diversamente. Il tragitto da città a città consentiva tempo per pensare verso cosa si stava per andare, permetteva di ascoltare e di conoscere la gente che accanto gentilmente ti sorrideva. Erano percorsi più emozionanti, meno caotici, scanditi da un ritmo molto più lento. Oggi gli aerei azzerano quest’attesa, creano solo ansia della salita e della discesa. Non si gusta più quella trepidante emozione che precede l’arrivo in un luogo che si ha il desiderio di visitare, il piacere è defraudato da una vista che ha occhi che non sanno più guardare, catturare e fotografare scenari degni di devota ammirazione. Si scartano ed ingoiano caramelle senza neanche aver intuito la peculiarità della loro essenza. Si vola da una città all’altra con la stessa ed identica direttiva.
Il massiccio ed ormai esclusivo, utilizzo di internet e dei computer, schermi luminosi che attirano tutta l’attenzione, di mezzi di comunicazione come facebook, non promuovono altro che l’appiattimento della relazione e dell’emozione. L’unico motivo ricorrente in questa giostra, in quest’atmosfera, è il prevalere dell’apparenza, del mostrare e contattare chissà quante persone virtualmente senza però mai incontrarle veramente. Queste nuove frontiere, a dir la verità, non hanno fatto altro che abbattere tutti i confini della realtà.
Oggi mi sembra di trovarmi in uno spazio-tempo poco chiaro, poco definito e non strutturato, dove tutto si consuma in un attimo, dove la velocità del fare ha spodestato completamente tutte le sfumature che regolano l’incontro con l’altro. Mi sento immersa in una finzione e in una rincorsa alla perfezione, senza profumi, né distinzioni. È come se mancasse un pezzo. Già, ma non capisco più quale.
Non ci sono più le giuste distanze. A volte mi sembra che le persone si confondano l’una con l’altra. Ed è per questo che mi sono abbastanza indifferenti. A volte le immagino come un colore che cola e mischiandosi con gli altri si sfuma e assume miriadi di sfumature, crea vortici convergenti che muovendosi portano con sé le tonalità degli altri colori e unendosi continuamente sono destinati a cambiare. La loro essenza sfugge e con essa anche la loro forma.
A me sembra di essere costantemente alla ricerca di qualcosa che desti tutti i miei sensi, che li amplifichi e che mi faccia sentire finalmente viva. Cerco di ritagliarmi angoli di sensibilità che sembrano appartenere a poche personalità, difficili da incontrare, ancor di più da contattare. Non mi resta che aspettare e sperare di annusare qualcuno che le sappia apprezzare e scoprire come me.
Quando mi guardo intorno quel che noto con un certo brivido di rassegnazione è che la gente, nonostante tutto questo miscelarsi in qualcosa di dissolvente, è persa unicamente nella propria individualità. Siamo tutti soli con noi stessi.
Siamo tutti concentrati su una linea ideale dentro la quale stare o ambire. I valori sono mutati, gli obiettivi ne sono stati influenzati e l’entusiasmo genuino che brillava negli occhi della gente piena di serenità è svanito. Siamo accecati da una perdita di sensibilità e vulnerabilità che permettono l’autenticità, la vera creatività e la vera voglia di vivere.
Cosa potrei condividere con le persone che qui, in questo vagone, mi sono vicine? Ognuno lo sento isolato dentro il suo guscio, dipendenti da apparecchi cellulari che non fanno altro che incrementare il controllo sull’altro, che spogliano di ogni mistero l’incontro casuale o mancato. I lori occhi sono puntati su computer. Oggetti diventati ormai il prolungamento di se stessi. Ma, d’altronde, questo io lo so molto bene. Ognuno ne ha uno proprio. Anche io ho il mio.
Mi guardo intorno.
Adesso i vagoni di questi nuovi ferri a motore ad alta velocità, sono diventati tutti interi. Prima erano comodamente suddivisi in cabine da cinque o sei posti e questo permetteva un’intimità più vera, una possibilità di scambio. Così, invece, in questa disposizione, dentro un lungo spazio comune tutto aperto e decisamente troppo stretto, diventa fastidioso sentire qualcuno che chiacchiera un po’ più lontano. Partecipare è praticamente impossibile. Diviene perciò solo un ronzio di sottofondo che risulta irritante. La persona che mi siede di fronte è già ritirata ed impegnata a guardare un film sullo schermo del suo personalissimo ed inseparabile portatile e per questo è già da scartare.
Sospiro. Riesco solo a pensare che restano delle lunghe ore da occupare. I miei occhi si abbassano. Non mi resta altro da fare che azzerare ogni suono esterno, concedermi alla musica che viene dal mio profondo e abbandonarmi alle mie visioni e sensazioni. Incontrare gli occhi della mia mente. Scivolo dentro canali di immaginazione, mi lascio trascinare dentro scenari che ho voglia di vistare, mi perdo nel mio mare interiore che solo io so come attraversare. So a quale giusta profondità immergermi, ascolto le note che suonano una melodia che non è mai casuale, ma legata visceralmente con qualcosa che le parole non riescono a spiegare. Ora è un lamento, che ha le sembianze del mio tormento, è un grido disperato che raggiunge niente e nessuno, è un tamburo che come un fuoco si accende e poi si spegne, è un fruscio delicato che mi permette di stare in silenzio, ad ascoltare quello che più in quel momento mi scorre dentro.
Tutto quello che mi serve è un po’ di tempo, un po’ di pace per la mia mente, tutto quello che voglio è andare oltre questo sole, camminare e sentire il mio peso. Ho bisogno di una musica dentro la quale stare e risuonare, un luogo, dentro cui io, mi possa ritrovare. Per cui valga la pena di restare. I labirinti della mente sono infiniti ma ognuno inconsciamente ripercorre quelli entro cui si sente più sicuro. Ma a volte si tramutano in percorsi senza meta, senza via di uscita e allora diventano solo inganni. Io ho i miei.
Mi piace andare oltre quello che vedo, quello che scorgo lì in quel momento davanti a me. Lo so, sono io a isolarmi, a prendere le distanze ma non vedo cos’altro potrei fare. Gli interessi non combaciano. La passione nella gente è scomparsa o apparsa sotto forme a me avverse. Si litiga per niente e si parla di cose futili e a me non resta altro che viaggiare con la mente.
II
Dopo una lunga assenza sto tornando nella mia terra amata quanto la mia stessa pelle. L’Inghilterra. Riesco già quasi a percepire il clima differente, l’aria dal carattere più intrigante.
L’impressione che suscita il primo contatto è in qualche modo pur sempre veritiero. Sono pronta a riascoltare quello che la terra mi suggerirà; le sue vibrazioni, ne sono certa, giungeranno fino al cuore ed i miei sensi mi bisbiglieranno l’emozione prevalente.
Questa piccola stazione è ancora libera dall’affollamento che di solito ormai caratterizza tutte le grandi città. Cammino e mi guardo intorno con la vaga sensazione di sentirmi immersa in un bagno fresco di fiori profumati. Mi sembra di essere piacevolmente accompagnata dall’armonia che regna in questo piccolo e lontano paradiso, scandito da un ritmo lento, decisamente più calmo.
Intravedo un taxi, mi avvicino, l’autista scende e scambiando un segno d’intendimento, gentilmente mi aiuta a posare i bagagli dentro l’autovettura e, quasi per non alterare la fluidità di quest’atmosfera inebriante, entriamo in macchina in silenzio e procediamo per una via che conosco davvero molto bene ma che oggi mi sembra di vivere come se fosse la prima volta, tanto è l’entusiasmo che mi scorre nelle vene, tanto è limpido il mio cuore.
L’aria non è tersa, ma questa lieve nebbia che incontriamo non rovina lo scenario, anche quella più fitta che avvolge il Glamis Castle, più a nord nella verdissima Scozia, un luogo davvero incantato e inquietante, poiché abitato da spettri di anime perse nel loro tormento infinito, pieno di misteri e di segreti che non possono essere svelati, non sarebbe in grado, in questo momento, di offuscare, come un velo totalmente coprente, quel che è libero di trasparire e prender forma in modo parziale per continuare nella mente, a chiuderne i contorni in un processo sorprendentemente nutriente.
Guardo e mi lascio attraversare da quello che vedo. Con incredulità noto che tutto sembra esser rimasto come inalterato, nonostante l’estensione delle costruzioni, queste strade sembrano immutate, tanto da farmi immaginare per assurdo che qualcuno abbia potuto fermare lo scandire del tempo, come in un fermo immagine.
L’automobile prosegue con un passo adagio, l’autista ha messo via la parola, è buffo ma sembra quasi percepisca lo stato in cui mi trovo, e assorta dentro questa mia scoppiettante energia che pur non muovendosi fa rumore, ci accingiamo a percorrere un vialetto non asfaltato, senza recinzioni né schiere fitte di abitazioni, solo distese di verdi colline a riempire un paesaggio che sa di familiare.
L’auto si ferma, una sensazione di euforia cresce. Chiudo per un attimo gli occhi. Smetto di respirare per un momento e d’incanto tutto mi appare. Le mie mani scivolano tremanti sul mio viso. Non riesco a scendere dalla macchina, vorrei rimanere qui ancora e ancora per godere dell’emozione, tenerla stretta a me un altro po’, ma qualcosa mi spinge subito via da quell’abitacolo avvertito d’improvviso troppo stretto, ormai, per contenere quel che provo dentro. Rischia di esplodere, se non esco subito e tramuto tutto questo in un grido, in un richiamo che come un faro attira tutta l’attenzione su di sé.
- Ehi! C’è nessuno in casa? Ci siete! Mamma, Susan sono tornata!-.
III
La pioggia corre via sul finestrino del treno che continua ad andare.
Guardo la mia valigia, ripasso in rassegna le cose al suo interno; di sicuro ho dimenticato qualcosa, anzi, a dire la verità, ho la sensazione che sia vuota, ho sistemato casualmente le prime cose che ho trovato nel mio armadio e sono partita.
Ormai è quasi buio e a me sembra di essere in uno stato di dormiveglia. A volte ho la sensazione di sentirmi neutra, come sospesa. A volte accade, forse per effetto di ombreggiatura, che il sogno coli oltre i suoi confini, che i colori che compongono la sua tela vadano oltre il sonno, che le immagini ripercorrano continuamente gli occhi e le sensazioni affollino la mente, creando confusione in un quadro che risulta surreale, dove gli oggetti restano della stessa forma ma cambiano la loro consistenza o, rimangono della stessa materia ma cambiano la loro essenza.
È il gioco di sensazioni ed immagini che organizzano le mie percezioni. È una casa buia anche se fuori splende la luce del giorno. È un castello possente che poggia su niente. Ѐ un cielo dentro un bicchiere trasparente, è un cavalletto che regge il quadro creato dal paesaggio che guardo oltre la finestra, è una statua di marmo bianco ferita di rosso alla testa.
L’oscurità delle nuvole ricoprono l’azzurro ormai diradato del cielo, che si riflette dentro me, quasi fossi senza alcun filtro.
Roma è ormai lontana, sono quasi giunta alla mia città natale e ad ogni chilometro percorso amplifica sempre più quella sensazione, sì, proprio quella che mi fa smettere di respirare, non per l’emozione, ma per il timore.
Se potessi deraglierei il treno, cambierei la destinazi...