Il pensiero di Aldo Capitini. Filosofia, religione, politica
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Il pensiero di Aldo Capitini. Filosofia, religione, politica

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Il pensiero di Aldo Capitini. Filosofia, religione, politica

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Uno dei filosofi più importanti del nostro XX secolo discute il pensiero di Aldo Capitini in un partecipe ritratto amicale e teorico, tra filosofia, religione e politica. Una lettura dell'opera del maggiore pensatore e attivista della nonviolenza in Italia che mette a confronto le opinioni di un "persuaso" con quelle di un "perplesso" che ne è sollecitato e provocato.

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Informazioni

Anno
2012
ISBN
9788863570847

Religione e politica in Aldo Capitini

1. Nella storia della spiritualità italiana Aldo Capitini occupa un posto singolarissimo. Tanto singolare che mi vien fatto di parlare di “spiritualista” e non, come ci si aspetterebbe, di “cultura”. Chi studia Croce o Gramsci, non stenta a trovare nessi significativi tra il loro pensiero e il nostro passato culturale e civile. Per Capitini la ricerca è difficile, quasi disperata.
Alla Scuola Normale di Pisa (dove si laureò nel 1928) si era formato, sotto la guida di Attilio Momigliano, ricordato spesso come il maestro di quegli anni, sui classici della nostra letteratura[1]. Ma non fu mai un letterato. Conosce bene il suo Dante, il suo Foscolo, il suo Leopardi, il suo Manzoni, e ne trae spesso ispirazione e citazioni illuminanti. Ma quando cerca di stringere da presso le loro idee sulla fede, sull’uomo, sul mondo, esprime più dissensi che consensi. Cita di Dante “la fede senza qual ben far non basta”, e subito obietta: “No, basta il ‘ben fare’ [...]; l’intima attiva sincerità è l’organo della salvazione, e l’uomo col ‘ben fare’ si libera nello spirito, entra nell’infinito, nel cielo intimo che guarda la realtà”[2]. Ammira l’uomo foscoliano che “non cede ai vizi, non cede ai tiranni, non cede alle folle scomposte, e si fa statua”. Ma questo è stoicismo, e nello stoicismo, in questo cercar rifugio nella solitudine interiore, c’è qualcosa di triste: “Come guarire una società che entrerebbe in decadenza se i migliori dovessero ritirarsi per potersi salvare?”[3]. Del Manzoni dice che “fu l’amabile e nobile guida che riconduceva in seno alle gioie familiari, a riscoprire la messa, il culto, la festa cattolica, la morale tradizionale, unite all’esercizio della cultura e della letteratura”, e commenta: “…e chi non lo ama e non si commuove per questo?”. Ma subito dopo rileva che avrebbe dovuto avere maggior rigore e “soffrire più vivamente delle situazioni di insufficienza. Bisognava aver capito che cosa c’era in quelle chiese al cui suono di campane si confortava la coscienza travagliata dell’Innominato”[4]. Di tutti il più vicino è Leopardi: in un brano autobiografico dice di essere stato sin dai priori anni kantiano-leopardiano[5]. Lo reputa spirito religioso, più religioso, dice a ragione, di Croce, perché la protesta contro la morte è più religiosa della sua accettazione. Croce è greco-europeo, è teso ai valori che si realizzano nel mondo; Leopardi è aperto, oltre ai valori, alle persone, ai morti[6]. Leopardi esprime la tensione al valore che è sempre al di là dell’avara realtà (“Dalle mie vaghe immagini / so ben ch’ella discorda”)[7]; ha intuito negli splendidi versi in cui rievoca Nerina il senso della “compresenza”[8]; ha intravisto nell’unità degli esseri viventi (“tutti fra sé confederati estima”) un modo di combattere la Natura matrigna[9]. Ma Leopardi è un romantico e i suoi limiti sono i limiti del romanticismo, in cui dolore e morte sono, sì, presenti ma non riscattati, partecipati ma non riabilitati, sofferti ma non risolti.
Rispetto all’educazione filosofica, anche Capitini passò, come tutti i suoi coetanei, attraverso l’idealismo italiano. Accetta la contrapposizione della filosofia moderna alla filosofia antica e medioevale, che è propria dell’idealismo. Dalla consuetudine con le opere dei nostri idealisti, trae una solida convinzione immanentistica contro la vecchia trascendenza di un Dio fuori del mondo, da contemplare, da adorare e da servire; accoglie dallo storicismo l’idea fondamentale che la storia è il regnum hominis, e la realtà, se è storia, è creazione continua dell’uomo; condivide l’interpretazione della filosofia moderna come filosofia del Soggetto, in contrasto con le filosofie oggettivistiche dell’antichità, e intende muovere verso la comprensione e la trasformazione della realtà mettendosi dal punto di vista del Soggetto; infine prende le mosse dall’atto anziché dall’evento o dai fatti, dall’atto inteso gentilianamente come principio e iniziativa assoluti. Si vede bene dalle frequenti citazioni che le opere di Croce furono tra le sue letture predilette: ripete in più luoghi che Croce gli ha ispirato la dottrina dei valori (anche se non è d’accordo sul valore dell’economico o del vitale)[10]. Ma lesse e assimilò anche Gentile, che pur è raramente citato[11].
Eppure non è né idealista né storicista; né crociano né gentiliano. Anzi la sua prima opera, gli Elementi di un’esperienza religiosa, che è del 1937, ove sono già chiaramente delineati i temi principali delle opere successive, è uno dei primi documenti del declino dell’idealismo che ha inizio appunto in quegli anni. (La vita come ricerca di Ugo Spirito è dello stesso anno, La struttura dell’esistenza di Nicola Abbagnano è del 1939). Idealismo, storicismo, soggettivismo, attualismo gli offrono armi critiche per liberarsi dalle filosofie incompatibili con la propria visione del mondo. Ma questa muove verso altra direzione, che non è l’accettazione, bensì il rifiuto della realtà e della storia, non la conciliazione col mondo, bensì la lotta perpetua contro di esso, non la giustificazione per insediarvisi, bensì la continua messa in questione per mutarlo. Quando si avvicinò a Croce, egli confessa, era “da molti anni un libero religioso, implicitamente un kantiano con una prevalente attenzione alla finitezza dell’uomo”[12]. Certo, la posizione immanentistica è superiore a quella delle filosofie della trascendenza; ma l’immanenza che egli ha in mente non esclude ma include la presenza di Dio[13]. Dopo aver eliminato il vecchio dualismo, bisogna, per non allentare la tensione verso l’infinito, “dualizzare l’immanenza”[14]. Lo storicismo ha eliminato la falsa tensione dell’uomo verso una natura esterna e immobile; ma rischia di allentare ogni tensione, e di diventare una filosofia dell’appagamento[15]. Il pensiero romantico, da Fichte a Gentile, ha spostato il centro della filosofia dall’oggetto al soggetto; ma questo soggetto è un io grande, un io con la i maiuscola, pur sempre un io, non la totalità dei soggetti concretamente operanti alla cui collaborazione si deve la creazione dei valori[16]. Infine, per quanto sia importante l’insegnamento di Gentile che ha portato “il Tutto a gravitare sull’atto del Soggetto”, fuori dell’unità con gli altri, con tutti, l’attualismo rischia continuamente, a causa del suo orientamento individualistico, di cadere nelle braccia del misticismo o del solipsismo[17].
Mentre la filosofia italiana è dominata da Hegel, il pensiero di Capitini si volge, sin dai primi anni e con sempre maggior consapevolezza e forza di convinzione col passar del tempo, verso Kant[18]. La filosofia di Hegel rappresenta la celebrazione del sistema chiuso su se stesso. In Kant, invece, c’è il primato della morale, la tensione verso l’ideale che è la vera realtà anche se irraggiungibile (il Sollen che Hegel irrideva)[19], una concezione pura e alta, non mitica, della religione. Con Hegel tutti i conti sono ormai regolati: quello che ha dato ha dato. Il colloquio con Kant, invece, continua ed è sempre istruttivo. A Kant si possono chiedere, se pur con qualche forzatura, persino conferme di posizioni raggiunte da ben altre sponde: in uno dei capitoli più ardui e più arditi dell’ultima opera filosofica, Capitini vuol mostrare che in Kant v’è un’anticipazione della teoria dell’“aggiunta”. Per concludere: “Malgrado tanto hegelismo nell’aria, e nel nostro sangue, nelle strutture e nella storia d’oggi, noi ci collochiamo in una situazione che è più simile a quella di Kant”[20]. Hegel ha interpretato la realtà attraverso la legge della dialettica, cioè dello svolgimento attraverso contrasti, della nascita che prende il posto della morte in un processo senza fine e senza direzione. Ma per chi voglia non già contemplare la realtà ma trasformarla, occorre altra legge, che è quella dell’incremento per aggiunta: è la differenza tra la semplice presenza e la “compresenza”. Non diremo più che “la realtà liberata verrà necessariamente dopo che il Male si sia sfrenato e sfogato come in un regno dell’Anticristo; ma che la realtà liberata si aggiungerà dal di dentro”[21].
Capitini dunque è passato attraverso l’idealismo ma non vi si è fermato. Già nella prima opera affiorano, se mai, motivi esistenzialistici, come quello della “coscienza appassionata della finitezza”[22], da cui egli fa scaturire la prima fonte dell’esperienza religiosa. Un tema capitiniano, come quello della finitezza, non può non far volgere lo sguardo verso il primo esistenzialismo, di cui si comincia a parlare proprio in quegli anni in Italia. Ma un influsso diretto è fuor di questione: l’unico autore, citato negli Elementi, che si possa far rientrare nella schiera esistenzialistica, e Berdiaeff[23]. Più che di un incontro, si tratta di una convergenza, di una consonanza, di una comune percezione e interpretazione della grande crisi spirituale e sociale che investe l’Europa. Solo qualche anno più tardi, quando ormai l’esistenzialismo è dilagato e non si può non accorgersene, Capitini cercherà di fissare alcuni caratteri peculiari della propria posizione rispetto a quella di Kierkegaard[24]. Ma non bisogna trascurare una fonte rimasta per lo più segreta di un filone genuino di esistenzialismo italiano, Carlo Michelstaedter, che egli cita per la di lui esperienza esemplare sin dalle prime pagine degli Elementi[25], e dal quale trae una delle espressioni più pregnanti del suo personalissimo linguaggio filosofico-religioso (“persuasione”)[26].
Sarebbe del resto fuor di luogo cercare di capire Capitini attraverso la filosofia (tanto meno attraverso la letteratura). Capitini non è e non vuole essere un filosofo. Egli si serve della filosofia ma non tende alla filosofia. E non comincia neppure dalla filosofia:...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. La filosofia di Aldo Capitini
  3. Religione e politica in Aldo Capitini