Colonia Cecilia. Una comune di giovani anarchici italiani nel Brasile di fine Ottocento
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Colonia Cecilia. Una comune di giovani anarchici italiani nel Brasile di fine Ottocento

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Colonia Cecilia. Una comune di giovani anarchici italiani nel Brasile di fine Ottocento

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Alla fine dell'Ottocento un gruppo di anarchici italiani fondò una comune nello Stato del Paranà, una vicenda con cui hanno dovuto confrontarsi generazioni di utopisti, fino al '68 e oltre. In questo romanzo – da troppo tempo dimenticato e oggi accompagnato da una partecipe prefazione di Alice Rohrwacher – lo scrittore e giornalista brasiliano Afonso Schmidt ha restituito lo spirito di un'esperienza esemplare.

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Informazioni

IX

Nella Colonia Cecilia non esistevano né domeniche, né altri giorni festivi. Ogni giorno era, indifferentemente, giorno di lavoro o giorno di festa. Cioè, chi voleva lavorare, lavorava, e chi no, restava in casa o se ne andava a passeggiare. Si contava – forse un po’ troppo – sulla forza di coazione della necessità. Ci fu un sabato però in cui le zappe e gli altri arnesi di lavoro non furono neppure mossi dal loro ripostiglio e la piantagione rimase a dormire, perché la popolazione aveva in quel giorno ben altri problemi dinanzi a sé.
Trattandosi di istituzione sperimentale, tutto quanto avesse nella colonia quest’aspetto, veniva documentato, studiato, facendosene in seguito una specie di resoconto o rapporto che era inviato a organizzazioni socialiste e a compagni di tutto il mondo. Perciò il caso sentimentale sorto, uno dei primi e forse l’ultimo di carattere sperimentale della colonia, dette origine a un’importante riunione, una specie di assise nella quale i personaggi erano chiamati a deporre circa le proprie attitudini, i propri sentimenti e le proprie convinzioni.
La riunione ebbe luogo nel cosiddetto “Accampamento della Fratellanza”. Questo baraccone modesto, ma costruito con la cura ch’era espressione d’entusiasmo dei primi arrivati, era stato utilizzato poche volte sino allora, agli scopi precipui per i quali era stato immaginato, che erano appunto quelli di creare un locale di riunioni per dibattere problemi d’interesse collettivo. Il baraccone, più che altro, era servito a volte per ospitare compagni giunti di improvviso. Nei momenti buoni della spinta iniziale piena di euforia, per il baraccone erano stati immaginati persino quadri greci che avrebbero dovuto adornarlo e che poi non fu possibile eseguire, poiché per lungo tempo non vi fu che un’unica donna, unica “modello”, piuttosto anziana, attaccatissima al compagno e ai figli, la quale oltre ad aver l’incarico di tesoriera della colonia, era sempre affaccendata ad accudire un po’ tutti. Era la mamma per i compagni più giovani, e un po’ la sorella per tutti. Più tardi, sebbene questa non fosse più l’unica donna, era sopraggiunto lo scoraggiamento fra i pionieri, diversi dei quali levarono le tende per trasferirsi a Curitiba, dove c’era facilità di lavoro discretamente remunerato, con la possibilità di una vita borghese che non incarnava l’ideale, ma che in fin dei conti metteva più a portata di mano la possibilità di vivere. Intanto cresceva il numero di quelli che a Curitiba – tappa obbligatoria del percorso in direzione della colonia – svolgevano opera di sobillazione, denigrando la colonia.
Vi sono dei momenti, però, in cui nessuna forza riesce a impedire la propagazione di un’idea che sia sana alla base. Fatto è che alla campagna demolitrice fece seguito una reazione favorevole, durante la quale giunsero molte altre famiglie. In breve tempo la colonia accolse più di trecento anime. Le abitazioni di legno oltrepassavano ormai il numero di cinquanta. Malgrado gli sforzi sinceri dell’iniziatore perché la vita della comunità si reggesse entro i postulati divulgati a suo tempo dal settimanale “Lo Sperimentale” di Brescia, v’era un comma, quello dell’amore libero, che allo stato pratico poteva definirsi inesistente. È probabile che, come dappertutto nelle più diverse epoche, tutto si riducesse, in fondo, a lievi conquiste, vecchie come il mondo, senza nessun aspetto sociale.
L’accampamento della Fratellanza, pur continuando a esser conosciuto col nome dettato nei bei tempi iniziali dal giocoso entusiasmo dei pionieri, si era trasformato in una qualsiasi abitazione collettiva. Durante il giorno funzionava da “auditorium”, specie di Consiglio, dove era concesso a tutti di riunirsi per discutere i problemi della Colonia, e la notte si trasformava in ampia camerata per i giovani che man mano giungevano, col modesto fardello dei loro panni attaccato alla punta della mazza di legno che portavano sulla spalla.
La riunione di quel sabato fu sensazionale. Il modesto baraccone assunse un aspetto solenne, che contrariava gli ortodossi. Non mancò un segretario, nella persona del giornalista Lorenzini che, abituato a queste cose, si sedette al tavolo dinanzi a enormi fogli di carta, maneggiando agilmente la penna. Impiegò quasi un’ora a preparare la lista dei quesiti, formulando una requisitoria speciale per ognuno dei personaggi coinvolti. Nel frattempo, i presenti formavano gruppetti e chiacchieravano di tutto un po’. C’era nel modesto baraccone un’aria di tribunale speciale, molto speciale, però, e differente dalla tetraggine solita dei consessi che ricevono questa definizione. Nella sala non v’erano giudici per giudicare, e molto meno per condannare. Personaggi e pubblico erano allo stesso livello. Si trattava di esaminare, con carattere scientifico-sperimentale, il caso sentimentale sorto fra elementi della colonia. Non per il caso in sé, ma per le osservazioni che, sotto l’aspetto sociale, esso avrebbe permesso di fare. Quando Lorenzini, il giornalista-segretario, alzò gli occhi, s’accorse che aveva dinanzi a sé un’autentica assemblea. I tre personaggi del dramma erano presenti: Elena chiacchierava in un gruppo di donne; Cardias, seduto all’estremità d’una panca, sembrava pensieroso, e Annibale attendeva, apparentemente estraneo, accoccolato in un angolo in fondo alla sala. Vi era gente dappertutto: nelle panche di fronte al tavolo collocato al centro della sala, sui davanzali delle finestre, e in piedi, pigiata lungo l’unica parete laterale. Altri ancora erano seduti sull’impiantito, con la testa in su come tante lucertole. Una giovane coppia d’innamorati arrampicatasi a una trave del soffitto, con le gambe penzoloni, si manteneva estranea a quanto la circondava e tubava tranquillamente.
Il conte Colombo, in atteggiamento di aspettativa e d’interesse, faceva roteare nervosamente il monocolo, mentre il professore Damiani, sempre assorto nelle sue ricerche, faceva annotazioni in margine alle pagine dell’Eneide. L’ingegner Grillo, gli occhi fissi al pezzo di cielo che riusciva a intravedere dall’angolo in cui era appollaiato, si mordeva le unghie. A un certo momento Lorenzini batté le mani e si fece silenzio.
“Damiani, vuoi assumere tu la segreteria?”
Il professore ebbe l’espressione stralunata di chi è nelle nuvole, ma immediatamente accettò. Ripescata la matita in fondo a una delle sue tasche dove s’era perduta, si avviò al tavolo centrale, dove Lorenzini gli fece posto accanto a sé. Il primo a essere interrogato fu Annibale, che anzitutto chiese fosse registrata questa sua dichiarazione preliminare:
“Rispondo spontaneamente a tutte le domande, osservando però che se l’amore libero fosse generalizzato, molti ‘sì’ dolorosi si trasformerebbero in altrettanti ‘no’”.
Damiani annotò. Poi ebbe inizio l’interrogatorio. A ogni risposta Damiani scarabocchiava affrettatamente...
“Ammetti nella donna la possibilità di amare con sentimento elevato più d’un uomo allo stesso tempo?”
“Sì, ma non in tutte le donne.”
“Riconosci a essa il diritto di procedere così?”
“Sì, l’ho sempre creduto e continuo a crederlo; e se così non fosse, cosa ne sarebbe della libertà e dell’uguaglianza?”
“Credi che la pratica dell’amore libero farebbe soffrire qualcuno dei partecipi?”
“Sì.”
“Quali di essi, di preferenza?”
“Probabilmente tutt’e due. Almeno così credo.”
“Credi che il compagno della donna soffra notando il nuovo affetto di essa per un altro?”
“Sì, senza dubbio, se l’ama per davvero.”
“Credi che egli potrebbe superare il fatto con indifferenza?”
“Credo che ciò sia possibile soltanto nel caso che egli non l’ami, o che non l’ami a sufficienza.”
“Passiamo dunque, compagno, al tuo caso personale. Soffristi quando Elena ti parlò sinceramente?”
“No.”
“Ne rimanesti sorpreso?”
“No. Avevo già espresso in Italia, chiaramente, il mio modo di pensare; ero, quindi, preparato.”
...

Indice dei contenuti

  1. Quarta di copertina
  2. Prefazione di Alice Rohrwacher
  3. A mo’ di prefazione
  4. I
  5. II
  6. III
  7. IV
  8. V
  9. VI
  10. VII
  11. VIII
  12. IX
  13. X
  14. XI
  15. XII
  16. XIII
  17. XIV
  18. XV
  19. XVI
  20. XVII
  21. XVIII
  22. Biografie