Crescere nonostante. Un romanzo di formazione
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a cura di Stefano LaffiSe la maturità forse è sempre stata un mito, è di oggi la piena coscienza che siano in crisi gli adulti, come modello e come traguardo a cui naturalmente tendere: i cambiamenti degli ultimi anni sono stati invero radicali e spesso mortificanti; e il domani è tutto da inventare. Il loro romanzo di formazione, i ragazzi, invece di leggerlo e imitarlo, se lo stanno scrivendo da soli. Crescere nonostante racconta un "romanzo" in cui gli adulti sono invitati a porsi in modo nuovo rispetto ai ragazzi, in ultima analisi rispetto a se stessi. Non si tratta di ricette. Questo non è un manuale, nasce dall'esperienza di lavoro di Codici, cooperativa di ricerca e intervento. È il racconto delle esperienze trasformative che oggi si offrono ai ragazzi o che loro si costruiscono da sé. Descrive occasioni, esempi positivi, strade possibili, opportunità di oggi. I modi in cui essi si inventano i percorsi per organizzare il loro stesso futuro ci insegnano come stia cambiando il mondo e come dovrebbero cambiare gli adulti, chiamati a un nuovo compito: aiutare a crescere una generazione di veri pionieri.Gli autori: Valentina Bugli, Massimo Conte Daniele Brigadoi Cologna, Stefano Laffi, Domenico Letterio Oana Marcu, Andrea Rampini.

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Informazioni

Anno
2015
ISBN
9788863570496

Scuola obbligata | Massimo Conte

Un’introduzione sulle relazioni
Questa è la prima estate in cui Marta, la nostra figlia più piccola, esprime il desiderio che le vacanze durino meno. Lo fa con l’aria decisa di chi sta dicendo qualcosa a cui ha pensato a lungo, a cui ha dedicato del tempo in mezzo alla noia, un po’ inevitabile, di quella parte dell’estate in cui non si è più a scuola, ma non si è neanche realmente in vacanza.
La voglia di tornare a scuola, per lei che frequenta le elementari, è legata al desiderio di rivedere le sue amiche e i suoi amici. Le vacanze estive sono un momento in cui ci si ritrova di più in famiglia, ci si prende nuovamente del tempo per stare insieme. Sono, però, anche il momento in cui non si può più stare con i propri compagni di classe, destinati a seguire le scelte familiari. A lei, insomma, mancano le relazioni.
Questa è anche l’estate che segna il passaggio dalle scuole medie alle scuole superiori di Nina, la nostra figlia più grande. Un passaggio desiderato e rincorso, con il conto alla rovescia per veder svanire, uno alla volta, i giorni che la separavano dal saluto definitivo ai tre anni delle medie. Tre anni difficili, come solo le medie riescono a essere. In quei giorni ci siamo trovati spesso a parlare di questi tre anni. Il suo bilancio è centrato sulle persone che ha incontrato: sui compagni di classe e la loro superficialità, sugli insegnanti incapaci di mantenere anche solo un’aspettativa, sulle commesse incaricate dell’ordine pubblico. Ancora una volta relazioni.
Negli ultimi anni mi sono trovato spesso a fare formazione a insegnanti su temi diversi, uno spettro ampio che è andato dalla valutazione delle competenze di cittadinanza alla gestione del conflitto, dagli alunni con background migratorio alla costruzione delle reti. Penso che non ci sia stato un solo percorso di formazione in cui non sia emersa con forza da parte loro la fatica di gestire il ruolo dal punto di vista relazionale. Messa da parte la denuncia delle condizioni in cui versa la scuola italiana e degli esiti negativi attesi da ogni intervento legislativo, il motivo più ricorrente è stato quello delle relazioni: le relazioni con gli alunni, con i genitori, con i propri colleghi, con il dirigente. Ovviamente, non ci sono solo storie fatte di questo, ce ne sono anche molte che raccontano di incontri fortunati, di maestri illuminati e illuminanti, di scommesse vinte insieme, di aperture inattese al dialogo. Ancora una volta relazioni.
Sono assolutamente convinto che non possa che essere così. La scuola è un sistema sociale denso di relazioni. Bambini e bambine, adolescenti e giovani, adulti, uomini e donne, padri e madri: un’umanità ricca e differenziata si ritrova nelle aule, si incontra in fasi della vita e in ruoli diversi tra loro. Questo incontro produce attrito e conflitto, ma anche bellezza e scoperta.
Da quello che vedo, il maggior pregio e la principale debolezza del sistema scuola stanno entrambi in questa qualità relazionale.

La trasmissione del sapere
Mi è capitato spesso in questi anni, durante gli incontri con docenti ed educatori, di ragionare su quali fossero gli oggetti principali attorno a cui si costruisce il processo formativo. Non ho le competenze né l’intenzione di fare qui una sintesi del pensiero pedagogico, ma offrire solo una base di ragionamento; la mia è, come dire, una ricostruzione strumentale.
Il primo oggetto è rappresentato dalle nozioni, i contenuti informativi rispetto ai quali è in atto un’operazione di trasmissione. L’insegnante, o chi per lui, possiede delle conoscenze, spesso oggettivate in un libro di testo, e il suo compito è quello di garantirne una trasmissione efficace. A lungo questo è stato il compito principale della scuola, e intorno a questo si è costruita la figura di autorità dell’insegnante: colui che possedeva un sapere certo e definito e che aveva, oltre al compito della trasmissione, anche il compito di valutare la coincidenza di quanto appreso con questo sapere. Michel Serres (2013), citando Montaigne, descrive il passaggio da una testa piena, capace di conservare nozioni che altrimenti andrebbero perse, a una testa ben fatta, ovvero una testa capace di organizzare contenuti che sono fuori da sé, oggettivati, appunto, nel mondo. Il principio di autorità si è spostato, dal corpo dell’insegnante quale unica fonte per stabilire un principio di verità, al libro. Il sapere è diventato tale perché cristallizzato in un sistema di testi la cui densità di richiami reciproci, di citazioni incrociate, contribuisce a definire l’attendibilità di ogni testo.
Serres si chiede come dovrebbe cambiare l’insegnamento nel momento in cui il libro è sostituito dalla rete, dall’immediata reperibilità delle informazioni grazie a supporti, quali il telefonino o il tablet, che stanno in una tasca. Si chiede anche come possa cambiare il principio di autorità, che fino a poco più di ieri garantiva che chi parlava ex cathedra lo facesse perché incarnava il sapere certo e definito. L’accesso alla rete produce due effetti importanti. Il primo è che democratizza il rapporto con il sapere, abbassando di un gradino la soglia che separa la persona dall’accesso alle conoscenze. Il secondo è che costringe a relativizzare ulteriormente il rapporto con il sapere, con tutte le ambiguità che ogni relativizzazione rischia di portarsi dietro. Quando uso il termine “ambiguità” voglio dire che internet ci ha costretto a rimettere mano al concetto di attendibilità, e ha spinto a sviluppare un nuovo e diverso spirito critico rispetto alle nozioni che circolano in rete. Questo perché la rete è contemporaneamente il luogo di una serrata revisione peer to peer, il luogo e lo strumento dello smascheramento delle verità ufficiali, ma anche il luogo in cui l’attendibilità è rappresentata dal numero di condivisioni che le notizie raccolgono per questioni che poco hanno a che fare con la verifica delle fonti.
Guardando all’esperienza degli alunni con background migratorio aggiungo una nuova questione. Il passaggio dal libro a internet quale luogo privilegiato di raccolta del sapere a disposizione potrebbe contribuire a mettere in discussione l’etnocentrismo del sapere insegnato nelle nostre scuole. Faccio solo un esempio: l’insegnamento del teorema di Pitagora, legato alla tradizione che vuole la Grecia quale culla di gran parte della nostra tradizione in materia di matematica e geometria. Il giovane studente cinese che volesse approfondire la questione o volesse studiare in cinese per rafforzare le proprie competenze, facendo ricorso alla rete si troverebbe di fronte a un’altra tradizione, quella che riconduce il calcolo dell’ipotenusa di un triangolo rettangolo alla Regola dell’altezza contenuta ne Il libro classico dello gnomone e delle orbite circolari del cielo (Zhou Bi Suan Jing, 周髀算經) risalente alla dinastia Zhou (1046 a.C - 256 a.C). Esempi come questi potrebbero essere moltiplicati all’infinito se dalla matematica e dalla geometria spostassimo la nostra attenzione verso la storia, la geografia, la letteratura. Il mondo che è entrato nelle nostre classi, e che si trova solo parzialmente rappresentato nei nostri testi scolastici e nei nostri programmi, è rappresentato prepotentemente nella rete. Tanto vale prenderne atto.
Dalle domande illegittime a quelle legittime
La moltiplicazione delle fonti del sapere consente di pensare che si possa imparare cercando le risposte anche fuori dalla relazione con il testo come sapere codificato e dalla relazione con il docente come colui che detiene l’accesso al sapere codificato. Soprattutto, consente di cambiare la natura delle domande a cui dare risposta, mettendo in crisi uno dei perni dei modi tradizionali di pensare alla scuola.
Lo scienziato austriaco Heinz von Foerster (1987) chiama domande illegittime quelle di cui si conosce già la risposta giusta, quella a cui deve uniformarsi la risposta dell’alunno interrogato. In larga parte, e con le dovute eccezioni, buona parte del nostro sistema di verifica si basa sulla valutazione del grado di coincidenza tra risposta attesa e risposta ottenuta. Questa valutazione ha, indubbiamente, dei vantaggi immediati. Per esempio, consente di dare un parametro certo di riferimento di valutazione: la formula corretta è lì, è fissata per tutti, vale per tutti. Altrettanto semplicemente indica il compito di apprendimento: se non rispondi correttamente occorre lavorare alla correzione. Tutti questi meccanismi, dice von Foerster, generano macchine banali, ovvero macchine in cui la relazione tra input e output è una relazione fissa, macchine prevedibili quanto sono prevedibili gli input che sono loro forniti. La sfida di von Foerster è quella di “pensare a un sistema educativo che miri a de-banalizzare gli studenti, insegnando loro a fare domande legittime, domande di cui non si conosce la risposta”.
Come conciliare la trasmissione di un sapere codificato con la coricerca delle risposte a domande legittime è la sfida che si trova ad affrontare una scuola che si trova prossima al blocco dei propri processi di pensiero. Uso intenzionalmente l’espressione coricerca perché credo fortemente che il processo di apprendimento non debba essere individuale. Mi spingono a questa considerazione un’esigenza etica e un’esigenza pratica. L’esigenza etica è quella che mi fa vedere l’apprendimento come parte del processo di socializzazione, di costruzione di relazioni e legami densi di significato. L’esigenza pratica è che la coricerca consente di esplorare strade diverse, di incrociare sguardi, di moltiplicare i percorsi per confrontarci sulle possibili convergenze. La combinazione delle due esigenze, per me, rappresenta il terreno su cui costruire l’alleanza formativa: siamo insieme perché costruiamo un sapere collettivo e nel farlo insieme siamo anche più bravi che da soli. Io ci credo, credici anche tu con me.
Le esperienze ottimali
Nostra figlia Nina, quella grande che ha appena fatto l’esame di terza media, ricorda con piacere poche cose dei suoi tre anni di medie: la sua tesina d’esame sul cinema; un lavoro di gruppo sulle soluzioni alternative al conflitto israelo-palestinese; un lavoro sui parchi milanesi; la scrittura collettiva di un racconto.
Se le metto tutte in fila mi rendo conto che hanno delle caratteristiche in comune e che tutte mi parlano delle qualità dell’esperienza di apprendimento. Innanzitutto sono tutte esperienze che riguardano un processo di ricerca: occorreva fare delle domande di ricerca, occorreva cercare i dati necessari, occorreva organizzarli per poter scoprire le chiavi di lettura. Sono tutte esperienze che hanno chiesto a lei e ai suoi compagni di classe un forte protagonismo e che li hanno spinti ad attivarsi e a mettersi in movimento. Ancora, sono tutte esperienze che li hanno spinti a creare qualcosa, a preparare degli oggetti che condensassero il loro percorso di ricerca. Infine, sono tutti percorsi che si sono conclusi con una presentazione alla classe o agli insegnanti, una restituzione pubblica in cui misurare il consenso raccolto sul prodotto, sui suoi contenuti e sul processo complessivo.
Se ci pensiamo bene, in queste esperienze ritroviamo elementi che hanno funzionato anche nella nostra esperienza scolastica e formativa. Elementi che, quando ci sono, generano benessere, ma che, quando mancano, generano malessere.
Sono convinto che molti insegnanti sanno che questi sono gli elementi su cui si gioca la capacità di tenere agganciati al percorso di apprendimento ragazze e ragazzi che hanno il mondo a disposizione, a distanza di pochi gesti perché nelle loro tasche, e che investono se stessi in un percorso non per i contenuti trasmessi, ma per le qualità di quello che succede all’interno del processo di apprendimento.
Sottolineo solo alcune di queste qualità, perché sono quelle che a me paiono le più importanti. La prima è che sono esperienze che rappresentano, ognuna a proprio modo, esperienze ottimali, secondo una versione riveduta e corretta del pensiero di Csikszentmihalyi (1990). Quello che mi interessa sottolineare è che sono esperienze in cui c’è equilibrio tra la sfida da affrontare e le competenze da mettere in campo. Fuori dall’ansia generata da compiti troppo difficili per le competenze che si sente di possedere, e lontano dalla frustrazione di doversi applicare a compiti troppo semplici, in quello spazio in cui ci si sente ingaggiati e concentrati, padroni della situazione e con una diffusa sensazione di benessere. Ed è interessante notare che in molte esperienze che ci siamo raccontati questo equilibrio tra sfide e capacità non sia individuale, ma di gruppo: un equilibrio raggiunto collettivamente.
Ecco, allora, che ci arriva una chiave di lettura interessante per comprendere alcune difficoltà scolastiche, il progressivo disingaggio e disinvestimento da parte dei ragazzi dalla scuola: quando prevalgono noia e ansia, quando l’esperienza ottimale è lontana, perché investire in qualcosa che genera malessere?
Uno dei dati che emerge tutte le volte che analizziamo le carriere scolastiche degli alunni, in particolare degli alunni stranieri, è che il rischio di dispersione scolastica o di abbandono scolastico aumenta all’aumentare degli anni di ritardo. Una parte degli alunni le cui carriere scolastiche sono critiche sono ragazze e ragazzi che, arrivati nel corso dell’anno nel nostro sistema scolastico, sono inseriti in classi non corrispondenti alla propria classe anagrafica. Questa è un’abitudine che, per quanto in contrasto con le indicazioni normative, molte scuole continuano ad adottare. Un’abitudine che parte da una valutazione centrata solo sulle competenze linguistiche ipotizzate in ingresso nella scuola e non dalla valutazione sulle altre competenze in possesso dei ragazzi. Se leggiamo l’inserimento in una classe inferiore di uno, due o tre volte rispetto alla propria classe anagrafica con il criterio dell’esperienza di apprendimento, una cosa balza subito all’occhio. Come nel gioco dell’oca, anche nel percorso scolastico quando qualcosa o qualcuno mi riporta indietro, indipendentemente dalle buone intenzioni con cui lo fa, mi sta ponendo di fronte a un ostacolo, un imprevisto che mi rallenta. Mi fanno tornare indietro e mi espongono al rischio della noia: al rischio, cioè, di dover affrontare esperienze di apprendimento che pongono sfide più basse di quelle per cui mi sento competente e per le quali fino a ieri, in un altro contesto e in un altro ambiente, mi sentivo ed ero riconosciuto competente.
In una scuola in crisi di risorse, economiche e di pensiero, mi pare che il rischio di veder scivolare gli alunni nella noia sia un rischio serio, un rischio che contribuisce a rendere sempre più forte la loro distanza dalle aule e dagli insegnanti. Peraltro, una scuola della noia, soprattutto quando confrontata con altre sfide che pone il crescere, altri livelli di ingaggio e di investimento, rischia di frustrare i ragazzi con più competenze, senza neanche riuscire a portare a casa quelli con più difficoltà.
Torno alle esperienze scolastiche che sono rimaste nella memoria di nostra figlia Nina. Tra gli elementi che hanno in comune c’è il fatto che tutte si sono concluse con una presentazione pubblica dei lavori, che ha rafforzato in lei e nei suoi compagni l’idea di aver fatto un buon lavoro. C’è una forza notevole in questo lavoro da presentare, innanzitutto perché rappresenta un ribaltamento del rapporto con il testo: questo smette di venire prima dell’esperienza di apprendimento, come codificazione del sapere prodotto da altri, e diventa il prodotto di un sapere costruito da me e dai miei compagni. Il libro di testo diventa, allora, strumento di rispecchiamento e di appropriazione dell’esperienza di apprendimento. Da un lato diventa uno strumento riflessivo, consentendomi di ripercorrere il processo di ricerca alla base dell’apprendimento, dall’altro diventa uno strumento di socializzazione e messa in comune di questo processo e dei suoi esiti. Questo è quello che abbiamo fatto insieme e, mostrandovelo, lo condivido con voi perché sia parte di un sapere collettivo.
Aggiungo che questa idea della presentazione pubblica a me fa sempre venire in mente come abbiamo bisogno degli altri per avere un chiaro apprezzamento della nostra autoefficacia (Bandura 2000). La funzione del feedback è determinante: come ogni buon pugile che si rispetti, abbiamo tutti bisogno dell’applauso del pubblico. Non l’applauso di accondiscendenza, ma un applauso che, sostenendo un’immagine di sé forte e competente, non rinunci a sottolineare i successivi compiti evolutivi. Le relazioni sono importanti nel processo di apprendimento perché giocano questo ruolo di rinforzo e di rilancio. Dovrebbero essere come una voce che ci dice: “Fino a qui tutto bene. Pronti per il prossimo passo?”
La valutazione
Lo strumento principale usato dalla scuola per dare un feedback agli alunni sui loro progressi scolastici è rappresentato dai rituali dell’interrogazione e dei compiti in classe. La storia del rapporto tra pedagogia ed esame, tra formazione e messa alla prova, è una storia lunga, ma non scontata. L’esame è legato all’esigenza di certificazione e si è imposto come parte integrante della formazione a partire dai processi di differenziazione all’interno delle società. Una società indifferenziata, o differenziata su elementi ascritti, quali la discendenza, non ha grosse necessità di costruire processi di certificazione dei passaggi di status. Il progresso verso la differenziazione sociale, e verso la stratificazione conseguente, ha spinto sempre più le nostre società verso processi di certificazione, fino al loro trionfo nell’epoca della burocrazia e del trionfo del paradigma dell’ingegneria sociale. Voglio dire, insomma, che dietro ai patemi e ai batticuore per il compito di matematica c’è la cristallizzazione di un processo storico che oggi consideriamo naturale, magari mettendo in discussione il modo in cui farla, molto meno di frequente il senso del farla.
La valutazione è un oggetto complicato da trattare, perché è un oggetto non neutrale: chi, cosa e come valutiamo sono domande profondamente politiche che chiamano in causa il nostro modello di uomo e di donna, di relazioni sociali, di forma della società. Proprio per questa sua delicatezza parlare di valutazione a scuola è difficile e non è esente da rischi.
Non possiamo mai dimenticare che la valutazione è un’operazione pubblica e, in quanto tale, chiama in causa l’immagine che le persone hanno di sé e che vorrebbero vedere riflessa nell’immagine che gli altri hanno di loro. Nelle aule questo vuol dire che il modo con cui guardiamo al lavoro svolto da un’alunna o da un alunno deve essere tale da non generare la sensazione di essere sotto attacco. Ogni qual volta sentiamo che il nostro sé è messo in discussione siamo costretti a difenderlo con una molteplicità di strategie che, ancor prima che dai testi di psicologia e di sociologia, impariamo a riconoscere perché li abbiamo messi in pratica o li abbiamo visti mettere in pratica nella nostra vita quotidiana. C’è chi indossa la maschera del cattivo perché fare paura o essere il cattivo di turno è meglio che essere lo sconfitto di turno: quante volte abbiamo visto ripetere l’abbinamento tra andare male a scuola e comportarsi male a scuola. Se ragionassimo pensando che il primo comportamento sollecita il secondo e non il contrario? Se pensassimo, cioè, che chi si sente messo o si ritrova in fondo alla scala di valore ufficiale ha bisogno di aggrapparsi a un’altra scala di valore che lo possa far primeggiare? “Se non posso essere amato, voglio essere temuto” è un motto che esercita sempre il proprio fascino. C’è anche chi indossa la maschera dello sconfitto, quello che si adegua a u...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Quarta di copertina
  3. Introduzione | Stefano Laffi
  4. Scuola obbligata | Massimo Conte
  5. Scegliere la propria causa | Andrea Rampini
  6. Because I’m black | Valentina Bugli
  7. La reinvenzione dell’adolescenza rom | Oana Marcu
  8. Per una pedagogia dell’avventura Daniele Brigadoi Cologna
  9. L’enigma del lavoro | Domenico Letterio
  10. Perdersi nel futuro | Stefano Laffi