La crisi irachena. Cause ed effetti di una storia che non insegna
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Questa raccolta di interventi e di testimonianze nasce dalla necessità di comprendere e di affrontare l'emergenza che ha travolto l'Iraq nell'estate del 2014. Figurano nel quaderno le riflessioni nate da un rapporto diretto con la storia irachena di questi anni, frutto in particolare di quei gruppi e persone che rispettano e sostengono la popolazione, cercando di tutelarne i diritti e costruendo ponti di solidarietà. Questa crisi riguarda tutto il Medio Oriente, ma riguarda anche noi che diffidiamo delle menzogne degli oppressori e dei violenti, e di quelle dei finti pacificatori. Per prendere posizione e per reagire, è indispensabile un confronto diretto con la realtà.

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Informazioni

Anno
2014
ISBN
9788863571479

Il ritorno del Califfato Islamicosotto la leadership

di Abu Bakr al-Baghdadi di Ludovico Carlino

Per molti militanti jihadisti nel mondo è il leader a lungo atteso capace di rendere realtà il sogno di un Califfato islamico nel cuore del Medio Oriente. Ma chi è al-Baghdadi e come nasce la sua organizzazione?
Quando Abu Bakr al-Baghdadi ha assunto la leadership dello Stato Islamico dell’Iraq (Isi), a maggio del 2010, dopo la morte del predecessore Abu Omar al-Baghdadi nell’aprile dello stesso anno, si credeva che “l’età d’oro” del gruppo di miliziani fosse ormai superata. Dopo l’offensiva militare statunitense del 2007 e l’emergere dei cosiddetti “Consigli del risveglio” – milizie composte da tribù sunnite irachene opposte all’Isi – il gruppo aveva già iniziato a vedere il declino delle proprie fortune, al punto da non essere più considerato una minaccia per il governo iracheno. Quattro anni dopo questo assunto è stato completamente ribaltato, e oggi al-Baghdadi è a capo di migliaia di miliziani che combattono e controllano una vasta area tra Siria e Iraq, come mai nessuna entità jihadista era riuscita a fare. Per quanto ci siano pochi dubbi sul fatto che il conflitto siriano e il ritiro delle forze statunitensi dall’Iraq nel 2011 abbiano facilitato il ritorno dello Stato Islamico, al-Baghdadi è considerato il principale artefice di questo successo. Sebbene la sua decisione di spostare la bandiera del jihad dall’Iraq alla Siria abbia innescato la rottura pubblica tra il suo gruppo e la leadership storica di al-Qaeda, la mossa non ne ha sminuito l’ascesa.
Chi è Abu Bakr al-Baghdadi?
Secondo l’anti-terrorismo iracheno, al-Baghdadi ha sempre mantenuto un alto livello di riservatezza, limitandosi a contatti con pochi membri della sua organizzazione e coprendosi il volto durante gli incontri del gruppo. Probabilmente per questo motivo le informazioni su di lui sono rimaste poche e misteriose fino al luglio del 2013, quando un utente anonimo ha postato sul forum online jihadista Ansar al-Mujahiddin una sua dettagliata biografia. Che comincia con il nome completo dello sheikh, Abu Dua Ibrahim bin Awad bin Ibrahim al-Badri al-Radawi al-Husseini al-Samarra, e con il suo nome di battaglia, Abu Bakr al-Baghdadi al-Quraishi al-Husseini. Come suggerisce la nisba (aggettivo che nei nomi arabi indica l’affiliazione tribale o il luogo d’origine), Abu Bakr è nato a Samarra nel 1971, è un discendente della tribù degli al-Asharaf al-Badriyin, e viene affermata anche una linea di ascendenza diretta con la tribù del Profeta Muhammad, i Quraishi. Sarebbe sposato e avrebbe una solida istruzione in studi religiosi. Il biografo afferma che sia stato un insegnante molto conosciuto e un predicatore noto, laureato all’Università Islamica di Baghdad. Avrebbe anche acquisito una certa preminenza come teologo a Diyala e a Samarra, dove sarebbe stato attivo nella moschea Imam Ahmed ibn Hanbal. La biografia mostra anche la sua esperienza militare, fornendo dettagli sulla sua carriera nei mujahiddin. Probabilmente negli anni successivi all’invasione statunitense dell’Iraq avrebbe creato il proprio gruppo, conosciuto come Jama‘at Jeish Ahl al-Sunnah wa al-Jama‘ah, attivo nelle province di Diyala, Samarra e Baghdad. In seguito Abu Bakr sarebbe stato nominato capo del Comitato per la Sharia della Jama‘at, e il gruppo si sarebbe unito alla Majlis Shura al-Mujahiddin, una delle formazioni insorgenti che nel 2006 diedero vita all’Isi. L’ascesa di Abu Bakr nei suoi ranghi fu consolidata nel corso dello stesso anno, quando venne nominato supervisore generale dei Comitati per la Sharia delle province irachene, una posizione che lo portò a lavorare a stretto contatto con l’ex leader di Isi, Abu Omar al-Baghdadi. La sua esperienza nei mujahiddin, le solide relazioni stabilite con importanti tribù irachene e la sua preparazione religiosa lo resero il naturale successore di Abu Omar.
Il ritorno dell’Isi e il ruolo di al-Baghdadi nel conflitto siriano
Sotto la guida di al-Baghdadi, l’Isi è riuscito gradualmente a espandere la propria campagna militare sia in Iraq che in Siria a partire dalla fine del 2011. In Iraq il gruppo ha rapidamente cambiato le proprie tattiche, spostandosi dagli attacchi sporadici dell’era di Abu Omar ad assalti complessi e operazioni su larga scala che avevano come bersaglio prigioni, postazioni di sicurezza, edifici militari e governativi. Un cambiamento in linea con le priorità strategiche delineate da al-Baghdadi a luglio del 2012, quando annunciò l’inizio di una nuova fase nella lotta del gruppo con un piano chiamato “demolire i muri”, orientato a ricostituire la forza combattente dell’Isi liberandone i membri rinchiusi nelle prigioni irachene. Quell’operazione, durata un anno, e che le forze di sicurezza irachene non sono state capaci di contenere, ha consentito all’Isi di riorganizzare i propri ranghi ed espandere la sua presenza nell’area. Fatto ancora più importante, la campagna ha garantito all’Isi un afflusso cruciale di nuovi combattenti. Sono nove le evasioni che è riuscito a portare a termine, liberando dalle prigioni di Abu Ghraib e Taji cinquecento detenuti solo nell’ultima operazione effettuata. Mentre il gruppo consolidava il suo potere in Iraq, al-Baghdadi gettava le basi per la propria grandiosa visione di un Califfato esteso anche alla Siria, grazie all’eliminazione del confine stabilito con l’accordo Sykes-Picot nel 1916. Nell’estate del 2011 ha inviato in Siria uno dei suoi subordinati, Abu Muhammad al-Jawlani, con il compito di stabilire lì un’organizzazione jihadista composta da non-iracheni. Il gruppo, chiamato Jabhat al-Nusra, è diventato noto a gennaio del 2012 ed è rapidamente balzato alle cronache fino a diventare la punta di diamante dell’opposizione armata siriana contro l’esercito del presidente Asad. Secondo fonti islamiste a quel tempo al-Baghdadi era ancora comandante generale di Jabhat al-Nusra, prima che iniziassero a emergere attriti fra lui e al-Jawlani su questioni relative alle priorità strategiche. Quando, nel 2013, al-Baghdadi annuncia che l’Isi si è unito a Jabhat al-Nusra in una nuova entità, lo Stato Islamico di Iraq e Siria (Isis o Isil, oggi solo Is, ndr), al-Jawlani rifiuta questa fusione, dichiarando di riconoscere il sostegno finanziario e logistico di al-Baghdadi al suo gruppo, ma rivendicandone l’autonomia. Le relazioni tra le due formazioni si sono rapidamente deteriorate dopo l’ingresso dell’Isi nel conflitto siriano, fatto che ha spinto l’emiro di al-Qaeda, Ayaman al-Zawahiri, a ordinare ad al-Baghdadi di sciogliere il suo gruppo e limitare le proprie operazioni all’Iraq. Un ordine disatteso da quest’ultimo, che ha rivendicato il diritto di operare tanto in Siria quanto in Iraq. Nel contesto siriano, il disaccordo si è materializzato in una serie di infruttuosi tentativi di mediare la disputa e in mesi di combattimenti intestini che hanno lasciato sul campo circa 4mila miliziani morti. A livello ideologico, il disaccordo ha compromesso le relazioni tra al-Zawahiri e al-Baghdadi, al punto che a febbraio di quest’anno il leader di al-Qaeda ha disconosciuto le azioni dell’Is dichiarando che “non è parte dell’organizzazione del jihad qaedista”.
La vittoria di al-Baghdadi
Sebbene la decisione di Abu Bakr abbia gettato i semi di una “guerra civile jihadista” in Siria e abbia spinto preminenti ideologi ad accusarlo apertamente di aver diviso la Ummah, la scelta strategica di combattere su due fronti si è rivelata decisiva per le attuali fortune dell’Is. Negli ultimi due anni la Siria si è rivelata un inestimabile corridoio strategico per spostare liberamente armi e miliziani attraverso l’ormai estinto confine siro-iracheno, e un solido santuario da dove programmare e condurre attacchi in entrambi i paesi. La dinamica ha di fatto consentito all’Is di raggiungere alcuni dei suoi obiettivi strategici, e oggi il suo impero si estende su vaste aree della Siria orientale e dell’Iraq occidentale. Secondo alcune fonti sarebbero almeno 20mila gli effettivi su cui l’organizzazione può contare, di cui oltre la metà cittadini non arabi: tra i 2 e i 3mila proverrebbero dall’Occidente (Belgio, Regno Unito, Francia, Germania, Spagna, e circa quaranta dall’Italia).
Per molti simpatizzanti e militanti nel mondo, al-Baghdadi è l’artefice dei successi jihadisti in Siria e in Iraq, il leader a lungo atteso capace di rendere realtà il sogno di un Califfato islamico nel cuore del Medio Oriente. Nonostante l’annuncio della nuova coalizione a guida statunitense stimi in tre anni il tempo necessario a sconfiggere l’Is, formulare ipotesi credibili sembra alquanto improbabile. Certamente quanto più si rafforzerà l’organizzazione, tanto più sarà complesso districare la crisi siriana, di cui l’Iraq è oggi un fattore chiave.
Le risorse economiche del Califfato | Clara Capelli
Quella dello Stato Islamico oggi è un’economia di guerra, in cui la priorità è recuperare risorse per le operazioni militari. Ma un’analisi approfondita dovrebbe prendere in esame la sua strategia di stabilizzazione di lungo periodo.
Fiumi d’inchiostro sono stati versati per parlare dell’avanzata dello Stato Islamico, delle sue conquiste militari e delle atrocità che i suoi uomini stanno commettendo. Molto si racconta anche dell’ordine che l’organizzazione sta imponendo nei territori sotto il suo controllo e delle cifre da capogiro che riceverebbe dai suoi sponsor nel Golfo e dalla vendita delle risorse petrolifere. Tuttavia, benché la ricerca sul campo sia pressoché impossibile da condurre al momento, un’analisi delle fonti a disposizione offre un quadro assai più problematico della situazione attuale. La sostenibilità economica del Califfato è una delle questioni più controverse, dal momento che gli uomini di al-Baghdadi sono impegnati in una fase di espansione e consolidamento della propria presenza nella regione: la priorità è reperire denaro che finanzi le operazioni militari e serva a pagare i combattenti. L’Is è stato da molti definito “il gruppo terroristico più ricco di sempre”, un’affermazione d’impatto ma di difficile verifica, poiché non si possono avanzare che ipotesi sui flussi di denaro che l’organizzazione controlla. Le informazioni di cui attualmente si dispone sono poche e frammentarie, e ricostruire il mosaico delle attività dell’Is e della sua strategia economica è un’impresa complessa.
Il Califfato non è una presenza uniforme nella regione e, data la sua posizione internazionale come “soggetto criminale”, si trova stretto tra mercato nero e traffici illegali. Ciò rende ovviamente complesso quantificare le sue entrate. Per quanto riguarda i finanziamenti, l’Is gode innanzitutto di un generoso supporto economico da parte di sostenitori e simpatizzanti di tutto il mondo, non solo dai paesi del Golfo ma anche dall’Asia sudorientale (Indonesia e Malesia in primis). Privati e associazioni caritatevoli starebbero inviando centinaia di milioni di dollari agli uomini di al-Baghdadi. Molti di questi trasferimenti avverrebbero in contanti seguendo canali informali che sfruttano una rete di intermediari e corrieri articolata su vincoli di fiducia (il cosiddetto sistema della hawala), spostando i liquidi all’interno della regione. Campagne di raccolta fondi sono state promosse sui social network, con tanto di consigli per aggirare le misure di controterrorismo e indicazioni per effettuare versamenti tramite account cellulari e applicazioni per smartphone come WhatsApp. I sauditi sono ritenuti fra i più generosi sponsor del Califfato. Il governo di Riyadh ha inserito l’Is nella sua lista delle organizzazioni terroristiche nel marzo scorso, ma gli analisti sono concordi nel riconoscere che poco si sta facendo per bloccare queste donazioni. I controlli infatti riguarderebbero in modo quasi esclusivo il sistema finanziario ufficiale e sarebbero facilmente aggirati dirottando i trasferimenti verso il Kuwait, dove il monitoraggio è molto meno capillare e rigoroso. Oltre a queste donazioni, l’Is sta ricorrendo anche ad attività criminali, dal contrabbando di oggetti d’arte al rapimento di stranieri da rilasciare dietro riscatto. Dal punto di vista delle attività produttive, invece, il petrolio rappresenta la sua risorsa chiave, benché la maggior parte delle riserve della regione sia localizzata nel Kurdistan iracheno e nelle province meridionali dell’Iraq. Secondo l’Iraq Energy Institute, i giacimenti sotto controllo dell’Is in Iraq e Siria potrebbero fruttare fino a tre milioni di dollari al giorno.
Tuttavia, i problemi non mancano. Innanzitutto il Califfato deve passare per il mercato nero, affidandosi a intermediari che comprano sottocosto – tra i 25 e i 60 dollari al barile contro un prezzo ufficiale internazionale di 100 dollari – per vendere a Giordania, Libano, Turchia, ma anche alla Siria di Asad e all’Iraq meridionale. Inoltre, numerosi sono gli ostacoli di ordine tecnico: la produzione di petrolio sarebbe infatti precipitata, sia per la situazione di diffusa instabilità, sia per la carenza di competenze tecniche che possano garantire il funzionamento delle infrastrutture. Il Califfato non dispone di un adeguato sistema per la raffinazione, ed è costretto a vendere soprattutto greggio per poi ricomprare petrolio raffinato. Una questione da non sottovalutare per comprendere quanto e in che modo l’Is saprà garantirsi sostenibilità nel lungo periodo. Infine, non bisogna dimenticare che lo Stato Islamico dispone anche di altre importanti risorse, estendendosi nell’area della cosiddetta “Mezzaluna fertile”: controllerebbe circa la metà della produzione di grano della regione, che poi rivenderebbe alle popolazioni residenti nei suoi territori e alle province dall’Iraq meridionale. Con la presa di alcune dighe in Siria e Iraq, l’Is ha messo le mani sulle risorse idriche dell’area, assicurandosi la gestione dell’energia idroelettrica che poi fornirebbe anche ai suoi rivali.
Sulla carta lo Stato Islamico risulta avere un potenziale enorme, una forza economica impressionante e autosufficiente dal punto di vista alimentare ed energetico. Eppure alcune riflessioni sono doverose. Il denaro che l’Is raccoglie non solo è difficilmente stimabile in termini di ordine di grandezza, ma poggia anche su basi estremamente volatili, dipendendo largamente da interessi del Golfo e dagli intermediari del mercato nero. Ciò rientra nella logica di un’economia di guerra in cui la priorità è fare cassa, ma in un’eventuale fase di medio-lungo periodo ci si chiede se e in che modo l’Is saprà evolversi intorno al tessuto economico dei territori conquistati, dove vivono circa otto milioni di persone cui si dovranno garantire adeguate condizioni di vita.
Molto si è discusso sulla disciplina e l’ordine dello Stato Islamico e sul suo efficiente sistema di tassazione, ma anche in questo caso sembra che gli obiettivi principali siano il finanziamento degli uomini del Califfato e l’organizzazione di iniziative caritatevoli e lezioni coraniche per attirare consenso nella regione. Rastrellare denaro in ogni modo, questa è la strategia attuale dell’Is. Se si riflette su uno scenario di questo genere, occorre tenere presente che al di là delle cifre che circolano sui mezzi di informazione, il Califfato difficilmente potrà diventare uno Stato vero e proprio basandosi sulle donazioni dall’estero, il contrabbando di petrolio e l’imposizione di balzelli sulla popolazione. Il “mostro” di cui tanto si parla ha dei punti deboli, e riconoscerli è determinante per affrontarlo e interrogarsi sulle sue possibili trasformazioni future. Che dipenderanno non solo dalla sua capacità di espandersi e dalla volontà dei suoi sponsor di continuare a finanziarlo; ma anche dalle attività economiche su cui deciderà di puntare per l’occupazione della popolazione, su quale posizione adotterà rispetto all’economia globale, e quali saranno i protagonisti di quella interna, a cominciare dai potenziali investitori.

Il ruolo dei curdi nel caos iracheno

di Jasim Tawfik Mustafa

Dopo anni in cui la questione curda è stata ignorata, oggi la comunità internazionale vi dedica un’attenzione fuori dal comune. Tuttavia è solo con il Kurdistan iracheno, a cui si offrono aiuti militari, che si intende dialogare. E sul quale è necessaria un’adeguata riflessione politica.
Dopo le dichiarazioni dei paesi Nato, dell’Unione Europea e di alcuni dei rispettivi parlamenti riuniti in sedute straordinarie “per aiutare i curdi e salvare le minoranze con armi e munizioni e per fermare l’avanzata jihadista”, da metà agosto raid Usa colpiscono le postazioni dell’Is sul confine con il Kurdistan e a Baghdad. Per la prima volta un Segretario generale dell’Onu ha visitato il Kurdistan. Quasi tutti i paesi dell’area occidentale, compresi Giappone e Australia, si dichiarano pronti a fornire aiuti umanitari ai civili in fuga e sostegno militare ai curdi. Tutti questi episodi rappresentano un grande riconoscimento politico-diplomatico, oltre che morale.
Dalla fine della Prima guerra mondiale – dal Trattato di Sèvres del 1920, passando per la scoperta del petrolio nei territori curdi e per un altro trattato, quello di Losanna (1923) – il sogno di uno Stato curdo è passato dall’essere un’idea concreta a una mera delusione. Il Kurdistan è stato smembrato da frontiere artificiali e l’unità linguistica, politica, culturale e socio-economica della popolazione, divisa tra Turchia, Siria, Iraq e Iran, è stata disintegrata. Da allora sono scoppiate rivolte, ribellioni e vere rivoluzioni senza un disegno comune o coordinamento fra le diverse dirigenze curde, per questo brutalmente soffocate. Di fronte allo sterminio della popolazione curda in passato l’opinione pubblica e le istituzioni internazionali sono sempre state impassibili. Solo alcuni momenti tragici hanno fatto notizia, come il massacro di Halabja nel marzo 1988, la rivolta dei curdo-iracheni nella guerra del Golfo del 1991, oppure in occasione di eventi clamorosi come il sequestro di cittadini europei da parte della guerriglia curda o l’arrivo di Abdullah Ocalan nel 1998 in Italia. Oggi, per contro, di fronte alle sfide dello Stato Islamico, la stampa e la politica internazionale si concentrano sui curdi e una parte di loro viene riconosciuta come interlocutore “privilegiato” nella guerra contro il terrorismo, senza che siano sollevati interrogativi su chi effettivamente si sta sostenendo. Chi è dunque questa parte “privilegiata”?
Stiamo parlando dei curdi del Kurdistan iracheno, gli unici ad aver sviluppato negli anni sempre più potere fino a ottenere ufficialmente lo status di “semi-autonomia”. Un risultato raggiunto in un contesto caratterizzato da tre elementi fondamentali: la fragilità dello Stato centrale, la presenza di risorse economiche, e le opportunità di alleanze con l’esterno. Già durante la guerra per la liberazione del Kuwait i curdo-iracheni, supportati dalla coalizione internazionale guidata dagli Stati Uniti, ebbero un ruolo importante nell’indebolire le truppe di Baghdad cacciandole dai loro territori. Ma proprio mentre il governo centrale oscillava, gli Usa preferirono garantire la sopravvivenza di Saddam Hussein anziché mettere in discussione i confini dell’Iraq, temendo la presenza di un nuovo governo filo-iraniano a Baghdad. Così, indirettamente, hanno contributo a sostenere il regime nel soffocare le rivolte sciite al centro e al sud del paese e quella dei curdi al nord. Nel maggio 1992 i curdi, guidati dai due grandi partiti da sempre dominanti – il Partito Democratico del Kurdistan di Masud Barzani (Pdk) e l’Unione Patriottica del Kurdistan di Jalal Talabani (Upk) – votarono per l’istituzione di un Parlamento regionale. Da allora la politica, l’economia e molti altri aspetti della società curdo-irachena sono stati profondamente influenzati da questi due partiti.
Si può affermare che la regione fosse fisicamente divisa in due: due amministrazioni, due sistemi politici, due forze distinte di polizia, sicurezza e intelligence, dominate rispettivamente dal Pdk a Erbil e dall’Upk a Sulaymania, che si consideravano per auto-proclamazione “Governo Regionale del Kurdistan” (Krg). Questa situazione portò, nel maggio 1994, a una guerra interna che durò fino al 1998 e nella quale entrambe le parti commisero gravi violazioni dei diritti umani. Un conflitto che si aggravò il 31 agosto 1996 quando il Pdk, con l’appoggio delle truppe di Saddam, occupò Erbil e cacciò i miliziani dell’Upk. Solo nel 1998, sotto la pressione degli Usa, i due partiti raggiunsero una tregua. Dopo la caduta di Saddam, con la nuova Costituzione del 2004, si ottiene un primo risultato: viene sancito il principio del federalismo e con esso il riconoscimento delle istituzioni curde. Talabani diventa presidente della Repubblica, Barzani presidente regionale del Kurdistan, e i curdi assumono un ruolo primario nella vita politica del “nuovo Iraq”. Nel giugno del 2005 i due “governi” di Erbil e Sulaymania si uniscono formalmente.
Tuttavia la governance del Kurdistan non è cambiata: si può affermare con rammarico che non esiste un sistema di separazione dei poteri, piuttosto due clan che si stanno impossessando di tutte le risorse. Le elezioni non sono immuni da brogli e falsificazioni. Il potere di Pdk e Upk ha pervaso tutti gli ambiti sociali: la nomina di giudici, ministri, capi delle forze armate, docenti universitari, presidi delle facoltà e delle scuole di ogni ordine e grado è nelle loro mani. Enormi risorse del paese vengono letteralmente rubate per favorire le casse dei due partiti. A oggi non è noto a quanto ammonti e come venga speso il ricavato della vendita di petrolio, estratto su larga scala in Kurdistan dal 2003. Tutte le società petrolifere, di commercio, della telefonia, dell’edilizia e le grandi e medie imprese sono sotto controllo dei due partiti e dei loro dirigenti, spesso appartenenti alle grandi famiglie di Barzani e Talabani. Non esiste alcun mezzo di informazione, ong o associazione che sia risparmiata dall’ombra della politica. Ognuno dei 110 membri del Parlamento ha diritto a quattro guardie private e al pensionamento dopo pochi mesi di servizio con 6mila dollari al mese in un paese in cui un impiegato pubblico ne guadagna trecento. Inoltre il presidente del Parlamento e i ministri hanno diritto di nominare un numero indefinito di “consiglieri”, anch’essi privilegiati da “pensioni d’oro”, di cui godono, a oggi, anche migliaia di giornalisti vicini ai due partiti. Una situazione che, con il passare del tempo, ha fatto crescere il malcontento popolare, al punto che i due partiti sono arrivati a siglare un accordo strategico per spartirsi il potere noto come “patto d’Acciaio”, i cui dettagli sono stati resi noti nel 2010. Un atto di trasparenza che tuttavia non ha impedito la continua promulgazione di leggi limitative delle libertà dei cittadini.
È nell’ambito delle elezioni del luglio 2009 che, per la prima volta, si presenta sulla scena politica curda il movimento laico e liberale Gorran (“il Cambiamento”) che, nonostante i brogli e le proteste diffuse, ottiene il 25% dei consensi. In quattro anni il fronte dell’opposizione, con Gorran e le due formazioni islamiste minoritarie, ha portato avanti dure battag...

Indice dei contenuti

  1. La crisi irachena.
  2. Quarta di copertina
  3. Prefazione
  4. Introduzione
  5. ANALISI
  6. Perché la crisi irachena riguarda tutto l'Occidente
  7. Il ritorno del Califfato Islamicosotto la leadership
  8. Il ruolo dei curdi nel caos iracheno
  9. Il sistema politico post-2003 e il potere “settario”
  10. L’ALTRO IRAQ
  11. Lo Stato fallito e la società civile inascoltata
  12. Persecuzioni, fughe e violenza: una catastrofe umanitaria
  13. Voci dall’altro Iraq... che resiste
  14. RISPOSTE DI GUERRA
  15. Armare la crisi
  16. Il ritorno degli Usa: un nuovo progetto a lungo termine?
  17. Cronologia essenziale
  18. Il progetto
  19. Gli autori
  20. Crediti