Padroni della nostra vita. Essere autentici per realizzare i nostri desideri
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Padroni siamo noi della nostra vita, o padroni sono le figure (partner, datori di lavoro, familiari) che nella nostra vita entrano e a cui permettiamo di avere un'influenza così grande da determinarla?Perché si finisce in azienda, e perché (più in generale) entriamo in relazioni di dipendenza? Qual è il nostro copione di vita, la decisione che da piccoli ad un certo punto abbiamo preso su come la nostra vita sarebbe andata? E come questa decisione ci ha portato dove siamo adesso, ad essere dipendenti da un'azienda, da un partner o da una madre?Per stare bene sul lavoro e nella vita c'è bisogno di una madre che accoglie, e di un padre che dà al figlio il permesso di andare.E se l'azienda è madre onnipresente, con tutti i meccanismi patologici che si instaurano nella dipendenza, allora per tutti quelli che lavorano in azienda o che vivono relazioni di dipendenza, ci sarà bisogno di un padre: il padre necessario che dà al figlio il permesso interiore di sentire i suoi desideri, la sua creatività, oltre il processo, così caratterizzante il mondo delle aziende, che imbriglia e che costituisce l'essenza prima di una disumanizzazione che è di ostacolo allo slancio vitale che scorre in ognuno di noi.

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Informazioni

Punti di Vista
Gaetano Cotena


Padroni della nostra vita
Essere autentici per realizzare i nostri desideri








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Indice

Premessa
Introduzione
Perché si sceglie l’azienda madre?
I sogni che anticipano il cambiamento
Le voci che scelgono dentro di noi
Una decisione antica: il nostro copione personale
Azienda tra libertà e adattamento. Dove mi trovo?
La rabbia sana del dipendente
Nella gabbia dei processi. Dov’è l’individualità?
Qual è la tua storia?
Il nostro potere più grande
Simbiosi e uomo d’azienda. Dov’è il vero sé?
“Mamma, sono come tu mi vuoi”: il narcisismo in azienda
“Sei più bravo se fai tardi”. I messaggi doppi dell’azienda madre
Licenziamenti. Ma la vita scorre forte ancora
Dipendenti. Da chi?
Quando diciamo sempre sì. La compiacenza
Il prezzo della compiacenza: la paranoia

La scelta oltre la crisi
L’azienda e il grande ricatto
Aspettando il venerdì. Perché cambiare azienda non basta?
Storie di chi sceglie. Restiamo svegli!
Mai tardi
Il permesso di sentirsi infelici
Dov’è il me bambino?
L’importanza di continuare a giocare
Il nostro contributo evolutivo personale
Il ruolo del padre necessario
Una dimensione futura percorribile
La presenza di uno psicologo di formazione clinica
Un tempo e uno spazio per l’ascolto di sé
Un bambino interno a cui dare credito
Umanesimo in azienda
Il ruolo sociale dell’azienda
Un caso clinico – La signora F.
Riflessioni personali sulla vita
Bibliografia

Premessa


Al mio padre necessario

Per stare bene sul lavoro e nella vita c’è bisogno di una madre e di un padre. Di una madre che accoglie e di un padre che dà al figlio il permesso di andare. C’è quindi bisogno che quel bambino che diventa adulto porti con sé l’affettività e il senso di protezione ricevuto dalla madre, ma intesi come forza e sicurezza per andare nel mondo e non, come spesso accade, come un ostacolo al diventare individuo adulto e separato, con una sua individualità e un suo sentire, con i suoi desideri e la sua evoluzione da realizzare.
Quando la madre tiene il figlio a sé, è il padre a concedere su un piano psicologico il permesso di andare nel mondo e di crescere sperimentando.
E se l’azienda è madre onnipresente, con tutti i meccanismi patologici che si instaurano nella dipendenza, allora per tutti quelli che lavorano in azienda o che vivono relazioni di dipendenza ci sarà bisogno di un padre: il padre necessario che dà al figlio il permesso di sentire i suoi desideri, la sua creatività oltre il processo, che caratterizzante sempre più il mondo delle aziende e che costituisce l’essenza prima di una disumanizzazione che è di ostacolo allo slancio vitale che scorre in ognuno di noi.
Chi è questa madre onnipresente (nella vita e nel lavoro) e chi è il padre necessario?
Lo vedremo insieme in queste pagine, dove ognuno potrà ritrovare tracce, pezzi, parentesi della sua storia, oppure potrà non ritrovarsi in niente e scoprirsi felice. A patto, però, di non lamentarsi più in ascensore che è ancora lunedì.
Queste pagine si rivolgono al lettore dagli interessi trasversali, al dipendente d’azienda, agli investitori e agli psicologi; ma anche a chiunque senta di aver lasciato, da qualche parte o in qualche tempo della sua vita, la parte più autentica di sé.
Ad ognuno cercherà di rivolgersi con un linguaggio simile, ma toccando argomentazioni e punti di vista diversi, avendo la pretesa forse poco umile di vedere nel cambiamento personale e globale auspicato una cooperazione di tutti e tre i ruoli coinvolti (dipendenti, investitori, psicologi), ognuno con una responsabilità diversa e ben precisa:
- il dipendente, potrà in queste pagine fermarsi a riflettere e a scindersi per un attimo (usando un paradosso) dall’immagine di sé che corre per guardarla dall’esterno, sentirla (meglio direi) dal lato del Sé reale affinchè la crisi che si abbatte fuori di noi, non faccia perdere di vista alla persona il valore più grande: l’autenticità dei propri sentimenti e delle proprie emozioni.
- L’investitore, dovrà invece sentire la sua umanità.
- lo psicologo clinico, dovrà portare l’umanesimo in azienda.
Mi scuso sin d’ora con chi vive con gioia e serenità il mondo dell’azienda traendone benessere e felicità vera. Se il lettore vive tra processi e procedure ed è felice del lavoro che svolge, dei suoi colleghi, delle dinamiche che caratterizzano il mondo del suo lavoro, allora può andare avanti in questa lettura solo per curiosità, perché difficilmente potrà trarre spunti da un libro che si rivolge prevalentemente a chi almeno una volta ha dubitato o addirittura sofferto della propria scelta lavorativa, in cui un dubbio si è insinuato, ma più volte è stato scacciato perché non c’erano e perché non ci sono altre alternative. A questi lettori rivolgo il mio invito a cominciare e continuare con me questo viaggio nel mio passato e nel mio presente, in quello che ho visto e in quello che con “lo stomaco” ho sentito. E a quel lettore che viaggerà con me in queste pagine non prometto di arrivare in fondo avendo compreso qual è la sua strada (anche perché le contingenze economiche non ne offrono tante altre), ma vorrei offrire la possibilità di identificarsi e prendere consapevolezza di alcuni meccanismi, che vede ogni giorno e di cui, forse, è un po’ stufo. O quantomeno vuole vederli per una volta come in un teatro, dal di fuori, senza sentirsene parte inconscia o consciamente coinvolta e fusa insieme a quel sistema in cui non ci si ritrova, ma in cui è costretto a vivere dalle parole mutuo, sostentamento, affitto, bollette, che con processo, multinazionale, profitto, report, slides di presentazione e teleconferenza c’entrano poco, ma hanno in comune un adulto che sacrifica le sue giornate con rispettosa dedizione per garantirsi non la ricchezza, ma in molti casi, nel migliore dei casi, il benessere. E cercheremo quindi di capire perché quel benessere, spesso, troppo spesso, non coincide con la felicità. E come è possibile dare voce ai nostri desideri più profondi, di evoluzione, anche nel mondo del lavoro.
Ho cercato in questo testo di rispondere ad alcune domande che chi scrive ha rivolto prima di tutto a se stesso:
  • perché si finisce in azienda?
  • quanto la nostra struttura di personalità e la nostra storia personale ci pongono nella condizione di accettare lo stato di dipendente e di colludere con alcuni meccanismi psicotici presenti all’interno dell’azienda riuscendo a conviverci?
  • in quali di quei meccanismi ci ritroviamo, o meglio qual è il nostro copione di vita, la decisione che da piccoli ad un certo punto abbiamo preso su come la nostra vita sarebbe andata?
  • e come questa decisione ci ha portato dove siamo adesso?
Vivere non significa lavorare, ma qualcuno dice che si lavora per poter vivere. Niente di più vero. Anzi, forse con un po’ di presunzione potremmo dire che qualcosa di più vero c’è: che gran parte della nostra vita è lavoro (affermazione ancora scontata certo), gran parte del nostro tempo lo trascorriamo a lavoro, e che per questo (novità?) una vita felice non è possibile se siamo infelici sul lavoro. Felicità è anche scegliere il lavoro che ci gratifica e ci fa gioire se non ogni giorno, spesso, e ci fa dire che stiamo portando il nostro contributo alla vita e all’evoluzione, anche per quello che chiamiamo professione. Perché se il sostenersi lavorando è la forma più evoluta del procacciarsi il cibo, vuol dire che anche se ci procuriamo da mangiare e viviamo in sicurezza senza dover attentare ad altre vite umane, non possiamo fare a meno di correre e di ridere, di accontentare la parte di noi bambina, anche quando siamo in giacca e cravatta.
Dietro le parole processo, procedure e business ci si prende a volte troppo sul serio! Ci si vuole sentire grandi uomini di affari, perché il modello della società dice che questo si vede anche nei film e i film riproducono questa realtà. E questo è rispettabile, a patto che non si continui in ascensore a parlare del tempo e a patto di non dire che è ancora lunedì e che il venerdì è lontano. Se facciamo queste affermazioni il posto in cui lavoriamo non è il nostro, non è quello che può renderci felici, felici davvero, e perderemo l’opportunità di esserlo anche nell’altra metà della nostra vita. E dovremo far finta di stare bene. Certo, la crisi non ci lascia possibilità, starete pensando. E certo, non potremo forse cambiare lavoro, ma potremo essere consapevoli di quello che ci ha portato fino a qui, per essere pronti un giorno a seguire e ad ascoltare la voce di quella parte bambina che è dentro di noi che prima o poi si farà sentire e chiederà di essere ascoltata per capire dove sta andando, perché è nata e perché non si diverte più. E dovremo anche far finta che quel lavoro è quello che avremmo voluto fare, pur sapendo in qualche parte del nostro cuore che in realtà avremmo fatto altro, magari studi umanistici anziché scientifici o economici, ma i genitori o le contingenze economiche ci dissero (in modo esplicito o tacito) che in quel particolare momento gli sbocchi lavorativi erano maggiori in un settore piuttosto che in un altro. E così, a diciannove anni, quando dovemmo scegliere l’università, avevamo già detto a quella parte bambina e sognatrice di noi di lasciare da parte i suoi interessi reali, i suoi sogni che avrebbe potuto realizzare, e gli chiedemmo di diventare adulto. Già a diciannove anni. E gli anni dell’università prepararono quella parte bambina di noi a entrare in azienda, a parlar magari di business o di cambiamento, per trovarsi poi però a gestire file di calcolo e presentazioni. Perché questa è la vita d’azienda, il lavoro in azienda oggi è tanto questo, a tutti i livelli e per la maggior parte dei ruoli, soprattutto per quelli che vengono definiti di back office.
Se siete arrivati fin qui ritrovandovi in alcune affermazioni, allora vi invito ad andare avanti con il desiderio di prendere per mano quel bambino che siete stati e che è ancora dentro di voi, per portarlo con noi in questa lettura, dove ci sarà lui e l’adulto che siete diventati, che sanno che la dimensione umana non può essere persa, neanche dove la necessità primaria è il profitto.

Introduzione


Quante volte in ascensore abbiamo parlato del tempo o detto frasi del tipo: “meno male che tra poco vado in ferie”.
Vogliamo davvero che la nostra vita scorra così? Che sia una continua attesa del fine settimana per iniziare a vivere e vedere dal lunedì al venerdì niente che sia uno scampolo di vita e di divertimento e gioia anche sul lavoro? Non mi rivolgo per questo a chi è felice o crede di esserlo. Ma a chi almeno una volta si è fermato a pensare davvero che vorrebbe una vita diversa, non solo lamentandosi, ma volendo davvero fare qualcosa per cambiare il suo stato, quantomeno quello emotivo e di consapevolezza.
Ecco, a queste persone io non saprò indicare una strada, ma cercherò insieme a loro di prendere coscienza che quello che accade, quello che pensiamo e che ci soffermiamo a guardare a volte dall’esterno, quello che ci fa star male in quell’ufficio, quello che non sopportiamo del modo di lavorare, l’aspettare il sabato per iniziare a vivere, è reale e condiviso da molti. E dunque, possiamo avere il coraggio di desiderare che qualcosa nella nostra vita cambi. Come, sarà il lettore a deciderlo, qui non si vuole avere la presunzione di sostituirsi alle sue risorse, ma con lui si vuole fare il primo passo verso la scelta di cambiare una situazione che ci far stare male: la consapevolezza.
In ascensore, avrei voluto sentire qualcosa di diverso dal: “manca poco alle ferie, è ancora lunedì, dai che è venerdì”. Qualcosa di diverso. Fosse anche solo il silenzio. Già, quello è solo reso strumento di influenza in azienda, non di rilassatezza, autenticità, possibilità di ascolto. Eppure quanto parla l’assenza di parole. Uno sguardo, un’attesa, possono comunicare ma possono anche manifestare la volontà di chi lo esprime di restare su di sé, di ascoltarsi, anche per il tempo di un viaggio in ascensore. E dunque, non sempre interrompere quel silenzio con parole già dette forse altre dieci volte dall’inizio del giorno, può rappresentare un piacere per l’interlocutore. Talvolta può infastidire. L’invito è quindi quello di non avere paura del silenzio, di non pensare necessariamente che l’altro si aspetti da noi sorrisi e parole. Ognuno di noi, in un mood che può cambiare più volte nel corso della giornata, può avere bisogno di qualcosa di diverso in diversi momenti e sta allora alla sensibilità nostra e di chi ci è di fronte, o accanto, comprendere e ascoltare quello di cui l’altro ha bisogno. Ma questo è possibile solo se ci si relaziona senza schemi precostituiti, senza frasi che devono coprire lo spaventevole silenzio per il nostro bisogno di compiacere o, peggio, per il bisogno di non ascoltar-si e di non ascoltare.
Portare la vita e l’autenticità tra quelle mura d’azienda, è possibile oppure l’autenticità è bandita in nome della convivenza e del profitto economico?
Questo mi propongo di comprendere in questo viaggio. E di comprendere come ognuno di noi anche tra i processi aziendali e tra le procedure può tenere vigile e creativa la parte più vera di sé che ci spinge a realizzare ciò che autenticamente siamo. Perché ognuno di noi è chiamato ogni giorno ad una scelta. Quella di poter vivere la propria vita compiacendo ad una madre, ad una compagna, ad un’azienda o in generale ad un’immagine di noi che ci portiamo dentro e che arriva però da fuori, da un desiderio che ci è stato etichettato dall’esterno e che non appartiene alla nostra verità più intima. Oppure, si potrà scegliere di vivere ciò che forse agli altri non piace, ciò in cui gli altri forse ci scoraggiano e in cui non credono, ma con la possibilità di poter dire alla fine o nel mezzo della nostra vita, che abbiamo realizzato o che stiamo realizzando il nostro compito evolutivo. Perché siamo chiamati in questa vita per evolvere e progredire, dando il nostro contributo all’esistenza. Ma compiacendo e salvaguardando l’immagine questo non è possibile, perché nulla di nuovo potremo dare all’esistenza. E ognuno di noi è nella condizione di poterlo fare, di poter scegliere una vita autentica.

Perché si sceglie l’azienda madre?


I sogni che anticipano il cambiamento

Chi nasce per passare la propria vita a gestire un file di calcolo e a riempire le slides di una presentazione? Oggi, la vita d’azienda è soprattutto questo. È soprattutto una ricerca di dati, una gestione di numeri o nel migliore dei casi una presentazione fatta di immagini e righe d’impatto preparate, viste e riviste nelle giornate precedenti all’incontro o alla presentazione. Nella maggior parte dei casi queste presentazioni sono fatte per altri, non per se stessi. Le gambe a volte si appesantiscono quando se ne deve preparare una! Perché?
Perché la nostra vocazione di animale uomo è un’altra. Non è quella di stare seduti a “parlare” con una macchina, un computer, o con un telefono. La nostra vita, la nostra vocazione è la relazione con un altro essere umano, in cui l’obiettivo non deve essere quello di condividere dati ma emozioni, vita.
Certo, si potrebbe pensare, per qualcuno quei dati sono emozione, vita. Ma c’è forse qualcuno tra quelli che vivono la loro giornata di fronte ad un computer o tra una ...

Indice dei contenuti

  1. Padroni della nostra vita Essere autentici per realizzare i nostri desideri