Algoritmi
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Il software culturale che regge le nostre vite

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Il software culturale che regge le nostre vite

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Gli algoritmi plasmano sempre più la nostra società, si adattano ai nostri comportamenti, ci assistono nelle ricerche che facciamo, forniscono rapidamente suggerimenti di acquisto personalizzati a partire dai milioni di prodotti disponibili. Sfruttano le analogie tra clienti e propongono prodotti simili a quelli acquistati da altri. Filtrano i contenuti in base alle loro caratteristiche e in base a numero e qualità delle nostre interazioni. Questo libro aiuta a capire un po' più da vicino come questi software agiscono sulle nostre vite, e si rivolge a chi desidera approfondire le questioni relative alla digitalizzazione e al ruolo degli algoritmi nel dare forma al nostro ambiente culturale.

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Informazioni

Anno
2019
ISBN
9788832231205

Dal calcolo al software

Nel suo libro Le persone non servono Jerry Kaplan ricorda l’improvviso crollo della Borsa del 6 maggio 2010: mille punti in meno sull’indice Dow Jones e più di mille miliardi di valori patrimoniali apparentemente evaporati, tra cui i risparmi per la pensione di milioni di lavoratori. In seguito allo smarrimento iniziale degli specialisti e dopo sei mesi di lavoro, la Commissione per i Titoli e gli Scambi del governo statunitense scoprì che a causare il crollo del 9% furono alcuni software che lavoravano in competizione tra loro, comprando e vendendo azioni per conto dei rispettivi proprietari. Ormai parte integrante del “torbido mondo segreto” del trading ad alta frequenza, questi sistemi sfruttano i piccoli profitti che appaiono e scompaiono in tempi rapidissimi, ma soprattutto sono in grado di riconoscere le strategie di trading altrui e di servirsene a proprio vantaggio. Agenti digitali che agiscono in nome degli interessi dei loro proprietari affollano sempre più le reti che utilizziamo, e non si occupano soltanto di borsa e titoli.
Nell’ottobre del 2017 su diversi quotidiani viene riportata la vicenda di James Green, un uomo di ventotto anni di Brooklyn che ha dichiarato di essere ancora in vita grazie alla app HeartWatch. Le sue parole: “Non avrei mai pensato che uno stupido computer da polso che ho comprato due anni fa mi avrebbe salvato la vita. Ho visto la mia frequenza cardiaca salire, ed è venuto fuori che si trattava di un’embolia polmonare”. HeartWatch è una app che controlla costantemente la frequenza cardiaca di una persona durante tutta la giornata, divide i dati rilevati in quattro sezioni distinte – regolare, attività, sonno e veglia – e avvisa con delle notifiche quando i valori vanno al di sopra o al di sotto di una determinata soglia. La frequenza cardiaca di Green appariva costantemente al di sopra della normale frequenza cardiaca a riposo, anche quando lui era semplicemente seduto alla sua scrivania. A quel punto ha realizzato quasi subito che non si trattava di un attacco di panico, e ha chiamato il medico. Green ha raccontato al “The Telegraph” che il suo medico si è mostrato felice per la sua decisione di chiamarlo, perché se avesse aspettato più a lungo avrebbe potuto non farcela. Il creatore della app, David Walsh, ha dichiarato di aver sviluppato HeartWatch in seguito alla morte improvvisa di suo padre a soli cinquantasei anni, per un improvviso problema di cuore. Walsh ha pensato nel tempo di aggiungere alle feature della app la possibilità di condividere i dati con il medico di fiducia, cosa che è risultata a suo dire incredibilmente popolare.
Sempre più le nostre azioni vengono registrate da centinaia di software che alimentano banche dati in continua crescita. Quando facciamo qualcosa online, lasciamo sempre una traccia. Cerchiamo un indirizzo su Google Maps, un prodotto su Amazon o un ristorante su Tripadvisor; clicchiamo “mi piace” sul post di un contatto su Facebook, ricondividiamo un tweet, pubblichiamo una foto su Instagram e la descriviamo con un hashtag; leggiamo e rispondiamo a una mail, chattiamo con amici e conoscenti su Whatsapp e Messenger, a volte interagiamo con chatbot aziendali per avere informazioni che ci interessano. Facciamo un’ora di corsa e utilizziamo una app acquistata sullo store Apple che sfrutta il GPS del nostro smartphone per sapere a che velocità abbiamo corso e quante calorie abbiamo consumato. Se facciamo una ricerca su Google mentre siamo loggati con il nostro account, i risultati saranno diversi da quelli pubblici perché in parte tarati su ciò che il motore di ricerca sa già di noi.
I servizi che utilizziamo registrano i nostri comportamenti d’acquisto, le nostre preferenze e le nostre relazioni sociali, per cercare di sapere con più precisione chi siamo. L’obiettivo è quello di accumulare informazioni in grande quantità, da far gestire a sistemi in grado di incrociare in modo efficiente i dati via via raccolti. Lo scopo è duplice: conoscere i singoli individui e avere informazioni accurate sui gruppi sociali più ampi, anche a scopo predittivo. Siamo naturalmente nel campo dei cosiddetti big data: se ne parla da qualche anno a proposito dell’aumento vertiginoso del volume di dati e della velocità dei flussi di informazioni in rete.
Avere a che fare con big data – e non semplicemente con dati – significa avere a che fare con insiemi di informazioni talmente grandi e complessi da richiedere la definizione di nuovi strumenti e metodologie per poterle gestire, estrapolare e processare in tempi rapidi. Quel che accade ogni giorno su Facebook equivale a miliardi di scritture e riscritture continue su immense banche dati: tutti i like, i commenti, le reazioni, le preferenze espresse, i check-in e le geolocalizzazioni, i tempi di permanenza su pagine e contenuti video, i tag e le modifiche alle reti di contatti vengono salvati in tempo reale e immagazzinati sulle memorie di migliaia di computer sparsi per il mondo. La maggior parte del valore che l’azienda creata da Mark Zuckerberg estrae dalle nostre azioni è gestita dal software in modo automatico: i suggerimenti di nuove amicizie o la pubblicità che ci viene proposta, per esempio, vengono gestiti da algoritmi periodicamente aggiornati. Nessun essere umano sarebbe in grado di gestire la mole di informazioni che viene processata in tempo reale dai software di Facebook, per poi ricavarne dati utili: agli umani resta per ora il controllo delle segnalazioni e delle controversie politiche, etiche e morali.
Perché quindi i big data non sono semplicemente dati, e perché le nostre società si reggono sempre più sugli algoritmi? E ancora, senza entrare in tecnicismi, cosa sono esattamente gli algoritmi? Per capirlo meglio possiamo usare un riferimento cinematografico: in una scena del film The Social Network di David Fincher (2010), Mark Zuckerberg e Eduardo Saverin – che in seguito diventeranno i cofondatori di Facebook – discutono del possibile adattamento di un algoritmo creato da Saverin. L’idea di Zuckerberg è quella di applicare un algoritmo sviluppato dall’amico – pensato per classificare giocatori di scacchi – a un altro contesto: la classificazione di ragazze del college. Si tratta della nascita di FaceMash, il predecessore di Facebook. Il sito viene creato nel 2003, durante il secondo anno di college di Zuckerberg, per consentire agli studenti di Harvard di confrontare immagini di studentesse e indicare di volta in volta la più attraente. L’algoritmo di FaceMash non è altro che l’insieme di regole seguite dal software per proporre le immagini all’utente. Da lì alla versione online e interattiva dell’annuario scolastico con nomi e volti degli studenti il passo è stato breve: da FaceMash a TheFacebook, e infine a Facebook, la creazione di Zuckerberg è qualcosa che oggi riguarda la vita di miliardi di persone in tutto il mondo.
Sappiamo dunque che un algoritmo ha a che fare con un insieme di regole. Ma di che regole si tratta, e perché usiamo questa parola? Il termine algoritmo ha le sue radici nel latino medievale e fa riferimento al nome al-Khuwārizmī, dato al matematico persiano del 9° secolo Muḥammad ibn Musa perché nativo di Khwarizm, regione dell’Asia Centrale. Nel medioevo con il termine derivato algorismus venivano indicati i procedimenti di calcolo numerico fondati sull’uso delle cifre indo-arabiche. Oggi con il termine algoritmo vengono indicati genericamente i metodi sistematici di calcolo: nello specifico, schemi uniformi e procedimenti matematici per la risoluzione di una data classe di problemi. In termini un po’ più tecnici, un algoritmo è un procedimento di calcolo esplicito e descrivibile con un numero finito di regole che conduce al risultato dopo un numero finito di operazioni. Le operazioni non sono altro che applicazioni delle regole date, che in termini informatici vengono chiamate anche istruzioni. L’algoritmo informatico è quindi un insieme di istruzioni che deve essere applicato per poter eseguire una elaborazione o per risolvere un problema. Non si devono confondere gli algoritmi con i software, perché questi ultimi possono contenere algoritmi al proprio interno ma contengono anche elementi non-algoritmici.
Ci si può chiedere a questo punto in che modo dei metodi sistematici di calcolo e elaborazione di istruzioni specifiche sono diventati elementi sempre più importanti per la nostra economia, per l’informazione, per la cultura e la conoscenza, per la salute, per l’educazione e per quasi ogni aspetto della nostra vita in comune. Siamo davanti a trasformazioni che sono state a lungo ignorate dalle istituzioni scolastiche e accademiche, a volte lontane da una efficace comprensione e gestione dei processi di digitalizzazione progressiva della conoscenza e delle nostre relazioni sociali. Le conseguenze di queste “rivoluzioni inavvertite” possiamo riscontrarle anche nella distanza tra generazioni, nelle complicazioni relative ai rapporti genitori-figli e nell’educazione familiare, sempre più caratterizzata anche dalla mediazione tecnologica. Il problema educativo, e ci torneremo più avanti, è centrale per comprendere appieno cosa significa affidare totalmente le nostre vite a software e algoritmi. Senza addentrarci in riflessioni specialistiche sui livelli sempre più alti di complessità delle nostre società, possiamo riconoscere che la digitalizzazione e le tecnologie di rete hanno comportato un vero e proprio cambiamento di fase in molti settori. Riprendendo l’esempio di Facebook, ci si può confrontare con l’impatto che la creatura di Zuckerberg ha avuto su diversi aspetti del nostro vivere insieme: per esempio, quanti sociologi o statistici possono avere accesso a quantità di dati così massive sulle nostre interazioni sociali e sulle nostre preferenze? Quanti professionisti del marketing e del targeting pubblicitario? Non va dimenticato che Facebook controlla tra le altre cose anche i dati raccolti attraverso Messenger, Instagram e Whatsapp: a conti fatti, gran parte delle nostre relazioni sociali mediate dalla rete passa da questa azienda quotata in borsa dal maggio del 2012.
Pensiamo anche ai nostri consumi culturali: possiamo per esempio chiederci quale libreria, quale editore o quale distributore può avere accesso alle stesse informazioni sul consumo di libri e prodotti editoriali a cui ha accesso Amazon. O ancora: fino a che punto le canzoni e i dischi che ascoltiamo e condividiamo, e in fin dei conti i nostri stessi gusti musicali, sono noti a società come Pandora e Spotify? Netflix, dal canto suo, è diventata centrale nel panorama televisivo anche per la capacità di andare incontro con precisione alle preferenze dei propri utenti in termini di film e serie televisive, con un lavoro costante sui dati che raccoglie.
A questo punto, prima di chiederci che tipo di operazioni vengono svolte sui dati attraverso gli algoritmi, dobbiamo fare un piccolo passo indietro e soffermarci sulla stessa raccolta di dati e informazioni. Anche qui, per comprendere meglio la differenza tra i metodi tradizionali di archiviazione e i database digitali, può essere utile confrontare due esempi.
Il primo: il 2015 è stato l’ultimo anno senza unioni civili in Italia, e il primo anno dal 2008 in cui si è verificato un aumento del numero di matrimoni. Conosciamo questi dati grazie ai rapporti dell’Istituto nazionale di Statistica (ISTAT) relativi a matrimoni, separazioni e divorzi. Nel novembre del 2016 l’ISTAT ha pubblicato i risultati della sua indagine raccogliendo tutti i dati sui matrimoni religiosi e civili celebrati durante il 2015 nei comuni italiani. Si tratta di una rilevazione statistica che l’ISTAT effettua a partire dal 1926, e che è utile per monitorare i cambiamenti di abitudini e costumi sociali. Grazie a queste rilevazioni sappiamo che nel 2015 gli uomini con età compresa tra i 18 e i 30 anni che vivono ancora con la famiglia di origine sono l’80,9 per cento del totale, e che per le donne nella stessa fascia d’età la percentuale è invece pari al 69,7 per cento del totale. Sappiamo anche che le separazioni sono aumentate del 2,7 per cento rispetto al 2014, e che l’età media delle donne che scelgono la separazione è quarantacinque anni, mentre quella degli uomini è quarantotto. Per quanto riguarda i divorzi, l’ISTAT ci dice che – grazie anche alla legge sul divorzio breve – nel 2015 il numero dei divorzi è aumentato del 57 per cento. Un dato interessante è quello relativo alla durata media dei matrimoni: secondo le rilevazioni ISTAT la durata media dei matrimoni italiani al momento della separazione è diciassette anni.
Il secondo esempio riguarda le dichiarazioni di Facebook del novembre 2013 sulla durata delle relazioni affettive rilevata da un algoritmo sviluppato da una coppia di ricercatori. Lars Backstrom per Facebook e Jon Kleinberg per la Cornell University hanno potuto analizzare la rete di relazioni degli utenti Facebook e sono riusciti con discreto successo a individuare i partner degli utenti sottoposti a monitoraggio, anche laddove non esplicitamente indicati. I due ricercatori sono stati in grado di analizzare le coppie a rischio in base alla solidità ed ai collegamenti delle reti di amici: un campionamento di quasi un milione e mezzo di utenti con almeno cinquanta amici e l’indicazione del partner nel proprio profilo o anche solo la generica indicazione di impegno sentimentale. Dall’analisi è emerso un immenso schema di quasi nove miliardi di collegamenti, contenenti circa quattrocento milioni di nodi. Backstrom e Kleinberg hanno sviluppato una nuova caratterizzazione della relazione amorosa in termini di struttura della rete, con conseguenze rilevanti per la comprensione dell’effetto che questo rapporto produce nel medesimo schema sociale. In sintesi, i due non hanno monitorato unicamente i contatti comuni tra partner ma hanno indagato i livelli di sovrapposizione e interconnessione delle rispettive cerchie di contatti. Hanno studiato le modalità attraverso le quali i gruppi di contatti di vario tipo di un utente – amici, lavoro, sport, hobby ecc. – si sovrappongono a quelli del partner, e le dinamiche di espansione o dispersione di queste reti. Proprio grazie al tasso di dispersione il loro algoritmo riuscirebbe a capire quando una coppia rischia di non essere più tale. Per i due ricercatori l’utente che introduce il proprio partner a più cerchie sociali e presenta al contempo una evidente sfera autonoma ha meno probabilità di andare incontro a una separazione: il partner diventa così un collegamento e un ponte tra i diversi mondi sociali di una persona. Per Facebook l’accesso a questi dati è naturalmente strategico in termini di contenuti mirati e pubblicità sempre più chirurgica e dunque più appetibile per gli inserzionisti. Va ricordato che Backstrom nel 2013 era a capo della divisione che si occupa del News Feed di Facebook, la “sezione notizie” che più visitiamo su Facebook e che ci assiste nel mantenerci aggiornati su ciò che fanno e dicono i nostri contatti, e nello scoprire cosa succede nel mondo. Anche per il News Feed sono in gioco algoritmi che assegnano punteggi di rilevanza ai post per decidere quali mostrarci e in che ordine. Tra i criteri “decisionali” degli algoritmi troviamo la tipologia di contenuto e le nostre preferenze in merito, il numero di interazioni (like, commenti ecc.) relativi ai diversi post, la distanza con l’utente o la pagina che ha prodotto un post e la data di pubblicazione (con alcuni effetti correttivi apportati grazie allo Story Bump, componente algoritmica che concede nuova visibilità a post più vecchi in caso di interazioni specifiche).
I due esempi ci mostrano due modalità differenti di ricerca, estrazione e utilizzo di dati sulle nostre abitudini e sui nostri comportamenti. Ora, cosa distingue un dataset (insieme di dati) come quello dell’ISTAT da quello a cui ha accesso Facebook? Istintivamente si potrebbe rispondere facendo riferimento ai costi: l’ISTAT lavora su scala nazionale, e per effettuare le proprie ricerche mette al lavoro per mesi una squadra di ricercatori stipendiati; Facebook si limita a mettere al lavoro poche persone e sfrutta un algoritmo, avendo accesso a un database immenso su scala globale. Ora, è bene chiarire che grazie alla digitalizzazione anche l’ISTAT offre ormai database dinamici e non solo statici (ovvero dataset con cui l’utente può in qualche modo interagire), ma la differenza con quanto è in grado di fare Facebook riguarda a tutti gli effetti la distanza dal mondo vivo e concreto delle relazioni sociali. In altri termini: l’ISTAT con le sue rilevazioni scatta una fotografia, e la diffonde con tempistiche che la rendono in qualche modo obsoleta già al momento della pubblicazione. Facebook ha accesso in ogni momento al mondo pulsante delle azioni e delle interconnessioni tra le persone, con un maggior potere predittivo.
Cosa comporta questo potere? In poche parole vuol dire avere la possibilità di poter fare anticipazioni e previsioni con un grado di errore che tende a diminuire con il passare del tempo. È chiaro quanto sia importante l’avere accesso a un tale potere, e non solo per il social networking. In ambito musicale, per esempio, si lavora da anni su algoritmi che studiano gli ascolti e i gusti degli utenti. Non si tratta di semplici statistiche sui consumi, ma di elaborazioni complesse e capaci di una certa dose di predizione. Durante l’Amsterdam Dance Event dell’ottobre 2017, il più grande club festival di musica elettronica del mondo, una startup olandese ha dichiarato di aver creato Hitwizard, un algoritmo in grado di prevedere il potenziale successo di una canzone con un grado di approssimazione del sessantasei per cento. La Goldmund Wyldebeast & Wunderliebe, questo il nome della startup, avrebbe lavorato per un anno allo sviluppo dell’algoritmo: una rete neurale artificiale, o in altri termini un sistema software di apprendimento automatico, che analizza e prende in considerazione diversi parametri per poter avanzare previsioni sul successo o l’insuccesso di un brano. Tra questi parametri rientrano elementi molto diversi tra loro come i battiti per minuto e la velocità di una canzone, la durata e la ballabilità, così come numerose informazioni ricavate dalle classifiche di Spotify e dalle stazioni radiofoniche. Sapere in anticipo e con una certa precisione se una canzone avrà successo o meno (pare che Hitwizard riesca a prevedere gli insuccessi con una accuratezza del novantatré per cento) può essere strategico per chi decide di investire su nuovi artisti, e questo potrà avere ricadute sui processi di standardizzazione dell’industria musicale. Siamo nel campo del machine learning, ovvero dei sistemi di apprendimento automatizzati basati su algoritmi e modelli matematici complessi che processano in tempi rapidi quantità di dati non gestibili da operatori umani. È il tempo di spendere qualche parola in più su queste enormi basi di dati.

Dietro l’algoritmo: i database

I database sono ciò che rende possibile oggi gran parte delle nostre esperienze quotidiane: prenotare del cibo a domicilio, chattare con un amico, acquistare biglietti aerei o ferroviari, utilizzare servizi di car sharing, mandare una email, prenotare un esame medico, fare shopping, cambiare la propria residenza, organizzare una vacanza o comprare dei mobili nuovi. Si tende a pensare erroneamente ai database come a basi di dati che hanno un ruolo unicamente nel mondo online delle informazioni digitali. In realtà i database reggono ormai l’intera infrastruttura economica e culturale delle nostre società: quando acquistiamo un nuovo capo in un negozio fisico, ci troviamo davanti a un indumento che è già stato registrato su un database e che viene “scaricato” al momento dell’acquisto. Uno dei primi ad accorgersi del ruolo dei database digitali di rete nei mutamenti dei processi organizzativi delle imprese fu il sociologo catalano Manuel Castells: studiando il modello dell’azienda spagnola Zara, Castells si accorse della maggior competitività rispetto ai modelli organizzativi di aziende pur importanti come Benetton. Il sociologo rilevò che Zara era un’azienda organizzata in rete, con fornitori connessi online e la capacità di poter agire in tempo reale tra la progettazione di un modello e il suo arrivo sul mercato. Se la Benetton era riuscita a ridurre a sei mesi il tempo che intercorre fra il progetto del prodotto e l’arrivo di quest’ultimo in negozio, e se la Gap lo aveva ridotto a due mesi, Zara riuscì a ridurlo a due sole settimane. In soli quindici giorni Zara riusciva a disegnare un nuovo modello partendo da zero, portarlo al negozio e rifornire così migliaia di punti vendita, producendo più di dodicimila modelli nuovi all’anno. La produzione autunnale venne disegnata ed elaborata a luglio, in modo da ridurre i tempi al minimo e contrarre i tempi di reazione rispetto al gradimento degli acquirenti. Le scelte dei clienti, registrate e immagazzinate su database, agiscono oggi in tempi rapi...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. Dal calcolo al software
  5. Dietro l’algoritmo: i database