Dello spirito libero
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Si dice che le categorie del Novecento non siano in grado di capire il presente. Falso. Solo il Novecento ci fa capire il dopo; solo chi lo ha attraversato e sofferto, tutto intero, può interpretare il presente con strumenti affilati. Mario Tronti, che il xx secolo l'ha vissuto da protagonista intellettuale – da marxista eretico – e ne è uscito sconfitto, non ha rinunciato all'esigenza, e al dovere, di capire. Oggi la libertà di pensiero è garantita, ma non è concesso un pensiero di libertà: il capitale ha conquistato tutto il mondo, e così è arrivato a conquistare anche tutto l'uomo. Non solo trattato di filosofia politica, Dello spirito libero è anche e soprattutto un capolavoro di resistenza: un'opera composta di frammenti, perché «non si può ormai pensare e scrivere che per frammenti, essendo esploso il mondo di ieri in mille pezzi». Un libro matto e disperatissimo, profondamente autentico. Scegliendo il procedimento analogico e lo stile metaforico, senza mai cedere all'autobiografia o alla confessione, Tronti richiama e contempla tragicamente i grandi temi della storia e dell'uomo: il Moderno occupato dal capitalismo e la concezione borghese della vita, la Rivoluzione d'ottobre e l'errore del socialismo subìto, il crollo del comunismo e la fine della storia; la memoria, le classi, il feticcio della merce, la critica della democrazia, l'autonomia della politica. Nelle riflessioni su libertà, destino e profezia risuonano le parole di Marx, Tocqueville, Smith; Montaigne, Hegel, Nietzsche; Musil, Kafka, Benjamin. Ma anche san Paolo, i vangeli, la Bhagavadg?t?: essere dentro il proprio tempo senza appartenere al proprio tempo è possibile solo riscoprendo la dimensione spirituale del vivere, nella convinzione che contrapporre due orizzonti grandemente umani come cristianesimo e comunismo è stata una sciagura per la modernità. Dello spirito libero è un esercizio ascetico di pensiero complesso – come deve esserlo il pensiero che sfida se stesso – mai artificiosamente difficile, mai falso. Tronti è un autore che si mette in gioco fino in fondo. E al suo lettore non può chiedere di meno.

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Informazioni

Anno
2015
ISBN
9788865764299

1. Io devo capire

Bisogna parlare solo quando non è lecito tacere, e solo di ciò che si è superato […], quando si è vissuto qualcosa e solo di ciò che si è vissuto. Ogni altra cosa è chiacchiera, letteratura, giornale.
friedrich nietzsche, Umano troppo umano
Io devo capire! A questo fine della comprensione, tutti i mezzi, intellettuali, sono giustificati. Tutti i mezzi, gli strumenti, i passaggi, gli autori, gli altrui pensieri, anche quelli dell’avversario. Documentare, dimostrare, mostrare, alludere, far parlare, percorrere, pazientare prima di comprendere, legare in principio, sciogliere alla fine. Io devo capire. Questo è l’imperativo categorico: non etico, teorico.
Si può dare un dover essere teorico-politico? Si può dare. È frutto del tempo. È conquista strappata con gli artigli del pensiero. Spicca il volo la nottola di Minerva. E l’angelo, con le ali impigliate nella bufera, volge le spalle alla catastrofe del futuro passato. Metafore, da libro di citazioni, che il lettore ha già, tutte, riconosciute. Ci permetteranno di capire? Forse, sì: se le riempie, appunto, non solo un vissuto di pensiero, ma un vissuto di storia.
Capire che cosa? Non tanto come una grande storia possa finire. Anche le cose grandi finiscono. Ma come possa finire miserevolmente: passione e morte divise, l’una senza l’altra, l’una contro l’altra. Quale storia? Quella a cui appartengo. Piccola, insignificata e insignificante molecola di un organismo vivente, al limite, più che di un passato, di un trascorso. Una tesi che mi sentirei di sostenere è che oggi il vissuto è più potente del vivente, come arma per strappare alla realtà la conoscenza, la comprensione, il possesso, il giudizio.
Si dice, ed è senso comune intellettuale di massa – il peggior senso comune che si possa trovare in giro –, che le categorie del Novecento non sarebbero in grado di capire il presente. Falso. La falsificazione di questo principio è uno degli scopi di questo discorso. Solo il Novecento ci fa capire il dopo. E null’altro. Solo chi ha attraversato, e sofferto, tutto intero, il secolo, può capire. Nessun altro. Lo lascio dire a uno di loro, a uno di noi. Pavel Florenskij:
Le grandi cose non vengono per caso, né sono un moto di capriccio: sono la parola a cui fanno capo gli innumerevoli fili che la storia ha delineato da tempo. Il sommo è la sintesi di quanto, nelle sue parti, già mandava bagliori di fosforo tra le genti; e grande non sarebbe se non risolvesse in sé lo struggimento creativo delle genti tutte. Ciò non di meno, è proprio il sommo a sintetizzare creativamente quel che è turbamento confuso, riversandolo in un’unica parola. (P. Florenskij, «La Lavra della Trinità e di san Sergio e la Russia», in La mistica e l’anima russa, San Paolo, Cinisello Balsamo 2006, pp. 142-143)
La parola, non trovata, da cercare, per il sommo, da capire. Lo spirito, da solo, non soffia. La libertà, da sola, non dice. «Spirito libero», contro «gli ultimi uomini»: questa è la lotta. Si può dare, perché già si è data.
Non saprei dire meglio di come la dice Cristina Campo (a proposito di Il flauto e il tappeto), la forma di questo libro:
Vorrei che in realtà non si trattasse di un libro di saggi, ma di un solo discorso in più tempi, come una serie di pezzi musicali dove tornano sempre gli stessi temi, e addirittura le stesse parole. O una camera picta con gli stessi personaggi e paesaggi visti successivamente e circolarmente. Non so se ci riuscirò […]. Questo per me non è che un esercizio ascetico. (Lettera citata nella Postfazione di M. Pieracci Harwell a La tigre assenza, Adelphi, Milano 1991, pp. 301-302)
E non saprei dire meglio di ciò che dice Walter Benjamin sulla sua composizione, che apparirà postuma:
Come è stato scritto questo lavoro: passo per passo, assecondando gli angusti punti di appoggio offerti dal caso e sempre al modo di chi, salendo a pericolose altezze, in nessun attimo può volgersi indietro se non vuole farsi prendere dalle vertigini, ma anche per serbare per la fine tutta la maestosità del panorama che gli si offre. […]
Questo lavoro deve sviluppare al massimo grado l’arte di citare senza virgolette. La sua teoria è interamente connessa a quella del montaggio. (W. Benjamin, I «passages» di Parigi, Einaudi, Torino 2000, pp. 512, 515)
E non so trovare modello migliore di un asperrimo libro, per me di formazione: le Betrachtungen di Thomas Mann.
Il frutto di questi anni (ma non lo chiamo frutto; direi piuttosto un residuo, un reliquato, un precipitato o anche una traccia, una traccia a dire il vero di sofferenza), il resto, insomma, di quegli anni – tanto per adattare il concetto orgoglioso di «restare» a un sostantivo di conio non troppo orgoglioso – è il volume presente.
Volume così definito: «Una fatica di penna a strati»; «qualcosa di mezzo fra l’opera e l’effusione d’animo»; «romanzo di concetti», per «l’infinito citare e appellarsi a robusti soccorritori, alle “autorità” del caso»; «le citazioni sono state sentite come un’arte, simile a quella del tendere il dialogo entro la narrazione, cercando analoghi effetti di ritmo» (Dall’Introduzione a T. Mann, Considerazioni di un impolitico, De Donato, Bari 1967, pp. 3-11.)

2. Il destino del Moderno

L’effetto naturale [della società moderna] è di fare in modo che ogni individuo sia il suo proprio centro. Ma quando ciascuno è il centro di se stesso tutti sono isolati. Quando tutti sono isolati, non c’è che polvere. Quando arriva la tempesta la polvere diventa fango.
benjamin constant, De la religion
«Il faut être absolument moderne» è stata la cifra della nostra giovinezza. «Il faut ne pas être absolument moderne», è la cifra della maturità, conquistata a forza e a fatica contro le repliche della storia. Gli amori, quanto più sono intensi, tanto più scorrono via come acqua di torrente.
In questi anni abbiamo vissuto il dileguarsi e poi lo spegnersi della passione per il Moderno. È rimasta la nostalgia per la sua antichità: lo splendido inizio quattrocentesco, così potente, nell’irruzione delle nuove forme, da spingere l’Occidente, ovvero allora l’Europa, per altri due secoli, fino al grande Seicento. «Nostalgia della vita» direbbe il giovanile frammento hegeliano, che più oltre andremo a saggiare; a lungo, perché di esso, appunto, ci siamo innamorati. Poi il Moderno è stato afferrato, rapito, portato agli inferi – tieni a mente, caro lettore, la raffigurazione scultorea del Ratto di Proserpina, splendido Bernini alla Galleria Borghese – e piegato agli interessi di una classe nascente e vincente, che nel suo sviluppo, da borghesia dei commerci a borghesia delle industrie, poi borghesia del denaro e da ultimo media borghesia di massa, occuperà e occidentalizzerà il mondo, facendo della vita stessa una ben misera cosa, un mezzo di produzione, una moneta di circolazione, un oggetto di consumo. Le rivoluzioni borghesi, economiche e politiche, hanno creato il mito – ben reale, come tutti i miti – della crescita umana. Ma era – è – per metà effettiva perdita del proprio sé, per metà apparente conquista del mondo delle cose e infine reale, servile subordinazione a esse.
E tuttavia la forza di sistema era nella «contraddizione sempre crescente». Una vitalità dirompente, che creava il contrasto per poterlo abbattere, e così avanzava, prendeva, s’imponeva. Non l’Illuminismo, che non era nulla più che ideologia per la conquista del consenso alla rivoluzione, ma Romanticismo e Idealismo, non a caso postrivoluzionari, diranno l’anima del tempo storico. Anima irrequieta e pulsante, Sturm und Drang delle forze messe in moto da eventi più grandi degli uomini, spirito del mondo a cavallo, libertà che guida il popolo, nelle immagini concettuali e figurative. Sarà Hegel a chiudere la partita, nel suo viaggio accidentato da Francoforte a Berlino. La tumultuosa fenomenologia dello spirito c’è stata, ma la Storia finisce qui. L’Assoluto ha raggiunto se stesso, il Moderno borghese ha vinto. Dall’aristocratica Prussia il primato viene consegnato all’Inghilterra capitalistica e al suo dinamico figlio illegittimo, che scalpita al di là dell’oceano.
Marx afferrerà in corsa il testimone. Con un errore geniale, si farà portatore della visionaria illusione di riaprire una storia già chiusa. Il suo elogio della borghesia rivoluzionaria è più di moda oggi che ieri. Fa ancora un piacevole solletico ai progressisti di tutto il mondo; loro sì, finalmente uniti. Il proletariato, però, salito vertiginosamente a classe operaia, si guadagnerà così un secolo di storia propria. La genialità di un errore, a volte, smuove più cose in cielo e in terra di quante non ne tenga ferme l’ovvietà di una verità. Lotte, organizzazione, spettri che si aggirano per l’Europa, solidarity for ever, riforme e rivoluzione sferzano il capitale ad andare oltre, dentro se stesso. L’andamento ciclico di sviluppo e crisi diventa la norma. Troppo poco per il salto tecnologico e per il decollo di fase. Alla guerra, dopo la pace dei cento anni, spetta di buttare sul tavolo da gioco il carico dell’eccezione.
Il Novecento non sarà la casa di riposo per le anime belle. Torneranno, queste, dall’esilio, appena avuto sentore della fine anticipata del secolo, a seppellire in tutta fretta con i loro piagnistei il cadavere della grande trasformazione. In realtà, il marxiano sogno di una cosa si è realizzato, tra il ’17 e il ’45. Non poteva durare. E aveva bisogno di durare. Di qui il tragico che lo ha investito, in varie forme, ancora tutte, appunto, da capire. Una luce si è accesa subito dopo nell’oltre Oriente, ma si è subito spenta. E poi c’è stato, a seguire, lo spegnersi, «progressivo», di ogni luce. I bagliori sinistri del tramonto dell’Occidente si sono mutati in una nebbia, o in una notte in cui tutte le idee sono grigie. Ci voleva un giapponese americano, un ibrido, exemplum di tutte le insipide ibridazioni del cosiddetto postmoderno, a ridecretare la fine della storia. Il tentativo di riaprirla, la storia, per scaraventargli contro la politica, era fallito. Non si concludeva il Moderno, esso piuttosto si inverava nella sua essenza ultima, tardo-borghese, con la sua economia degli «spiriti animali» e la sua democrazia degli «ultimi uomini».
Per fortuna di tutti noi, si trattava di vincitori stupidi. Non si accorgevano, mentre sconfiggevano il loro nemico, che essi stessi venivano sconfitti. Non sapevano della dialettica servo-signore. Non maneggiavano l’arte della guerra, che raccomanda di assicurare al nemico in fuga una via di ritirata. Semplicemente volevano sopprimere la grande paura novecentesca, che aveva turbato i sonni della ragione strumentale. Di qui, almeno dalla metà degli anni settanta, i vari tentativi di saltare presto, subito, al secolo successivo. Parola d’ordine: dimenticare gli orrori dell’immediato passato, per ripristinare le magnificenze delle sorti progressive. I cantori del Moderno, tutti gli ex di qualche cosa, i post di se stessi, divisi tra aspiranti liberal al governo e contestatori radical di opposizione, accolsero l’invito, cantando e ballando sulle macerie dei muri. Si mise in movimento una ressa per guadagnare una porta d’uscita dal Novecento. Gli uni, i riformisti ben posizionati, dalle prime file si precipitarono verso un’uscita di sicurezza; gli altri, dalle ultime file, i rivoluzionari intrappolati, si calpestarono fra loro. Così, malgrado la stupidità dei vincitori, i vinti fermissimamente si proposero di perdere.
Nessuno immaginava che di lì prendesse avvio un ciclo capitalistico dalle incerte caratteristiche, tanto sicure di sé quanto in sé fragili e transitorie: uno sviluppo economico drogato dalla finanza, una globalizzazione selvaggia della produzione e dei mercati, una finta messa in mora della politica degli Stati; e soprattutto, come strumento di egemonia, una narrazione ideologica neoliberista, essa, sì, legittima proprietaria del brevetto di «nuovo che avanza».
Ma, senza più nemico interno, secondo le più classiche regolarità della politica, ecco che scatta il bisogno di dotarsi di un nemico esterno. La confrontation tra parti di capitale, per composizione sociale non più antagonistiche e per struttura internazionale concorrenziali, non basta per tenere insieme ordinata la società col governo. Lo scontro di civiltà c’era. Aveva ragione Huntington, che lo descriveva, non lo fomentava. Il problema non era crearlo, o sopprimerlo: piuttosto utilizzarlo. I NeoCon hanno il merito di aver detto la verità. Per questo, tutti, e primi i gattini ciechi di tutta la sinistra, li hanno esorcizzati come manifestazione del demonio. Intellettuali americani, con nella testa le categorie della politica europea, avevano capito la cosa, per il loro campo, essenziale: vinta la guerra di classe, bisognava inventarsi un’altra forma di guerra. Quella tra fondamentalismo e democrazia faceva al caso loro. Non avevano calcolato, forse, o forse avevano sottovalutato, un fatto: il movimento operaio era un nemico civilizzato, soggetto alternativo prodotto del Moderno. La lotta di classe, anche quella internazionale, era una guerra «in forma», condotta con le regole residuali dello jus publicum europaeum. Il maledetto comunismo non avrebbe mai mandato due aerei kamikaze a infilarsi in due torri gemelle. Quella tra fondamentalismo e democrazia sarà una guerra «informe»: da ambedue le parti, terrorismo o guerra umanitaria, presuppone la criminalizzazione del nemico, e dunque la più criminale delle ostilità. Di qui, la sua incontrollabilità. Non è prevedibile né la vittoria né la sconfitta.
Anche i NeoCon, mentre vincevano, non si accorgevano di perdere. Del resto, il loro proge...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. 1. Io devo capire
  3. 2. Il destino del Moderno
  4. 3. Cambio di paradigma
  5. 4. Vedere altrimenti
  6. 5. Sintesi dei distinti
  7. 6. La contraddizione sempre crescente…
  8. 7. «Riflessione sul proprio destino»
  9. 8. «Die Begeisterung»
  10. 9. Dentro il tempo. Contro il tempo
  11. 10. Libertà in situazione
  12. 11. Parabole
  13. 12. Libertà nella società
  14. 13. Passaggio Novecento
  15. 14. Warburg e noi
  16. 15. Memoria e politica
  17. 16. Tradizione e rivoluzione
  18. 17. La servitù degli antichi e dei moderni
  19. 18. Grandezza e serietà del potere
  20. 19. «Pace impossibile, guerra improbabile»
  21. 20. Homo ethicus-œconomicus
  22. 21. I «grilli» della merce
  23. 22. Il «mio» e il «tuo»: queste fredde parole
  24. 23. «Uno sguardo sempre vasto»
  25. 24. Il Politico don Fernando il cattolico
  26. 25. Per la critica della democrazia politica. Tesi
  27. 26. Per la critica della democrazia politica. Einleitung
  28. 27. Ulrich ad Agathe
  29. 28. Politica e profezia
  30. 29. Politica e spiritualità
  31. 30. Il dio e il guerriero
  32. 31. Il filosofo e il tiranno
  33. 32. Il saggio e il politico
  34. 33. Il libero spirito dei battisti in Lessing
  35. 34. Der Freigeist
  36. 35. Dell’uomo nobile
  37. 36. «Con alterna chiave»
  38. 37. Alla prova del Libero Spirito
  39. 38. Un messaggio dell’imperatore
  40. 39. Questo libro sono io
  41. 40. A conferma
  42. 41. « … e altri con loro»
  43. Sommario