L’invenzione degli autori
Theodor Wiesengrund Adorno
Devo il mio primo incontro con il filosofo tedesco Adorno a una benemerita collana pubblicata da Garzanti. Si intitolava Antologie del «saper tutto», e ospitava in volumetti dal blu intenso, a prezzi davvero modici, bellissime scelte di grandi scrittori. Una di queste, I moralisti moderni, apparsa nel 1959 a cura di Alberto Moravia e Elémire Zolla, era divisa in otto sezioni (il moralismo, l’inconscio, l’io, la società, l’intelligenza, l’amore, l’amicizia, l’arte). Non nasconderò che avevo cominciato col leggere la sezione riservata all’amore, dove tra un Marcel Proust sulla gelosia (una dozzina di pagine da La prigioniera) e un Boris Pasternak sui torturanti meccanismi della scelta (da Il dottor Živago), c’era un certo (a me ignoto) Theodor Wiesengrund Adorno, che in un’opera a me altrettanto ignota, i Minima moralia, rivendicava l’esigenza di un’altra fedeltà: non il riflesso (sovrastrutturale) d’una struttura (la proprietà), che la società borghese esige come incrollabile per affermare, anche per questa via, la propria ideologia, ma una forma (meno immediata) di resistenza all’arbitrio del destino, giacché (ricordo a memoria la frase, che era forse suggestiva in quanto ovvia): «Non ama se non chi ha la forza di tener fermo all’amore».
Decisi che avrei letto i Minima moralia da cima a fondo nei Saggi rossi Einaudi, la prestigiosa collana in cui erano stati inclusi nel 1954. Non potevo sapere allora che quest’opera era stata oggetto di una dotta disputa tra l’editor della saggistica filosofica di quella casa editrice, Renato Solmi, che l’aveva giudicata «il miglior tentativo di critica, fatta dall’interno, della cultura tedesca», e un consulente prestigioso, lo storico Delio Cantimori, che l’aveva demolita, giudicandola «scadente»: certo di scrittura «elegante e raffinata», ma «evasiva quanto basta per irritare». A far volgere la bilancia a favore di Solmi aveva pensato un altro autorevolissimo consulente, Norberto Bobbio (era il dicembre 1952), giudicando l’opera «senz’altro meritevole di pubblicazione». Per amor di precisione, non lessi i Minima su una copia d’acquisto (tutti i librai torinesi la davano per esaurita), ma in un esemplare di consultazione, nella austera sala della Biblioteca Nazionale della mia città, allora situata nella sede provvisoria di via Po. Chi avesse fatto comprare il volume è rimasto per me un mistero (all’epoca era una scelta ardimentosa): così come non riuscii mai a capire perché quel libro non si poteva prendere in prestito (perché troppo richiesto?).
Sta di fatto che io lessi i Minima, e mi parve opera mirabile perché mi apriva letteralmente gli occhi sulla società circostante, in uno dei quattro posti (strappato con qualche complimento a una bidella corriva) d’uno dei tavoloni della sala predetta, cui – da semplice studente – mi sarebbe stato vietato l’accesso. Dinnanzi a me, il mio professore di filosofia medievale, Carlo Mazzantini; al mio fianco, due prestigiosi giovani ricercatori, palesemente innamorati l’uno dell’altra, che sarebbero diventati (come consulenti) miei colleghi all’Einaudi. I due studiosi lavoravano sodo e tacevano: solo, si scambiavano, a lunghi intervalli, dei tenerissimi sguardi alla Peynet. Il Mazzantini, con enormi cinquecentine ben strette tra le braccia, lasciava partire, ogni quarto d’ora, con regolarità cronometrica, un lungo sospiro, che aveva l’intensità fonica di un barrito. Nessuno, al tavolo né in sala, mostrava di udire. Io, dopo le prime reazioni di sorpresa, non alzavo neppure più la testa da un mio quaderno componibile a fogli quadrettati, che divenne veramente spesso a forza di sempre nuovi quinterni, tanto riassumevo e postillavo quelle bellissime pagine (magnificamente tradotte dal succitato Solmi). Lo conservai per una quindicina d’anni nell’apposito secretum sotto la mia biblioteca, finché…
Finché conobbi o, per essere più esatti, vidi in azione il loro autore. Durante una delle mie ultime Fiere del libro di Francoforte (vi ho partecipato per quindici edizioni complessive, il che come terapia revulsiva non ha eguali) venni invitato all’annuale cocktail della casa editrice Suhrkamp, che si svolgeva negli uffici della stessa. I tedeschi, da cui mi separa la colpevole ignoranza della lingua, non hanno l’eleganza come uno dei loro caratteri fondamentali, per dirla alla Braudel. Quel ricevimento, tra le molte bozze sparse sui tavoli, le troppe bottiglie di vino rosso, una spessa coltre di fumo di sigaro, gli inevitabili bicchieri di carta sempre pronti a ruzzolare tra le gambe degli ospiti, non era particolarmente allettante. Non vedevo l’ora di squagliarmela, quando vidi entrare, tutto vestito di blu scuro, il cranio calvo specchiante di luce, i passettini un poco impacciati, quasi infantili, un ospite tedesco piuttosto anziano, a cui i padroni di casa riservavano un’accoglienza particolarmente calorosa. Capii subito che doveva trattarsi di un autore di riguardo. Non gli avrei prestato una particolare attenzione se, di lì a poco, non mi avesse colpito il suo comportamento, quantomeno singolare. Nel primo capannello di cinque o sei persone che s’è formato intorno all’ospite, c’è una giovane donna che gli sta proprio a fianco: ambedue mi girano le spalle, io sono a qualche passo da loro. L’ospite, senza scomporsi, allarga il braccio, le mette una mano bella distesa sulla schiena, e di qui scende in tutta tranquillità a palparle il sedere. La donna non ha la minima reazione. Penso subito che sia la sua compagna: magari non è molto elegante che lui lo faccia in pubblico, ma se lei è d’accordo… Il capannello si scioglie, di lì a pochi metri se ne forma un altro. Un’altra donna a fianco dell’ospite. Lui ricomincia il gioco negli stessi termini: braccio, mano, sedere. Anche questa signora non ha il minimo cenno di reazione. Ancora un capannello… Stessa tattica, stessa imperturbabilità. Mi sembra all’improvviso d’essere in un film di Buñuel, con il solito gruppo di piccoli borghesi chiusi in un salotto e il solito Fernando Rey, che imperturbabile mette la mano sotto la gonna di Milena Vukotic… Ma qui siamo da Suhrkamp, a Francoforte! Mi avvicino all’editor delle Opere complete di Brecht, il solo con cui ho un minimo di confidenza, e chiedo chi è quel riverito sporcaccione. «Ma come, non conosci il professor Adorno?»
Entrato all’Einaudi, il cui catalogo contava appena due opere di Adorno (i Minima moralia e la Filosofia della musica moderna), avevo partecipato con entusiasmo all’acquisizione di altri nove titoli e, appena editi, mi ero buttato a leggerli con fervore (ricordo il Mahler, tradotto da Giacomo Manzoni, molti dei Prismi, a più traduttori…). Tornato a casa, ancora fremente di calvinistico sdegno, disseppellii il quaderno di appunti, e scesi di corsa per strada a gettarlo con le mie mani nella spazzatura. Un istante dopo, mi sentii terribilmente ridicolo. Mi venne in mente una brutta lettera del Carducci, che si rifiutava di scrivere dei colleghi poeti perché ne conosceva le bassezze morali (adulteri, lenocini ecc.): lui che, appena poteva, scappava sull’«orribile mostro» ferroviario a raggiungere la sua Lina (Carolina Cristofori Piva, moglie di un generale e madre di nove figli) in improbabili cittadine di provincia… Per rincuorarmi, corsi a riaprire i Minima, ma, così ad apertura di pagina, non ebbi evidentemente fortuna: «L’intimità fra due esseri umani è fatta di indulgenza, sopportazione, rifugio dalle idiosincrasie individuali. Se viene portata allo scoperto, vi si manifesta subito un elemento di debolezza…».
Guido Almansi
Guido Almansi venne risucchiato nell’orbita einaudiana da Italo Calvino, credo grazie ad alcune vivaci recensioni letterarie sul Times Literary Supplement. Si rivelò presto uno scoppiettante epistolografo, dalla curiosità onnivora. Mentre attendevo con lui alla messa a punto della sua Estetica dell’osceno (1974) per la Ricerca critica (una collana «sperimentale» di saggistica letteraria, di cui i miei superiori mi avevano affidato l’avvio nel ’67 – ne seguii da vicino una quarantina di titoli), Guido ci sommergeva, lettera dopo lettera, di schede provocanti: Le origini del romanzo borghese di Ian Watt, La retorica dell’ironia di Wayne Booth, Dopo Babele di George Steiner, che colpevolmente trascurammo. Adorava tutti gli scrittori contro, specialmente se drammaturghi, come Alan Ayckbourn, «un “genio teatrale dell’arte combinatoria”, che non soffre di nessuna delle malattie da “sussiego sperimentale”, ma riesce a impegnare intelligentemente il pubblico con spassose commedie, in cui non accade nulla». Aiutato da Calvino, benché fosse anche lui freddino (come l’editore) verso il teatro, riuscii a far passare una raccolta di quattro deliziose commedie di Noël Coward, introdotta da lui (si era letto tremila pagine del torrenziale drammaturgo per sceglierne trecento): persuademmo Giulio Einaudi che questa «bohème per ricchi» era «un atto eversivo contro il teatro eversivo» e lui, a sentire il nostro manifesto, acconsentì magnanimo. Invece ci andò malissimo con gli adattamenti shakespeariani di Charles Marowitz, allora di gran voga al di qua e al di là dell’oceano. Ma il rifiuto mi fruttò, se non altro, una mirabile tirade almansiana al mercato chic del mio quartiere, la Crocetta, dinnanzi al quale s’ergeva una casa di riposo, che ospitava l’anziana mamma di Guido: «Lo sai, no, prima o poi dobbiamo tutti scrivere il nostro Edipo, volenti o nolenti: guarda Ionesco, Dürrenmatt, Bond, guarda Testori e Manganelli, e i loro Macbeth, Amleto e Otello! Tutta gente per cui Willie non è che un pretesto per scrivere un loro testo. Marowitz, che è un grintoso conoscitore di Willie, lo prende per il collo e lo costringe a dire quel che non voleva o non osava dire, ma lo fa usando le sue stesse parole! È un sublime falsario, che sa benissimo che non c’è niente da inventare, perché in Willie c’è tutto, basta solo saperlo sfruttare a scopo ludico o polemico, as you like it!». Un giorno, sempre in prossimità dell’ospizio, mi sganciò un biglietto, su cui aveva trascritto «un epigramma antipirandelliano, composto in un momento di noia sublime a un congresso pirandelliano in America»: «There were two playrights, one called Pir, the other Ello; one wrote Hamlet, the other Othello; Othello and Hamlet don’t like their creator, so they go out in search of an author, they find Willie Shakespeare and this is good luck, the duo Pir-and-Ello is such a lame duck». Anche il nostro rifiuto di procedere a una sorta di edizione critica del Dizionario del Diavolo di Ambrose Bierce gli strappò una pungente citazione dal medesimo: «Abominevole: tipico delle opinioni altrui».
Cesare Angelini
Credo sia Joseph Joubert ad aver scritto nel suo sterminato Diario: «La sola cosa che non possiamo lasciare in eredità sono i rimorsi». Nominato segretario generale della casa editrice, avevo la responsabilità della segreteria editoriale e dell’ufficio contratti in particolare. Mi distinsi presto per la mia parsimonia (Giulio Einaudi, che non era portato al risparmio, non tardò a coniare per me l’epiteto di «strozzino»). Allo scialo dell’editore cercavo (inutilmente, ma ostinatamente) di oppormi risparmiando qualcosa nei rapporti con gli autori, i curatori, i traduttori.
Tra i miei numerosi interlocutori nell’arco di diciassette anni incappai in uno studioso di rara finezza, monsignor Cesare Angelini. Non lo conoscevo, né di persona lo conobbi mai, ma da giovane italianista avevo una sincera ammirazione per i suoi scritti, d’una eleganza pari alla penetrazione critica. C’era da mettere a punto con lui il contratto per un’edizione nuova di zecca degli Atti degli Apostoli, che sarebbe uscita nella Nuova Universale nel ’67. Proponevo una cifra, lo sentivo al telefono reticente (mai polemico o offensivo), le lettere si susseguivano a intervalli non proprio regolari. Finalmente il contratto si chiude, il libro esce.
Monsignor Angelini morì nel 1976 (a Pavia lo onorarono giustamente con una bella silloge di studi), da Rusconi vide la luce nel 1985, sotto il titolo I doni della vita, il suo epistolario dal 1913 alla morte. Lavoro in quel periodo a Roma per una serie di registrazioni televisive: i soliti programmi culturali che vanno in onda alle due di notte e non vede nessuno. In un ritaglio di tempo visito quella che è considerata dagli storici della letteratura religiosa la libreria più fornita della capitale, non distante da San Pietro (medito da tempo di rifare daccapo un mio vecchio commento ai Fioretti di San Francesco, apparso da Einaudi nel ’64). Mentre trascorro da un ripiano all’altro della libreria, mi si fa vicino una suorina, con la sua cuffia azzurra cartazucchero, e mi dice, con una voce appena venata da un affettuoso rimprovero: «Ma allora, lo trattava proprio male il mio Maestro…». Come mi ha riconosciuto? Forse è tra le rarissime mie telespettatrici… E chi è il suo Maestro? La suorina, che ha un accento inconfondibilmente lombardo, indica senza esitare l’epistolario di Angelini, fresco di stampa sul ripiano: «Lo apra, lo sfogli pure…». Capisco che la suorina, forse allieva di Angelini a Pavia, ha scoperto lì dentro qualche mia malefatta: corro a cercarmi nell’indice dei nomi e mi imbatto in una lettera che avevo, evidentemente, rimosso: «Penso che Einaudi, proponendomi come compenso per il mio lavoro il forfait di quattrocentomila lire, l’abbia fatto per permettere a me (e questa è una grande cortesia) di arrotondare la cifra portandola a cinquecentomila; da versarmi, nella misura di trecentomila, subito, e l’altre duecentomila alla consegna e approvazione del manoscritto». Monsignor Angelini, pur di non offendermi, aveva tirato di mezzo l’editore (persona ficta, che alla trattativa non aveva mai preso parte); e poi era riuscito ad aggirare l’ascolto con un brillante tratto d’ironia. Corro all’indice daccapo, non ci sono altre lettere indirizzate a me: purtroppo, però, trovo un’altra battuta che mi riguarda in una lettera a un collega più anziano e autorevole, il mai troppo lodato nostro caporedattore Daniele Ponchiroli: «… dica al signor Davico Bonino col quale, un paio d’anni fa, ho fatto il forfait sulla cessione degli Atti, se può farmi mandare le duecentomila lire che mi spettano ancora e che dovevano essermi versate al momento della consegna». Dunque, non solo lo avevo pagato male, povero monsignore, ma non ero neppure riuscito a farlo pagare a tempo! A epistolario aperto, ho cercato di ricordare quanti e quali altri soprusi avevo commesso («a fin di bene» avrebbe detto l’Abbondio di quel Manzoni caro alla mia vittima, cioè per arginare – stupidamente – le spese d’un’azienda dalla gestione «allegra»).
Per fortuna, in casi del genere, la memoria ti si fa complice e si ribella a qualunque consuntivo. Per altro, mi sono ricordato che – dopo – una volta cioè lasciata la casa editrice e divenuto un semplice free-lance qualunque – in un paio di convegni «di categoria» m’ero distinto in vibranti interventi sindacali perché per una traduzione, per una prefazione, per la cura di un classico (che costa mesi e mesi di duro lavoro tra biblioteca e tavolino e presume decenni di costante e rigorosa preparazione alle spalle) venissero praticati compensi meno «amatoriali»…
Robert Antelme
Non ricordo ora che giorno fosse, se era ancora aprile, o era già cominciato maggio, un mattino alle undici il telefono ha suonato. Chiamavano dalla Germania, era François Morland. Non dice buongiorno, è brusco, chiaro come sempre. «Mi ascolti bene. Robert è vivo, si calmi. Sì. È a Dachau. Faccia attenzione, mi ascolti con molta attenzione. Robert è esausto, a un punto che lei non può immaginare. Non glielo nascondo, è questione di ore. Qui può vivere ancora tre giorni, non più. Bisogna che D. e Beauchamp partano oggi stesso, stamani stesso per Dachau. Dica loro questo: vadano subito al mio ufficio, là sono al corrente, riceveranno uniformi di ufficiali francesi, passaporti, ordini di missione, buoni per la benzina, carte di Stato Maggiore, lasciapassare. Partano all’istante. Non resta che questo da fare. Seguendo la trafila ufficiale arriverebbero troppo tardi.» François Morland e Rodin facevano parte di una missione del père Riquet, erano andati a Dachau, là avevano trovato Robert L., nella parte vietata del campo dove si depositavano i morti e i casi disperati. Qualcuno aveva chiaramente pronunciato un nome: «François». Gli occhi si erano richiusi. Rodin e Morland, c’era voluta un’ora prima che riconoscessero Robert L. Alla fine lo aveva riconosciuto Rodin dalla dentatura. L’avevano avvolto in un lenzuolo come i morti, tirato fuori dalla parte proibita del campo, disteso a fianco di una baracca nella parte di campo dov’erano i sopravvissuti. Soldati americani in giro nessuno, per questo avevano potuto farlo, erano tutti nel posto di guardia spaventati dal tifo.
Il brano che ho citato – e mi scuso se è un po’ lungo – l’ho letto nel 1985, l’anno dell’uscita in Francia da POL de’ La Douleur di Marguerite Duras. Non appena letto, su Le Monde des livres, che la Duras aveva pubblicato questo libro, mi ero precipitato dai miei amici Caputo, alla Librairie Française di Torino, l’avevo comprato e letto d’un fiato. Mi riferisco al primo dei sei racconti, che dà il titolo all’intero volume (nel 1985 è stato tradotto egregiamente da Giovanni Mariotti insieme a Laura Guarino per Feltrinelli).
Tutto d’un fiato, perché io quel Robert L. l’avevo conosciuto. Si chiamava Robert Antelme, aveva pubblicato nel 1947 un libro sconvolgente, L’espèce humaine, che avevo letto in traduzione da Einaudi intorno al 1956-57. L’espèce humaine è, subito dopo Se questo è un uomo, uno dei grandi libri sull’esperienza della deportazione e della prigionia nei campi di sterminio. Antelme, come Primo Levi, come Jean Améry, era uno dei sopravvissuti all’universo concentrazionario, per citare il libro di un altro deportato, David Rousset. Ma, a differenza di queste persone, Antelme era stato un morto-vivo (un morto tra i vivi, persino nella fuga: «Si fossero accorti del vero stato di Robert L., l’avrebbero immediatamente riportato tra i morti»).
Ad Antelme ero passato davanti quando, nel ’67, m’ero ostinato a far visita a Raymond Queneau ed ero persino riuscito a persuadere Italo Calvino a farmi da chaperon. Di questa visita racconterò più avanti. Quando, nell’ammezzato della casa editrice Gallimard, dove era collocata la redazione della Encyclopédie de la Pléiade, Queneau, che ne era il direttore, s’era alzato per ricevermi, avevo notato che egli divideva la stanza con un collega, chino al tavolino dinnanzi a un’enorme pila di bozze. Era per l’appunto Robert Antelme, a cui tuttavia feci visita solo nove a...