capitolo terzo
1980-2018. Dopo Basaglia
Quarant’anni senza manicomi –
L’istituzione inventata – Il manicomio chimico
Ricomincio questa breve storia. È venerdì 29 dicembre 2017, è circa un mese che ci sto sopra, un mese per raccontare da Pinel a Basaglia, dal 1793 al 1980, la nascita, l’ascesa e la distruzione della macchina internante detta manicomio. Ora però Basaglia è morto e bisogna provare a raccontare come siano trascorsi questi anni, quarant’anni di psichiatria italiana senza manicomi, ma non solo di psichiatria italiana, provare a raccontare come questa nostra piccola rivoluzione abbia condizionato il resto del mondo, se lo ha fatto, e se e come sia stata in certa parte recuperata, ma anche di come ci sia ancora una minoranza etica di operatori di salute mentale che resiste, e che prova ogni giorno a convincersi che ne vale la pena, e a convincere che la follia ce l’ha il diritto di stare al mondo. Però mentre sono qui, che tergiverso, leggo cose, aspetto il momento buono per ricominciare a scrivere, pubblico un pezzo, su una rivista online di letteratura e pensiero antagonista che si chiama «Carmilla», un pezzo in cui – con l’espediente di recensire un libro di una donna psicanalizzata che descrive il suo analista definendolo «sciatto gigione narciso che intasca in nero» – ne approfitto per dir male della psicanalisi. La definisco disciplina inutile e sopravvalutata. Tutto sommato non faccio altro che ribadire ciò che Basaglia pensava della faccenda psicanalitica. Ovviamente nel pezzo – Metapsicologia dell’inanalizzabile – do enfasi proprio a ciò che disse nelle Conferenze brasiliane:
Ci sono i vari psicanalisti, psicoterapeuti, psichiatri eccetera. Ognuno tenta di dare una risposta a quello che è la malattia mentale, ma se parlassimo con ciascuno separatamente ci sentiremmo dire che non sanno cos’è la follia, e ciascuno ammetterà che la relazione con il paziente è una relazione di potere. L’esempio dello psicanalista è il più tipico. Questo problema del dominio dello psicanalista sullo psicanalizzato Abrahams lo discute in L’uomo col magnetofono. Un giorno un paziente va dallo psicanalista con il registratore e dice: questa volta chi fa la psicanalisi sono io, lei è il paziente e io lo psicanalista. Lo psicanalista resta sorpreso, cerca di dissuaderlo, di convincerlo a riprendere il suo posto, siccome il paziente si rifiuta, lo psicanalista prende il telefono e chiama la polizia.
Gli psicanalisti. Non hanno capito granché, né di Basaglia né dei basagliani, non se ne fanno una ragione del perché noialtri abbiamo, deliberatamente, ricusato la tecnica, tutta la tecnica ricusabile, e tra le tecniche quella molto potente che risponde alla multinazionale della psicanalisi.
Basaglia nemico del manicomio o nemico della tecnica?
Allora provo a partire dalla tesi di uno di loro, peraltro uno dei meglio attrezzati, lo psicanalista Sergio Benvenuto. Che a suo modo prende Basaglia e lo mette sul lettino e, come corpo morto – in effetti è morto da un pezzo quando lo psicanalista lo mette orizzontale – e come è prassi psicanalitica, lo viviseziona. Va bè, d’altra parte non solo la medicina è scienza del corpo morto, e non solo lo è la psichiatria, ma lo è perfino la psicanalisi, che Freud s’è fatto in quattro per farla credere scientifica e medica. Ma, come sappiamo tutti, non c’è riuscito. La medicina ha imparato l’uomo vivo malato scrutando l’uomo morto dissezionato sul tavolo anatomico. In ospedale, il luogo della medicina, il malato vivo è sempre orizzontale sopra un letto, clinos, a corpo morto anche se vivo. La psicanalisi pure si è appropriata di questa orizzontalità non per agevolare il relax ma per imitare la postura cadaverica del corpo in attesa dello sventramento. Ma torniamo a Benvenuto che analizza Basaglia cadavere. Capiamoci, su molto di ciò che dice, io sono d’accordo. Dice che l’utopia basagliana andava al di là della mera eliminazione del manicomio, che lui, loro, cercava, cercavano, di eliminare la tecnica, ma non tanto dalla cura psichica quanto dalla vita in generale. Vale a dire: era «una campagna in senso lato metafisica», dove le istituzioni psichiatriche di cui era nemico rappresentavano solo una delle molte risposte della tecnica alla sofferenza umana. Spieghiamola meglio. Sergio Benvenuto premette che lui non abbocca alla vulgata che considera Basaglia un antipsichiatra sostenitore di teorie sociogenetiche della sofferenza psichica, tipo che si impazzisce per colpa della società cattiva. Queste sono le tesi degli antipsichiatri anglofoni, i Laing e i Cooper, da cui Basaglia s’è opportunamente smarcato, professandosi sempre psichiatra tout court, in lotta contro le istituzioni psichiatriche, dunque psichiatra antistituzionale, non antipsichiatra. Qual era, allora, la sua concezione della psichiatria e in che modo questa ha condizionato il suo impulso riformatore? Perché, per esempio, si risolve a superare perfino il modello, così originale, così diverso, tanto più radicale di quello inglese, della comunità terapeutica goriziana? Perché, per esempio, guarda con spregio all’esperienza in atto, negli anni Sessanta-Settanta, nella clinica di Château de la Borde dove Jean Oury e Félix Guattari si adoperano per rendere l’istituzione terapeutica? Ciò dipende, sostiene Benvenuto, dalla cultura fenomenologica di cui Basaglia è imbevuto. Cultura fenomenologica che, insieme a un pensiero marxista non ortodosso, con molteplici elementi libertari, ci consente di mettere a fuoco il nemico principe di Basaglia, prima ancora dei manicomi: la tecnica. E pure Basaglia, ipotizza Benvenuto, avrà voluto resistere alla «grande tentazione» di mettere a punto una sua personale tecnica per le psicosi, con tanto di originale teoria sui disturbi psichici. E ha resistito a questa tentazione (che gli sarà di certo venuta) perché: pur sempre una tecnica sarebbe stata. E dunque non andava bene. Perché questa era il vero suo nemico, non il manicomio, non l’università, non la società escludente, ma la tecnica. Nessuna tecnica andava bene a Basaglia – men che mai la psicanalisi – salvo, chiosa Benvenuto, gli psicofarmaci. E perché gli psicofarmaci sì? Perché gli servivano per poter cacciare gli internati dal manicomio. E questa sarebbe una prima contraddizione. Ma cos’ha la tecnica di così disdicevole, riprovevole, da essere tenacemente aborrita da Basaglia e dai suoi sodali? La tecnica separa. Separa il produttore dal prodotto. Il manicomio è macchina, è fabbrica, è prodotto della tecnica che separa a ogni livello: internati separati dal mondo esterno, internati separati tra loro nei vari padiglioni, curanti separati tra loro da una stringente gerarchia. La repulsione basagliana per la tecnica e per la separazione manicomiale si esplicita perciò in questa frenesia liberante: tutto in movimento, tutto aperto, via cancelli reti chiavi porte camici, osmosi tra dentro e fuori, tra ospedale e territorio, ingresso del mondo del tempo e della storia, che è fuori, nel mondo senza orologi e senza storia che è dentro il manicomio. Ma – ecco la tesi di Benvenuto – Basaglia contesta il manicomio, contesta che il manicomio possa essere terapeutico, e in questa propaganda egli è eccezionale perché convince tutti, però: non propone una cura, in alternativa, a parte la liberazione dal manicomio. E non la propone mica perché lui, come gli antipsichiatri, ricusa l’idea della sofferenza psichica e pensa che i sofferenti non debbano essere curati. Al contrario. Lui sostiene che vanno curati. Ma come? Nel senso di cure o di care? Nel senso di cure-curare no, abbiamo detto, perché si tratterebbe di affidarsi alla separazione della tecnica. Allora nel senso di care-prendersi cura? Risposta: in realtà la cosa è più complessa, perché Basaglia aveva una doppia idea della follia. Da una parte vede il disturbo vero e proprio, la follia primaria, per così dire, la psicosi vera, che si genera per dinamiche su cui Basaglia di solito non si pronuncia; dall’altra vede il doppio di questa follia, ovvero ciò che la psichiatria, e le sue tecniche, hanno fatto di essa, dunque prevalentemente l’isolamento nel manicomio. Per cui la sua priorità è stata la cura del doppio della follia, non della nuda follia. In questo senso comprendiamo meglio lo slogan di mettere la malattia mentale tra parentesi. Quando ci saremo liberati del doppio, ovvero di tutto l’elemento iatrogeno istituzionale e tecnocratico che le è stato messo addosso, allora ci occuperemo di follia. Della nuda follia. A questo punto però, sostiene Benvenuto, fatta la 180, eliminati i manicomi, il doppio della follia dovrebbe essere venuto meno, avremmo dovuto poter osservare questa follia nella sua nudità, e a questo punto, però, abbiamo di nuovo bisogno di tecniche, per affrontarla, siano esse tecniche psicoterapiche, o psicofarmaci.
In questo devo dire che Basaglia ha portato alle estreme conseguenze la lezione di Edmund Husserl, critico dell’eccessiva specializzazione di tutti gli ambiti di conoscenza, dove la tecnica impera e riduce le persone a oggetto, e ha continuato a essere, finché ha vissuto, un fenomenologo radicale, persuaso dell’importanza che non si consumi «un distacco del soggetto dal suo atto». Le tecniche separano, sono «specialismi»; al mondo specializzato delle gerarchie professionali Basaglia contrappone il mondo della vita, il mondo dei bisogni.
Cosa avrebbe pensato Basaglia, morto senza vedere gli effetti della legge 180, della psichiatria territoriale e comunitaria italiana, così difforme, dove perfino nelle rare enclave di prassi basagliana i suoi eredi non hanno potuto fare a meno delle tecniche – ovvero di psicoterapie e farmaci?
Ecco, questa la chiave di lettura del – come lo chiama lui – basaglismo, che Sergio Benvenuto dà, e su cui tornerò più avanti, quando affronterò un tema che Benvenuto elude, ovvero la iatrogenesi, ovvero il doppio della follia tuttora imperante, nonostante il superamento dei manicomi, dove il doppio della follia stavolta non si chiama manicomio segregativo ma si chiama manicomio nosologico e molecolare. Dove è ancora una volta la tecnica, che si chiami diagnosi o che si chiami psicofarmaco, a determinare di nuovo un doppio della cosiddetta follia, e di nuovo la nostra lotta sisifica di tecnici-che-ricusano-la-tecnica, la ricusano per quel che è possibile ricusare, in questa continua soglia tra la nuda follia e la follia iatrogena sta la nostra lotta.
Ma vediamo, rapidamente, cosa è successo dopo fatta la legge. In molti luoghi si è trovato l’inganno, d’accordo. In altri si è applicata. O meglio, si è continuato a fare quel che già si faceva. Senza manicomio, però. Con poca tecnica. Per esempio, là dove è nata. A Trieste. Venite a vedere Trieste, diceva Basaglia. Andiamo, venite con me, vi porto a vederla.
Trieste, l’isola dove la 180 funziona
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