1. L’IDEA DI TEORIA CRITICA
1. L’esperienza del male
Il primo passo, nel percorso di ricerca presentato in queste pagine, sta nel cercare di farsi un’idea di questo oggetto di analisi così scomodo, inafferrabile e pericoloso che è il male. La filosofia è coinvolta sin dall’inizio in un simile sforzo conoscitivo ed etico. Essa nasce nell’atto che porta l’essere umano a sollevarsi, assumendo la statura eretta1, nell’esercizio della responsabilità di sostenere, senza piegarsi alla complicità, il confronto con il male.
Chiunque, anche chi nega che ci sia differenza tra bene e male o comunque sostiene che siano termini del tutto relativi, ha bisogno dell’uno e deve fare i conti con l’altro. Per schiudere un orizzonte di conoscenza e di comprensibilità che non sia riduttivo rispetto alla questione del nostro confronto con il male è necessario riconoscere anzitutto che la vita in generale e la nostra stessa particolare condizione di esistenza hanno sì una struttura naturale, appunto biologica, ma anche la eccedono. La contraddizione tra vita e morte non si lascia risolvere in una dialettica duale, né in una totalità che le ricomprenda come le sue due metà. Tale contraddizione comporta essenzialmente la coimplicazione della dialettica tra bene e male. Questa necessità di un radicale ampliamento del piano di comprensione della nostra questione non deriva dall’arbitrio di una particolare costruzione teorica, ma è posta dall’ascolto dell’esperienza umana della vita e del confronto con la morte, con il bene e con il male. Nella realtà dell’esistenza questi diversi elementi sono intrecciati, coinvolti insieme, mai isolabili oppure riducibili a una dialettica puramente naturale tra la vita e la morte.
La conferma di una simile constatazione è fornita da molti dati di fondo. Anzitutto dal fatto che la morte non si sperimenta mai come l’altra metà della vita e soprattutto come il suo giusto compimento.
Rimane ogni volta un’interruzione, uno strappo, un’ingiustizia. La conferma viene inoltre dal fatto che la vita stessa, per svolgersi, deve poter essere amata, ha bisogno di adesione e di passione, di cura, di una dedizione che esprima il bene. Una vita del tutto priva di qualsiasi esperienza di bene è già un’esperienza di morte.
Non per niente i sistemi di pensiero tipici delle diverse visioni metafisiche dell’Occidente cercano di dare una lettura unitaria della complessità del rapporto tra tutti i poli richiamati. In esse figurano di solito sia l’identificazione del bene come principio della vita, sia una spiegazione del male, ossia della sua origine. Esso sembra un dato strutturale, addirittura originario, della condizione umana, ma del resto sempre si rileva che ci impedisce propriamente di vivere, giacché a stento e a prezzi altissimi permette tutt’al più di sopravvivere e solo ad alcuni. Ogni attività, esperienza o qualità umana sono impedite e deformate dal male considerato nelle sue varie tipologie. Come malattia, sofferenza, colpa, oppressione, violenza, morte, insensatezza o infelicità, il male ci colpisce da ogni lato della vita. Si annuncia ben presto una sua ubiquità negativa che fa dubitare del fatto che la vita stessa sia un dono o che in essa ci sia spazio per ciò che chiamiamo felicità.
Come l’esistenza umana in quanto tale, così anche la riflessione della filosofia non può certo dirsi distante, neutrale o disinteressata alla questione. Anzitutto perché nella ricerca della verità è chiaramente necessario l’impegno alla distanza dal male; tale ricerca non è neutrale, puramente intellettuale. Già dal tempo dei presocratici e soprattutto di Socrate si è riconosciuto che non c’è lucidità che non sia eticamente orientata. In molte culture filosofiche la ricerca della verità è nel contempo la ricerca della salvezza. Ma questa o viene negata, o viene velocemente rinviata a Dio e a un oltremondo. Si può comprendere meglio la salvezza, almeno sul piano della speranza e della responsabilità umana, se si studiano origini, meccanismi, forme, esiti e punti deboli del male. È chiaro che qui è in gioco la comprensione del legame tra verità e salvezza, una comprensione che non siamo costretti a lasciare alla sola religione e meno che mai al fideismo.
Inoltre la filosofia è interessata alla questione del male perché è interessata a combattere la menzogna, che del male è espressione naturale. Esso si occulta e perciò richiede uno sguardo critico permanente. Non si presenta mai per quello che è, anche perché, in definitiva, a chiunque sia a veicolarlo o a farsene portatore manca l’autocoscienza profonda per riconoscere davvero ciò che esso è. L’azione del male è il fattore problematico più radicale per cercare di arrivare a capire come stanno davvero le cose, per tentare sempre di nuovo un’opera di discernimento onnilaterale, perché riguarda noi stessi, dove siamo, la vita interiore, le relazioni interpersonali, il rapporto con il mondo, la sfera pubblica, la politica, l’economia, la relazione con la natura, la relazione eventuale con Dio o comunque con il senso di tutte le cose.
Va ancora ricordato che l’interrogazione sulla questione del male è rilevante in ogni caso anche per l’autocomprensione umana. Faccio solo due esempi per cogliere la rilevanza dell’indagine sul male per l’antropologia filosofica. Anzitutto, si tratta di poter ripensare la natura della libertà. In effetti, si può iniziare a ipotizzare che essa, nella sua pienezza, non sia affatto la causa del male. Anzi, dove c’è il male non c’è più libertà. Un altro nucleo essenziale sul piano esistenziale e antropologico, implicato con la questione del male, è il rimando alla felicità, l’aspirazione, la ricerca, l’attesa nei suoi confronti. È evidente che non si dà felicità finché sussiste il male: la felicità è liberazione da esso, è un processo di superamento del male e della sofferenza che causa, è un cammino di guarigione. Qualunque visione antropologica, sociale o morale non consideri questi aspetti, e cioè che libertà e felicità esigono essenzialmente un confronto con il male e la liberazione dal suo dominio, risulta non solo astratta, ma fuorviante. Basta ricordare la concezione della libertà imposta dal liberismo attuale per avere un esempio di questa ottusità.
Anche solo da un primo sguardo sul modo di imporsi e sugli effetti di quello che chiamiamo “il male”, si vede che esso opera come una spada, produce lacerazioni gravi e dolorose perché si frappone tra noi e ogni alterità positiva della vita. Vanifica e perverte la realtà, la distrugge e, a suo modo, la riconfigura secondo distruzione. Se teniamo conto di questi aspetti otteniamo intanto due indicazioni parziali, provvisorie ma importanti per il cammino futuro. Formulo tali indicazioni come se fossero apparentemente due definizioni, che tuttavia vanno prese come tesi del tutto provvisorie e allusive: a. il male è perversione della realtà, è irrealtà; b. il male è la causa della sofferenza e della morte.
Le due tesi emergono dalla constatazione del fatto che tutto quanto chiamiamo “realtà” non è qualcosa di neutro, è un divenire fatto a strati o gradi d’essere che sono espressioni di vita, di una positività fragile ma effettiva. È un mondo comune dove ogni essere è implicato nella relazione con quell’origine della vita che a ciascuno permette di esistere. L’irrealtà è il disfacimento, il travisamento, la negazione, la degenerazione di tutto questo: della vita, della relazione, del mondo comune. È l’avvento del nulla in luogo di persone, esistenze, relazioni. E se la realtà che conosciamo potesse essere detta “creazione”, allora il male è “anticreazione”.
Tra la morte e il male sussiste un rapporto di coimplicazione reciproca. Da un lato, infatti, la morte – considerata in quanto distruzione pura e irreversibile, da cui non c’è ritorno (viene lasciato fuori campo qui l’eventuale significato della parola “morte” per indicare il passaggio a una vita nuova) – è il paradigma stesso del male, il suo evento esemplare, il suo effetto più tipico. Dall’altro, il male è tale in quanto ogni volta si attua appunto come morte, distruzione di vite, persone, relazioni, senso, verità, futuro. Da questo versante, più che la morte come evento unico, forse la tortura rappresenta meglio, per così dire, la malignità del male. Infatti nella tortura si ripete un’esperienza di morte infinitamente lunga, intollerabile, capace di disperare e umiliare le persone al punto che la morte fisica finisce per sembrare una liberazione.
Male e morte si manifestano come le due facce della stessa potenza negatrice che pare sovrastare i nostri tentativi di far prevalere il bene e la vita. Non per niente il male, quando ci si chiede dove sia, appare ubiquo: uno studio fenomenologico del male nella storia fallisce se tenta di “isolarne” l’essenza, come si farebbe con un virus, per domiciliarlo in una zona ristretta dell’essere. La minaccia dell’irrealtà incombe su ogni segmento del reale. Non si riesce a dislocare il male, se non in modo metaforico e sfuggente, come quando si dice che è così abissale da esser radicato in una oscurità dell’essere di Dio2, o come quand o si asserisce che è impalpabile perché è piatto, senza spessore, come ha osservato Hannah Arendt, e proprio per questo la ragione che ne cerca la causa profonda non riesce ad avere presa su di esso.
L’effetto dello scontro con tale difficoltà nello sforzo di spiegare il male e di individuare la sua scaturigine è stato spesso assai simile a un fallimento. Così in molti casi si è pervenuti a una delle diramazioni di questo triplice vicolo cieco: o alla negazione pura e semplice, secondo cui il male propriamente non esiste ed è solo un momento della marcia verso il bene; oppure alla resa, nella convinzione per cui con il male bisogna convivere in quanto la natura umana è necessariamente corrotta; o infine a un nuovo tentativo di dislocarlo in una circoscritta zona del reale (per esempio in un certo modello di società, nell’aggressività del corredo biologico umano, nel demoniaco e in potenze sovrannaturali, nella libertà, e così via).
In rapporto alla rassegnazione e alla volontà di non vedere il male in atto esistono studi di psicologia sociale e di sociologia molto accurati. Essi portano alla luce le ricorrenti strategie di negazione per accettare di convivere con il male. Stanley Cohen, nel suo libro Stati di negazione, ha analizzato quella che chiama la cultura del diniego (denial). Egli si chiede:
La rassegnazione o la volontà di non vedere non sono che un ripiego doloroso. In effetti le stesse metafisiche e le antropologie pessimiste, le quali citerebbero le strategie del diniego a conferma della validità della loro concezione, sono però confutate dall’ascolto dell’esperienza umana. Che il male sia estraneo alla costituzione del nostro essere e all’anelito più propriamente radicato nel cuore dell’umanità lo si vede da ciò: esso per noi è sofferenza, perché invece vorremmo essere liberi e armonici; è colpa, mentre vorremmo essere innocenti e giustificati; è violenza, e invece vorremmo essere al sicuro e nella pace; è morte, ma vorremmo l’immortalità, il compimento, la partecipazione a un bene irreversibile ed eterno; è insensatezza, mentre vorremmo senso e verità. E soprattutto il male è infelicità, e noi, tutti noi, vorremmo essere felici. La liberazione irreversibile da tutto questo è la salvezza.
Eppure, sebbene estraneo a ciò che è originario, non ne siamo immuni, anzi può insinuarsi molto presto in noi. Un tratto del nostro essere è proprio la vulnerabilità radicale per cui non solo soffriamo per il male subìto, ma possiamo anche dare luogo al male agito. Si comprende sin d’ora – ma riprenderò la questione nell’ultimo capitolo – che un’indagine critica sul male implica un chiaro impegno etico, una scelta di campo, anzi l’adozione della responsabilità come chiave e modo fondamentale sia del pensiero che dell’esistenza.
Non c’è pensiero critico nell’indifferenza tra bene e male, nell’illusione che capire significhi rimanere neutrali. Spiegare il male, smascherandone forme e legittimazioni, significa stabilire una distanza, che sarà man mano alimentata dallo smascheramento delle insidie di questo mortale nemico. Esso è “mascherato”, occulto e mimetico: abitualmente simula il bene, oppure si presenta come il male minore tra due vie, che in verità sono comunque rovinose. Tende a imporsi costruendo un ordine necessario cui la vita degli uomini deve obbedire e poi scompare allo sguardo oggettivandosi come dispositivo organizzativo, lasciandosi percepire semmai come se fosse un fenomeno naturale.
È sempre possibile però elaborare strategie e metodologie di identificazione e di decostruzione del male nel suo darsi storicamente determinato. Esistono in particolare alcune tradizioni della ragione critica, in questo senso, che risalgono per esempio al profetismo biblico – che muove dall’ascolto dei sofferenti e dalla memoria delle vittime –, a quelle filosofie che ascoltano il dolore dell’umanità e della natura cercandone le cause (da Kierkegaard a Schopenhauer, da Marx alla filosofia neoebraica), alla grande letteratura e all’arte in generale, sino all’avvento di quel paradigma indiziario nelle scienze umane che raccoglie e interpreta i segni della presenza del male.
Lo storico Carlo Ginzburg4 ha ricostruito la storia di tale paradigma a partire dall’opera del critico d’arte Giovanni Morelli e dalla sua tecnica di attribuzione della paternità dei quadri, elaborata negli anni tra il 1874 e il 1876. La sua tecnica consiste nello studio dei dettagli, degli aspetti trascurabili, assunti come indizi dell’identità dell’autore. Freud stesso trasporrà il significato di tali segni pittorici nel senso di indizi che sono sintomi. Emerge lungo questa linea il tipo di razionalità analitica ed euristica propria dell’indagine sul delitto.
Versioni diverse del paradigma indiziario sono offerte per esempio dal metodo della deduzione seguito da monsieur Dupin, il personaggio creato da Edgar Allan Poe nel racconto Gli omicidi della rue Morgue. A esso vanno accostati sia il metodo dell’inferenza praticato da Sherlock Holmes nei racconti di Arthur Conan Doyle – dove l’investigatore cerca l’improbabile possibile, che coincide con la verità e affiora una volta che sia stato scartato tutto quanto è impossibile –, sia il metodo dell’immersione microcosmologica nell’universo delle vite degli individui implicati in un delitto, praticato dal commissario Maigret nei racconti di Georges Simenon. Queste testimonianze narrative, rintracciabili nel romanzo giallo, attestano a loro modo l’efficacia del paradigma indiziario di concezione della conoscenza in rapporto ai fenomeni del male5.
In ogni caso la fioritura di teorie critiche registratasi nel Novecento non è riducibile a una molteplice modulazione del medesimo paradigma indiziario e piuttosto resta aperta fin dall’inizio alla prospettiva dell’incontro tra una pluralità di metodologie e di discipline: critica dell’economia politica, metodo indiziario, psicanalisi, ...