Il futuro migliore
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In difesa dell'essere umano. Manifesto per un ottimismo radicale

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In difesa dell'essere umano. Manifesto per un ottimismo radicale

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Oggi noi esseri umani siamo sotto attacco da tutti i fronti. La crisi del capitalismo globale ha lasciato campo libero alle forze arcaiche del razzismo, della misoginia e del più cieco nazionalismo autoritario. Il pianeta è febbricitante e quasi del tutto sepolto dalla sovrapproduzione di plastica e cemento. La Silicon Valley produce sempre più raffinati algoritmi che concretizzano l'incubo del controllo totale e sempre nuovi gadget che in breve realizzeranno la trasformazione dell'uomo in robot.Dobbiamo rassegnarci a essere consumatori ormai privi di volontà o macchine biologiche dal comportamento prevedibile e modificabile? Secondo Paul Mason no: possiamo ancora reagire, possiamo riprendere il controllo delle nostre vite e del nostro futuro. Mason propone una nuova forma di azione politica che unisce la tradizione dei movimenti di sinistra, l'esperienza delle lotte del nuovo millennio e la possibilità di agire sulla rete senza esserne dominati. Il suo manifesto ci invita a essere radicalmente ottimisti: dall'affrontare i troll razzisti sul web al compiere le giuste scelte quotidiane negli acquisti, dal lottare per il controllo dei nostri dati personali al costringere i governanti a promulgare leggi che liberino il potenziale positivo delle nuove tecnologie, sono molte le cose che possiamo fare per tornare a essere soggetti attivi, e non passivi oggetti delle politiche mondiali.Il futuro migliore è una chiamata alle armi per chi è deciso a resistere al monopolio delle tech companies, alla globalizzazione ultraliberista e alla politica dell'odio per le strade e sui social network. Dopo averlo letto avrete una scelta molto semplice: vivacchiare nella speranza che il vostro orticello si salvi oppure iniziare a combattere.

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Informazioni

Anno
2019
ISBN
9788865767269
PARTE TERZA

Le macchine

In mezzo a tutta l’apoteosi del nostro tempo e del secolo xix si ode in segreto un segreto disprezzo per l’esser uomo.
Søren Kierkegaard d

8. Demistificare la macchina

Nel 1602 Galileo Galilei scrisse il primo libro realmente scientifico sulle macchine. Visitando le botteghe artigiane dell’Italia rinascimentale, vedeva continuamente gente che cercava di costruire congegni che non funzionavano, né potevano funzionare. Tutti si affannavano inseguendo la stessa illusione:
[L]a credenza, che i detti artefici hanno avuta ed hanno continuamente, di potere con poca forza muovere ed alzare grandissimi pesi.1
Le persone che costruivano pulegge, pompe e mulini ad acqua all’inizio del xvii secolo pensavano che le macchine «aggiungessero» qualcosa; e ipotizzavano che fosse energia evocata dal nulla. Un contemporaneo di Galileo, Guidobaldo del Monte, scrisse addirittura che le macchine erano marchingegni per lavorare «in competizione con le leggi della natura».2
Galileo dimostrò che avevano torto. In quaranta pagine di formule matematiche spiegate in uno stile chiaro e lineare illustrò il principio fondamentale della meccanica: una macchina non amplifica la forza a essa applicata, la trasforma soltanto. Se è alimentata dal lavoro umano, per esempio un sistema di pulegge di una banchina, il lavoro che compie non può essere superiore a quello degli operai preposti al suo funzionamento.
Detta in parole povere, non esiste alcuna forza misteriosa o innaturale che opera all’interno di una macchina.
Nel 1776 toccò all’economista scozzese Adam Smith stabilire un principio altrettanto fondamentale in economia: le macchine non creano nemmeno valore. Con l’emergere dell’economia industriale, alla fine del xviii secolo, molte persone credevano che le macchine fossero una misteriosa fonte di ricchezza aggiuntiva. Credevano che il sistema delle fabbriche, combinato con una nuova divisione tecnica del lavoro, avesse in qualche modo «amplificato» il valore della produzione al di là dei suoi fattori. Smith insegnò loro che si trattava di una sciocchezza. In La ricchezza delle nazioni spiegò che è il lavoro umano la fonte di ogni valore: «Non è stato con l’oro o con l’argento, ma col lavoro, che sono state comprate in origine tutte le ricchezze del mondo».3
Le macchine amplificano la produttività del lavoro: consentono a un essere umano di esercitare forza su molti oggetti contemporaneamente, e perciò di trasformarli in modo più rapido ed economico. Ma non producono alcun valore aggiunto; semplicemente trasferiscono il valore del lavoro e delle materie prime con cui sono state fabbricate al prodotto, afferma Smith. La sua «teoria del valore-lavoro» fu il secondo grande atto di demistificazione compiuto dal pensiero scientifico durante l’era delle macchine: in economia, come in fisica, non esistono forze misteriose che operano all’interno di una macchina.
Oggi siamo di fronte a una terza recrudescenza di misticismo nei confronti delle macchine. Negli ultimi trent’anni la diffusione capillare dell’informatica e il vertiginoso calo dei prezzi di produzione a essa legato hanno incoraggiato una nuova fede nell’immaterialità dell’informazione. Parliamo di capitalismo cognitivo, lavoro immateriale, produzione virtuale, e della categoria contabile, gonfiata a dismisura, dei «beni immateriali». Così come al costruttore del xvi secolo corde e pulegge sembravano un modo per «sfidare la natura», i nostri portatili, tablet e smartphone (e le server farm che li alimentano) sembrano produrre forme immateriali di ricchezza, sfidando la scienza economica convenzionale.
L’esistenza di enormi profitti finanziari accanto alla stagnazione del Pil, le aziende valutate in migliaia di miliardi di dollari basate esclusivamente sul controllo di proprietà intellettuale, i «crac lampo» della borsa, con miliardi di dollari che si disintegrano e si ricreano nel giro di qualche microsecondo, l’ascesa di valute digitali come il bitcoin: tutto rafforza l’illusione che il valore economico sia ormai scollegato tanto dalle macchine quanto dal lavoro, e che si possa creare a piacimento.
Il mito si basa sull’idea che in qualche modo l’informazione non faccia parte della realtà materiale. È importante sfatare questo mito, perché ormai viene usato come base per sostenere l’idea che in una società dell’informazione gli esseri umani non possano essere liberi.
Un computer è una macchina. Il chip di silicio al suo interno è una macchina con miliardi di commutatori che non si muovono; una rete 4G è una macchina i cui componenti principali sono commutatori e onde radio; i sistemi cloud di proprietà di Amazon, Alibaba e Google sono anch’essi macchine. Perfino il software è una macchina e lo è anche, implicitamente, ogni singola riga di codice eseguibile.
Sul piano fisico, le macchine digitali amplificano il potere umano sulla natura, proprio come le macchine meccaniche: ci permettono di assegnare diverse altitudini d’attesa agli aerei di linea (operazione che senza computer sarebbe pericolosa), di modellare processi complessi, sintetizzare nuovi materiali, costruire e «pilotare» aerei milioni di volte prima di costruirli davvero. Inoltre, producono e riproducono informazioni su una scala impensabile prima d’ora. Questo, a sua volta, migliora la comprensione umana del mondo esterno al nostro cervello, e in certi casi arriva addirittura a fornirgli strumenti per migliorare le sue prestazioni.
Sul piano economico, proprio come è avvenuto con le precedenti innovazioni, le macchine informatiche fanno diventare a buon mercato ciò che un tempo era costoso. Per esempio, il costo del sequenziamento di un intero genoma di Dna è passato da cento milioni di dollari nel 2001 a poco più di mille dollari oggi.4 Ma il loro potenziale rivoluzionario sta nel fatto che, attraverso lo stesso processo, possono far diventare ciò che un tempo era costoso – in particolare tutte le informazioni – gratuito o abbastanza economico da rendere il suo prezzo quasi irrilevante.
La tecnologia informatica crea beni diversi da tutti quelli precedenti: possono essere copiati all’infinito a costi irrisori, fruiti da molte persone contemporaneamente e usati senza che si deteriorino.
L’esempio classico è il brano di musica digitale. Anche se ha ancora un costo di produzione definito (i compensi della band e del tecnico del suono, il costo dei microfoni, gli stanziamenti per la commercializzazione e via discorrendo), i suoi costi di riproduzione sono prossimi allo zero. Al contempo, la tecnologia digitale riduce drasticamente anche i costi di produzione, dal momento che vengono usati strumenti elettronici, insieme a console e teatri di posa virtuali ad alta definizione, per simulare le condizioni di un’ambiente reale che può andare dalla sala concerto al jazz club.
Questo effetto del «costo marginale zero» ha iniziato a riversarsi a cascata in ogni settore fisico dove l’informazione è parte del processo di produzione, creando una pressione al ribasso sul costo di produzione di beni e servizi reali. Tanto per fare un esempio, il compito di stampare parti in metallo con una pressa può essere eseguito da robot, portando così il numero di errori vicino al suo minimo statistico.5 Oppure, nel diritto commerciale, le analisi che un tempo richiedevano ore di lavoro ad avvocati esordienti oggi possono essere sbrigate in pochi secondi da un computer, lasciando ai suddetti avvocati il compito di firmare i risultati e presentare un volto umano al cliente.6
Già negli anni novanta alti funzionari come Alan Greenspan, il presidente della Federal Reserve, iniziarono a credere che l’informatica producesse qualcosa che la contabilità tradizionale non era in grado di cogliere. Una volta trasferito il software nella colonna corretta del foglio di calcolo, credevano, si sarebbe scoperto che l’informatica produce una crescita più alta. Ma non era così.
L’Ocse ha provato a inserire gli effetti in una cosa chiamata «surplus del consumatore», calcolando quanto valore aggiunto offrissero ai clienti la concorrenza sui prezzi e la trasparenza di siti come Amazon o eBay. Ma alla fine ha concluso che l’impatto maggiore la Rete lo ha avuto sulle «transazioni non di mercato», cioè quelle attività che non possono essere misurate in termini di prezzo: «Queste interazioni e impatti contribuiscono al benessere del singolo e a quello dell’intera società, ma non vengono registrati all’interno degli indicatori tradizionali della contabilità nazionale».7
Anche se si cerca di calcolare – come ha provato a fare l’ufficio nazionale di statistica americano – la «retribuzione» che una persona dovrebbe ricevere quando passa un po’ di tempo su internet nel salotto di casa, resta il fatto che quella persona non riceve nessuna retribuzione. Quando le persone sono effettivamente pagate per trascorrere alcuni decimi di secondo su internet, come per esempio sul Mechanical Turk di Amazon, la piattaforma di microlavori digitali del colosso della distribuzione, il prezzo del loro lavoro, indovinate un po’, è sottoposto a una forte pressione al ribasso ed è circa di un dollaro l’ora.8
C’è solo un’interpretazione economica che può spiegare ciò che sta accadendo ed è la teoria del valore-lavoro, come delineata da Adam Smith, David Ricardo e Karl Marx, che hanno diviso la qualità di tutte le merci in «valore d’uso» e «valore di scambio», separando rigorosamente l’utilità di un prodotto dal prezzo pagato dal consumatore. La scienza economica tradizionale dice che il prezzo «contiene» l’utilità, perché un prezzo riflette ciò che ogni singolo utente è disposto a pagare in un dato momento. La teoria del valore-lavoro afferma che il prezzo riflette soltanto la quantità di lavoro utilizzata per fabbricare il prodotto, per sfamare e vestire il lavoratore che lo ha fabbricato, per produrre le materie prime e per portare il prodotto sul mercato.
Usando questa rigorosa distinzione fra valore d’uso e valore di scambio, possiamo vedere molto chiaramente ciò che la scienza economica tradizionale non riesce a vedere, vale a dire che l’informatica consente l’espansione infinita del valore d’uso, ma tende a erodere il valore di scambio.
Se utilizzata a beneficio della società, la comparsa sul mercato di prodotti gratuiti (come software open source, standard aperti, Wikipedia e cooperative digitali) che si è registrata negli ultimi vent’anni potrebbe accrescere a dismisura il benessere della popolazione senza espandere il settore di mercato dell’economia. Si creerebbe così la possibilità di un viaggio completamente nuovo oltre il capitalismo, immaginabile a stento dai socialisti del xx secolo, un viaggio che io e altri abbiamo definito «postcapitalismo».
Detta in parole povere, l’informatica rende il socialismo utopico possibile: la comparsa di isole di produzione cooperativa destinata alla condivisione, la massiccia riduzione delle ore lavorate e l’espansione della libertà umana e dell’autoconoscenza.
I benefici della tecnologia informatica non saranno mai registrati del tutto negli strumenti tradizionali per misurare il Pil o nei principi contabili accettati a livello internazionale. Anzi, il risultato più probabile è che le tecnologie informatiche finiscano per ridurre crescita e profitti, così come vengono misurati dall’economia tradizionale, e in ultima analisi il gettito fiscale. I banchieri centrali e i ministri dell’Economia, che continuano solitari a vegliare sull’economia dell’informazione, aspettando che produca ricchezza, dovrebbero smettere di provare a misurarne gli effetti in termini monetari e capire che si tratta esclusivamente di valori d’uso: benefici umani che non sono stati forniti da nessuna interazione di mercato.
Ma non sono soltanto gli economisti a essere confusi. Negli ultimi trent’anni l’avvento dei computer ha prodotto una nuova ideologia dell’«immaterialismo» nel mondo accademico, che risulta l’equivalente nel xxi secolo, indipendentemente dal prestigio dei nomi che vi sono associati, dell’alchimia.
Negli anni quaranta, le persone che costruirono i primi computer modificarono in maniera sostanziale il nostro modo di ragionare sulla realtà, proprio come avevano fatto Galileo e Adam Smith. Anche loro iniziarono cercando di realizzare macchine migliori: Norbert Wiener progettava sistemi di controllo per cannoni antiaerei; Claude Shannon cercava di ridurre il «rumore» nelle conversazioni telefoniche; John von Neumann lavorava alla bomba atomica. Verso la fine degli anni quaranta il loro pensiero era confluito in una scienza completamente nuova, la teoria dell’informazione, che afferma che la logica matematica può essere applicata o scoperta all’interno di qualsiasi processo, dalla composizione di una sinfonia alla costruzione di un’automobile. Ne consegue che tutte le forme di comunicazione fra esseri umani possono essere ridotte a numeri, in piccoli contenitori di dimensioni uniformi, che Shannon definì «bit».
I bit possono essere usati per misurare la quantità di informazioni in modo astratto: così, per esempio, una sinfonia di Beethoven ha dimensioni pari a molte volte quelle di un romanzo di Jane Austen. In questo modo, tutte le forme di comunicazione possono essere studiate a livello astratto, permettendo di scoprire leggi universalmente osservabili attraverso variazioni molto ampie dell’attività umana, inclusi il linguaggio e il pensiero.
Accanto alla teoria dell’informazione si sviluppò una teoria specifica delle macchine digitali. Alan Turing, il progettista della macchina che decifrò il codice Enigma della marina tedesca, ipotizzò due cose che hanno già trasformato la vita umana: che fosse possibile progettare una macchina fisica per emulare un processo mentale logico tipico degli esseri umani (cioè un calcolatore); e che la sua forma ideale fosse il «calcolatore universale», una macchina in grado di...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Sommario
  3. Introduzione
  4. PARTE PRIMA Gli eventi
  5. PARTE SECONDA Il sé
  6. PARTE TERZA Le macchine
  7. PARTE QUARTA Marx
  8. PARTE QUINTA Riflessi
  9. Ringraziamenti
  10. Note