LE ORIGINI DELLA LETTERATURA LOMBARDA
Franco Brevini
1. Le origini della letteratura lombarda
Nel suo celebre intervento su Geografia e storia della letteratura italiana, a comprova della discontinuità della nostra tradizione delle Origini, Carlo Dionisotti ricordava come nel corso del Duecento nella penisola fossero riconoscibili tre aree: la zona tirrenica, dalla Sicilia alla Toscana, con un’appendice a Bologna, caratterizzata dalle correnti della nuova poesia; la fascia adriatica, dove fiorisce una produzione di tipo religioso che fa capo all’Umbria; a nord dell’Appennino e del Po, la letteratura moralistica e didattica settentrionale (Geografia e storia 35). Del resto, ricorda Dionisotti, quale più persuasivo documento del De Vulgari Eloquentia dantesco potrebbe confermare la differenziazione della cultura e della letteratura italiane del XIII secolo?
Se concentriamo la nostra attenzione sulle scriptae lombarde tra Due e Trecento, ci rendiamo conto che il quadro linguistico è caratterizzato da tre fenomeni distinti. Il primo è la coesistenza di una serie di volgari utilizzati nei maggiori centri culturali, che producono testimonianze scritte di carattere prevalentemente letterario e in misura minore documentario. Questi volgari possono di volta in volta mantenersi fedeli ai tratti dialettali e municipali, enfatizzandone nel caso le peculiarità più rilevate e contrapponendosi a vario titolo alle parlate delle realtà vicine. Ma possono anche aprirsi a influssi provenienti dalle realtà linguistiche e culturali circostanti, ovvero testimoniare uno sforzo di innalzarsi verso la soglia di un volgare civile o addirittura di uscirne in direzione di una possibile koinè, all’occorrenza perfino sovraregionale o interregionale. Inutile aggiungere che per questi volgari non si può ancora parlare di dialetti. Si tratta invece di semplici varietà municipali, che coesistono una accanto all’altra e che ancora non possono confrontarsi con una lingua egemone, per la buona ragione che essa ancora non esiste.
Il secondo elemento in gioco è la tenace persistenza del latino come lingua di cultura, che domina la stragrande maggioranza dei testi, dando prova di una vitalità e di una versatilità senza confronti. Di là dalla persistente occupazione di larga parte degli spazi della comunicazione culturale, il latino svolge anche un’altra preziosa funzione, che riguarda i volgari. Nella maggior parte dei centri dell’età medioevale la gramatica, cioè il latino grammaticalizzato della tradizione, contribuisce infatti a elevare e a normalizzare la nuova lingua volgare. Su questo piano anche al livello dell’uso è importante il ruolo svolto delle scuole, che concorrono a indirizzare gli studenti verso un volgare più prossimo al latino, esercitando un’ulteriore azione unificatrice. Si aggiunga che, a differenza da quanto avviene altrove e segnatamente in Toscana, proprio nella Lombardia del Duecento il caso fra tanti di Bonvesin da la Riva prova come latino e volgare costituissero opzioni disponibili allo scrittore, invece che scelte oppositive.
In sostanza il ricorso al latino risulta, nel suo panorama teorico, intercambiabile rispetto all’uso del volgare, che non viene mai tematizzato quale canale privilegiato di comunicazione artistica, a differenza di quanto avviene in aree connotate da un più forte senso della contrastività linguistica e del suo sfondo ideologico, quali la Sicilia e la Toscana coeve. (Bologna 116).
Grazie alle ricerche di illustri filologi come Mussafia (1983), Salvioni (1911) e Contini (1935; 1937; 1941, ed.; 1960, ed.), possediamo oggi un’immagine attendibile del milanese illustre di Bonvesin, che si presenta con i tratti di un codice anti-vernacolare, messo a punto da un «professor artis grammaticae». Vi si riconosce la memoria latina, l’influsso gallicizzante, ma anche una componente popolare, che riporta alla lingua municipale.
Il terzo elemento in gioco nella Lombardia del Duecento è costituito dalle lingue d’oltralpe: il francese e soprattutto il provenzale. Peraltro il loro prestigio tra XII e XIII secolo si estende ben oltre i confini della Lombardia, dove il caso più clamoroso è costituito da Sordello, che scrisse in provenzale la sua produzione poetica. Nel reticolo dei municipi e soprattutto delle corti padane la circolazione dei manoscritti in lingua d’oil e d’oc aveva introdotto questa importante variabile linguistica e letteraria, dando vita a testi trobadorici autoctoni degni di figurare a pieno titolo accanto a quelli d’Oltralpe. Si pensi alla cultura francesizzante di Uguccione segnalata da Broggini (17) o alla lirica occitanica e agli enuegz sperimentati da Gherardo Patecchio, per non risalire fino a Raimbaut de Vaqueiras, un poeta provenzale autore sia dei primi testi letterari ‘italiani’ attribuibili a un autore conosciuto, sia di scritti in langue d’oc, ma anche in genovese, francese, guascone, portoghese. In quest’area di «polivalenza linguistica ai fini letterari», come ha ricordato Dionisotti «il toscano di Dante non suona necessariamente più proprio del francese e del latino» (Geografia e storia 37).
Affrontando i primi documenti della tradizione lombarda dobbiamo tenere conto di un ultimo dato assai significativo. Con l’eccezione di Mantova, le testimonianze testuali delle Origini risultano quasi esclusivamente letterarie. Diversamente da quanto accade nel Veneto o in Toscana, mancano in Lombardia fonti documentarie meno formalizzate (Ciociola 141 e Bongrani e Morgana 91).
2. Tra latino e toscano
Il Duecento lombardo offre una serie di testimonianze testuali, in cui, sia pure con dosaggi variabili, si possono cogliere precise connotazioni municipali nei diversi volgari attivi sulla scena locale. Tali punte municipali sono meno accentuate nel colto Bonvesin e, per ragioni del tutto diverse e meramente comunicative, nelle lettere del mercante mantovano Boccalata da Bovis (Schizzerotto, Sette secoli di volgare e di dialetto mantovano), mentre risultano più riconoscibili nel volgarizzamento del De proprietatibus rerum di Bartolomeo Anglico disposto da Vivaldo Belcazer (Ghinassi, “Nuovi studi sul volgare mantovano di Vivaldo Belcazer”), in cui il sapore del «nostr volgar mantoan» corrisponde all’intento agiografico di un’opera dedicata al «princep».
Le cose cambiano rapidamente spostandosi nel Trecento e ancor più nel Quattrocento, quando si rileva...