Come vivremo su Marte
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Come vivremo su Marte

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La nostra prossima casa la affitteremo in un altro pianeta del sistema solare. Trascorreremo le vacanze estive sulla Luna e nelle sere d'agosto ci ritroveremo a brindare a un cocktail party in qualche catena alberghiera su Marte. Tutto intorno a noi vedremo l'infinito, il firmamento, ascolteremo la musica abissale dei buchi neri, contempleremo quella sfera sublime e ridicola che è la Terra. Dopo millenni passati ad alloggiare sulla superficie terrestre – a camminarci, a inalarne gli odori e a solcarne il cielo e i mari – l'uomo sta per cambiare dimora. Probabilmente non avverrà domani, ma è certo che in un futuro non troppo remoto questo sogno sarà alla nostra portata.Eppure, nello spazio sembra mancare tutto ciò di cui abbiamo bisogno per sopravvivere: l'acqua, la gravità, l'aria. Mancano tutte le nostre irrinunciabili comodità, come profumate toilette, cibi esotici, la possibilità di fare romantiche camminate o di contemplare la variopinta bellezza dei fiori. Come reagirebbero il nostro corpo e la nostra psiche a tutte queste privazioni? Cosa succederebbe se durante il viaggio ci trovassimo a vomitare nel nostro casco da astronauti? Se fossimo costretti per settimane a non curare la nostra igiene? Se nei lunghi viaggi a bordo delle navicelle ci fosse precluso di fare l'amore? Per dare una risposta a tutti questi quesiti le agenzie spaziali hanno allestito sulla Terra innovativi e bizzarri ambienti per simulare le situazioni più estreme: prove dure e allo stesso tempo stravaganti alle quali deve sottoporsi chiunque desideri avventurarsi nell'universo.Con il suo avvincente stile narrativo Mary Roach descrive in modo arguto, divertente e irriverente tutti i compromessi che dovremmo accettare per lasciare il nostro pianeta e andare a vivere su Marte, raccontando aneddoti e incidenti – spesso tragicomici – capitati agli astronauti mentre si trovavano a fluttuare nel cosmo. Come vivremo su Marte non è solo una sorprendente guida per la sopravvivenza nello spazio, ma un'esplorazione di ciò che significa essere umani, con i nostri limiti, le nostre fragilità biologiche e culturali. A quanta normalità sapremo rinunciare? Per quanto tempo? E come ci trasformerà questa nuova vita?

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Informazioni

Anno
2017
ISBN
9788865765777
1. È intelligente ma non si applica negli origami
Come si scelgono gli astronauti in Giappone
Prima ci si toglie le scarpe, come si fa all’ingresso di una casa giapponese. Si ricevono delle speciali pantofole per la camera di isolamento, di vernice azzurro pallido, con il logo dell’Agenzia aerospaziale giapponese – jaxa – impresso a lettere inclinate, come se schizzassero nello spazio. La camera di isolamento, una struttura indipendente all’interno del Building C-5, nel quartier generale della jaxa a Tsukuba Science City, per una settimana diventa in pratica la casa dei dieci finalisti in gara per due posizioni aperte nel corpo degli astronauti giapponese. Quando sono arrivata qui il mese scorso, non c’era molto da vedere: una camera da letto con capsule per dormire delimitate da tendine e una sala comune con un lungo tavolo da pranzo e le sedie. Più che di vedere, si tratta di essere visti. Cinque telecamere a circuito chiuso installate poco sotto il soffitto permettono a un gruppo di psichiatri, psicologi e manager della jaxa di osservare i candidati. Sarà in larga misura il loro comportamento – e le impressioni che la commissione ne ricaverà durante la loro permanenza – a determinare la scelta dei due candidati che sfoggeranno il logo jaxa sulla tuta spaziale, anziché sulle pantofole.
L’idea è quella di comprendere appieno chi sono questi individui e quanto si adattano alla vita nello spazio. Una persona intelligente ed estremamente motivata può nascondere i tratti indesiderati del suo carattere in un’intervista* o in un questionario (la combinazione dei due strumenti consente di scartare i candidati con evidenti disordini di personalità), ma non è così facile se si resta sotto osservazione per una settimana. Come dice lo psicologo della jaxa Natsuhiko Inoue, «È difficile essere sempre una brava persona». Nelle camere di isolamento si giudicano anche l’attitudine al lavoro di squadra, la leadership e la capacità di gestire i conflitti, cose che non possono essere valutate in un colloquio (la nasa invece non usa questo tipo di test).
La sala di osservazione è proprio sopra la camera. È mercoledì, terzo giorno della settimana di isolamento. Una fila di televisori a circuito chiuso si para davanti agli osservatori, seduti a lunghi tavoli con i loro quaderni e le tazze di tè. Tre di loro, psichiatri e psicologi accademici, sono qui ora e fissano la tv come clienti di un grande magazzino indecisi sull’acquisto. Inspiegabilmente, c’è un monitor che trasmette un talk show.
Inoue siede al pannello di controllo, con i comandi per lo zoom, i microfoni e un’ulteriore fila di piccoli schermi proprio sopra la sua testa. A quarant’anni, è un uomo di successo, ampiamente rispettato nel settore della psicologia spaziale, eppure qualcosa nel suo aspetto e nel suo comportamento fa venire voglia di dargli un pizzicotto sulla guancia. Come molti dipendenti di sesso maschile, indossa ciabatte e calzini. Da americana, non ho profonde conoscenze sull’impiego delle ciabatte nei luoghi di lavoro, ma mi pare indicativo del fatto che Inoue si senta a casa, qui alla jaxa. Comprensibile, visto che questa settimana il suo turno inizia alle 06.00 e termina appena dopo le 22.00.
Ora è inquadrato uno degli aspiranti astronauti, che estrae da una scatola di cartone una pila di buste da 23 × 28 cm, tutte etichettate con la lettera identificativa di ciascun candidato, dalla A alla J. Contengono un foglio di istruzioni e un pacchettino piatto e quadrato avvolto nel cellophane. Inoue dice che sono i materiali per un test che misura la pazienza e la precisione sotto pressione. I candidati aprono i pacchetti ed estraggono dei quadrati di carta colorata. «Il test contiene… Mi dispiace, non so la parola in inglese. È una creazione di carta.»
«Origami?»
«Origami, sì!» Oggi ho usato il bagno per gli handicappati, sul muro c’era un pannello pieno di leve, pulsanti e catenelle. Sembrava la cabina di pilotaggio dello Space Shuttle. Ho tirato una catena per azionare lo sciacquone ma è scattato l’allarme di chiamata soccorso. Ecco, ho fatto la stessa faccia che sto facendo ora: Cioè?! Per un’ora e mezza, questi uomini e donne che si contendono il posto di astronauta nel corpo giapponese, questi eroi nazionali, staranno qui a costruire gru di carta.
«Mille gru.» Shoichi Tachibana, capo ufficiale medico della jaxa, si presenta. È in piedi dietro di noi, in silenzio. Tachibana si avvicina con il test. Secondo la tradizione giapponese, chi realizza mille gru di carta avrà in dono salute e longevità (a quanto pare, il dono è trasferibile e le gru, inanellate su un filo, vengono in genere regalate ai pazienti negli ospedali). Dopo un po’, Tachibana posa una perfetta gru gialla, poco più grande di una cavalletta, sul mio tavolo. Più tardi, un piccolo dinosauro appare sul braccio del divano all’angolo. Tachibana sembra uno di quei cattivi dei film horror che si intrufolano nella casa del protagonista e gli lasciano un piccolo origami a forma di animale, che è il loro inquietante biglietto da visita da cattivi, solo per fargli sapere che sono stati lì. Oppure è solo uno a cui piacciono gli origami.
I candidati hanno tempo fino a domenica per completare le gru. I foglietti quadrati sono sparsi sul tavolo, la vivacità dei colori illumina il grigiore della stanza. Oltre all’architettura squadrata e ai razzi nelle aiuole, la jaxa è riuscita a riprodurre esattamente lo stesso grigioverde degli edifici della nasa. È una sfumatura che non ho visto da nessun’altra parte e in nessuna marca di vernici, eppure eccola qui.
La genialità del test delle mille gru sta nel fatto di creare una testimonianza cronologica del lavoro di ciascun candidato. Man mano che realizzano le loro gru, i ragazzi le inanellano in lunghi fili di tessuto che, al termine dell’isolamento, verranno prelevati e analizzati. È scienza forense applicata all’origami: le creazioni diventano più sciatte man mano che la scadenza si avvicina e la pressione aumenta? Le prime dieci gru sono diverse dalle ultime? «Il deterioramento dell’accuratezza è un segno di insofferenza in condizioni di stress» spiega Inoue.
Mi è stato detto che il 90 per cento di una tipica missione sulla Stazione Spaziale Internazionale (iss) consiste nel montare, riparare o fare manutenzione della navicella. Tutto lavoro meccanico, svolto in gran parte mentre si indossa una tuta pressurizzata con una scorta di ossigeno limitata, come una bomba a orologeria. L’astronauta Lee Morin ha descritto il suo contributo all’installazione del segmento centrale dell’intelaiatura della iss, l’asse portante a cui sono attaccati i vari moduli-laboratori: «Si regge con trenta bulloni. Io ne ho personalmente avvitati dodici» (aggiunge subito: «Quindi fanno due anni di studio a bullone!»). Nel laboratorio dove si progettano le tute spaziali, al Johnson Space Center, c’è una cassetta in cui si riproduce il vuoto dello spazio e si gonfiano i guanti pressurizzati. All’interno si trovano i moschettoni e il cavo che lega astronauti e relativi attrezzi alla stazione spaziale quando sono fuori. Usarli è come distribuire delle carte da gioco indossando i guanti da forno. Solo chiudere il pugno per qualche minuto è un’operazione stancante. Non è roba per chi perde la pazienza facilmente e manda a gambe all’aria un’operazione.
Passa un’ora. Uno degli psichiatri ha smesso di guardare i candidati e ha rivolto la sua attenzione al talk show. Stanno intervistando un giovane attore, gli chiedono del suo matrimonio e che tipo di padre spera di essere. I candidati sono chini sul tavolo e lavorando tranquilli. Il candidato A, un ortopedico appassionato di aikido, è in testa con quattordici gru. Quasi tutti gli altri ne hanno fatte sette o otto. Le istruzioni sono lunghe due pagine. La mia interprete Sayuri sta piegando il foglio di un quaderno. È al passaggio 21, quello in cui si gonfia il corpo della gru. C’è il disegno di un «soffio» accanto a una freccia che indica la gru. Può capirlo solo chi sa già cosa fare. Per tutti gli altri è un’opera surrealista: inserire una nuvola all’interno di un uccello.
È difficile, ma piacevole, immaginare John Glenn o Alan Shepard che si applicano nell’antica arte dell’origami. I primi astronauti americani venivano selezionati in base al carisma e al fegato. Tutti e sette gli astronauti della Mercury, come da requisiti, erano, o erano stati, piloti collaudatori. Uomini che per lavoro rompevano la barriera del suono e superavano record di altitudine senza svenire o schiantare a terra, alla guida di caccia lanciati a velocità folle. Fino all’Apollo 11, ogni missione segnava un primato importante per la nasa. Primo viaggio nello spazio, prima orbita, prima passeggiata spaziale, prima manovra di attracco, primo allunaggio. Le imprese da pelle d’oca erano la norma.
In seguito le missioni e l’esplorazione dello spazio diventarono più routinarie. Noiose, addirittura. «La cosa più buffa capitata sulla Luna? Neanche una» scriveva l’astronauta dell’Apollo 17 Gene Cernan. «Avrei dovuto portarmi dei cruciverba.» La chiusura del programma Apollo segnò il passaggio dall’esplorazione alla sperimentazione. Gli astronauti restavano all’interno dell’atmosfera terrestre, assemblavano laboratori scientifici orbitanti, lo Skylab, lo Spacelab, la mir, la iss. Conducevano esperimenti a gravità zero, lanciavano satelliti per le comunicazioni e per il Dipartimento della difesa e installavano nuove toilette. «La vita sulla mir era per lo più routine» racconta l’astronauta Norm Thagard alla rivista di storia spaziale Quest. «Il problema principale era la noia.» Mike Mullane sintetizzò la sua prima missione spaziale sullo Space Shuttle con queste parole: «Schiacciavo un paio di interruttori per lanciare dei satelliti per le comunicazioni». Ci sono ancora delle prime volte, e la nasa le elenca con orgoglio, ma non fanno notizia. Tra le novità della missione shuttle sts-110, per esempio, c’era «la prima volta in cui tutte le passeggiate spaziali dell’equipaggio partivano dal Quest Airlock della stazione». La «capacità di tollerare la noia e bassi livelli di stimolazione» è uno dei requisiti elencati su un documento risalente all’era dello Space Shuttle, elaborato dal team della nasa preposto alla valutazione psichiatrica e psicologica degli astronauti.
Oggi il lavoro dell’astronauta è suddiviso in due categorie (tre, se si conta lo specialista del carico utile, categoria di cui fanno parte anche insegnanti, senatori sfaccendati,* e principi sauditi spendaccioni). I piloti astronauti sono quelli ai comandi. Gli specialisti di missione si occupano degli esperimenti scientifici, delle riparazioni e del lancio dei satelliti. Sono il meglio del meglio, le menti più brillanti, ma non necessariamente i più coraggiosi. Si tratta di medici, biologi, ingegneri. Di questi tempi, un astronauta può essere un eroe o un nerd (gli astronauti della jaxa a bordo della iss sono finora stati classificati come specialisti di missione della nasa. La iss include un modulo di ricerca della jaxa, chiamato Kibō). L’aspetto più stressante della vita di un astronauta, mi ha detto Tachibana, non è diventarlo, ma non sapere se e quando si otterrà un incarico di volo.
La prima volta che ho parlato con un astronauta, non conoscevo la differenza fra pilota e specialista di missione. Immaginavo tutti gli astronauti come nel filmato dell’Apollo: icone senza volto dietro le visiere dorate, che balzano come antilopi nella debole gravità della Luna. Dovevo incontrare Lee Morin. Lo specialista di missione Morin è un omaccione pacato, cammina con un piede in dentro e, quel giorno, indossava pantaloni di cotone, scarpe marroni e una camicia hawaiana decorata con barche a vela e fiori di ibisco. Mi ha raccontato cos’ha fatto per testare un lubrificante per lo scivolo d’emergenza della rampa di lancio dello Space Shuttle. «Ci hanno fatto chinare e ci hanno spalmato il sedere col lubrificante, poi siamo saltati sullo scivolo. Ha funzionato, così [la missione] è potuta proseguire costruendo la stazione spaziale. Ero orgoglioso» ha aggiunto impassibile «di aver fatto la mia parte per la missione.»
Mi ricordo che ho guardato Morin allontanarsi, con quel suo passo tenero e il suo sedere che era stato lubrificato in nome della scienza, e che ho pensato: «Oh mio Dio, sono persone normali».
I finanziamenti della nasa dipendono da questa mitologia grandiosa. L’immaginario forgiato dalle missioni Mercurio e Apollo non è mai cambiato. Nei poster ufficiali della nasa gli astronauti sono quasi sempre ritratti con lo scafandro e il casco in grembo, come se da un momento all’altro lo studio fotografico del Johnson Space Center potesse inspiegabilmente depressurizzarsi. In realtà, forse appena l’1 per cento della carriera di un astronauta si svolge nello spazio, e solo l’1 per cento richiede la tuta pressurizzata. Quel giorno, Morin era nei paraggi in qualità di membro del Cockpit Working Group (Team di lavoro della cabina di pilotaggio) della capsula Orion. Dovev...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Sommario
  3. Introduzione
  4. Capitolo 1
  5. Capitolo 2
  6. Capitolo 3
  7. Capitolo 4
  8. Capitolo 5
  9. Capitolo 6
  10. Capitolo 7
  11. Capitolo 8
  12. Capitolo 9
  13. Capitolo 10
  14. Capitolo 11
  15. Capitolo 12
  16. Capitolo 13
  17. Capitolo 14
  18. Capitolo 15
  19. Capitolo 16
  20. Ringraziamenti
  21. Cronologia
  22. Bibliografia