Darling Days
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Darling Days

  1. 488 pagine
  2. Italian
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Informazioni sul libro

Lower East Side, New York, anni ottanta. Un quartiere frastornato dall'eroina e dall'alcolismo, brulicante di senzatetto, delinquenti e relitti umani, ma anche di scrittori anticonformisti, artisti squattrinati, musicisti bohémien e poeti improvvisati. È qui che cresce iO, con una madre single – attrice e ballerina in preda ai demoni della nevrosi e della dipendenza –, capace di un amore incondizionato ma non di provvedere al suo sostentamento, e un padre assente, perennemente in viaggio per l'Europa.A sei anni, dopo essere stata respinta da un gruppo di ragazzini che giocano a palla, iO, bambina dal nome bizzarro ispirato al satellite di Giove, decide di non voler più essere una «lei» e per otto anni, con il pieno appoggio dei genitori, fa credere a tutti – i maestri, i compagni di classe e i registi con cui lavora come piccolo attore – di essere un maschio. Solo da quattordicenne, dopo la dolorosa fuga da una madre sempre più instabile e negligente e il trasferimento in Germania dal padre, iO riabbraccia la femminilità, che porta con sé la scoperta dell'attrazione sessuale, di una vitalità inarrestabile, dell'innamoramento.Darling Days è l'intima autobiografia di un giovane «essere umano ibrido» – come ama definirsi iO, oggi artista e attivista –, sincero prima di tutto con se stesso, che ci parla di libertà, coraggio e ribellione; una riflessione potente sulla fluidità delle identificazioni di genere e degli orientamenti sessuali, sul modo in cui gli istinti ci forgiano e le norme ci deformano. La testimonianza tormentata, e insieme candida ed esilarante, di una persona capace di ascoltarsi nel profondo, fino a rifiutare ogni categoria ed etichetta e credere soltanto in ciò che può essere sentito e vissuto.

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Informazioni

Anno
2016
ISBN
9788865765524
Argomento
Art

PARTE PRIMA

Eredità

Lei

1. La pistola di Babygirl

13a Strada, New York City, 1982
Le disse che le aveva dato la sua piccola pistola perché era di classe ed elegante, come lei. Una lega femminile di metallo e madreperla. Letale, come lei. La teneva sotto il cuscino «per ogni evenienza».
Il suo letto era, è, e sempre sarà, sotto una finestra aperta, questo in particolare si affaccia sulla 3a Avenue. Nel 1981, il suo cuscino farciva un tramezzino testa-pistola, oggi invece non usa il cuscino.
Al tempo si legava i riccioli mozzafiato, biondi ossigenati, in una coda di cavallo quando dormiva, sempre con il suo uomo, Billy. Sotto una pila di coperte in inverno e sudando nuda in estate, ma sempre con il suo uomo.
La finestra restava a bocca spalancata come un fedele babbeo, battuta dal sole o sbavata di pioggia; la bocca non si chiudeva mai. La finestra restava aperta.
Il mondo di mia madre era un tumulto di improvvisazioni, tutto un flusso, nulla di prevedibile tranne la finestra aperta e la radio accesa. Ritmi nell’aria. «Vita! Nell’aria!» diceva. Resta accesa. Fermava l’interruttore con lo scotch. Nessuno tocca la radio di Babygirl.
Più avanti, avrebbe detto che non c’è mai stata una pistola in casa. Lo avrebbe giurato, come una donna di mafia, accecata dalla passione o dalla lealtà. In ogni caso non era la pura verità. C’era una pistola sotto il cuscino. Se lui l’abbia tirata fuori prima che gli sparassero, nessuno lo sa.

Loro

2. Nascita

3a Strada tra la 2a Avenue e la Bowery, fine estate 1985
C’era la luna piena, l’ultima notte di agosto del 1985. Mia madre ha detto a mio padre di accendere la telecamera perché il bambino stava per arrivare.
Fuori c’era una caldo appiccicoso, quel tipo di aria che si addensa. Ha guadato la città in direzione nord attraverso la gelatina calda, fino a una piscina a Hell’s Kitchen.
Due settimane prima, con una pancia grande come una palla da basket, aveva posato in bikini nella sauna russa per una giovane fotografa che le aveva detto che il nuoto era la cosa migliore per ammorbidire le anche prima del parto. Mia madre aveva nuotato ogni giorno, da allora.
Il suono viaggia diversamente in estate. I clacson sono più acuti, le urla perforanti e i fischi durano il doppio, seguendo per vari isolati le tracce sinuose dei fondoschiena in shorts cortissimi. A metà degli anni ottanta, le luci della strada sulla 9a Avenue tremolavano sui marciapiedi ingombri di spazzatura, bancarelle di fruttivendoli e corpi riversi dei tossicomani, abbracciati al cemento, con le costole affilate esposte al calore.
Tre corsie di fanali tagliavano l’oscurità, veniva da pensare ai fumetti di Dick Tracy, per gli infiniti loschi passaggi di mano negli ingressi, pupille dilatate da migliaia di euforie sintetiche, ragazzi dell’uptown con completi Brooks Brothers e orecchini di perla per i quali venire a Hell’s Kitchen significava venire nei «bassifondi» a rimediare un po’ di roba. I fasci di luce illuminavano da dietro una flotta di muscolose prostitute trans, che vacillavano avanti e indietro sui loro tacchi dodici tra una marchetta e l’altra. Tenevano i taglierini nelle giarrettiere, caso mai nella notte qualcuno di quei dementi figli di puttana avesse deciso di lasciarsi sopraffare dal senso di colpa cristiano dopo essere venuto sulle loro minigonne. Alta quasi un metro e ottanta e larga di spalle, gli occhi arrossati dal cloro, Rhonna si mimetizzava perfettamente tra la fauna locale.
Hanno inventato il termine glamazzone per donne come mia madre. Grace Jones aveva la stessa severità e statura. Mescolate una parte di unicorno, tre di bufera, due di toro ferito e otterrete un’approssimazione delle vibrazioni emanate da mia madre. Una tigre selvatica avrebbe la peggio in un combattimento. Capelli biondi decolorati lunghi fino al mento, occhi di un azzurro cristallino. La testa scolpita come le spalle, tutta ossa e linee dritte, il viso ancorato intorno a un profilo greco-romano che si tuffa su labbra purpuree, piene e dai contorni ben disegnati, che celano denti così bianchi che li chiamiamo i suoi tasti del pianoforte. I suoi muscoli si avvolgono intorno a spalle slanciate come cavi d’acciaio, avanza di petto, come un guerriero indigeno, le mani che sembrano create per stringere una spada in battaglia.
Gli anni settanta e ottanta erano anni primitivi a New York, tempo di rapine, droghe, stupri, quindi una modella professionista con una predilezione per le minigonne e i jeans attillati doveva anche mostrare i denti. Aveva imparato a lanciare uno sguardo da far pisciare sotto qualunque uomo. Una volta, trasportando attraverso Midtown un tubo del neon rotto, finì per agitarlo contro dei ragazzi di strada come se fosse una lancia appuntita.
Ma quella sera mia madre era rallentata, vulnerabile, tutt’al più aggressiva. Sembrava un’adolescente con uno zaino portato davanti, perché oltre alla pancia era cresciuto poco altro, durante la gravidanza. I capelli erano pettinati all’indietro, la pelle luminosa e radiosa, come succede alla donne gravide, con un naso affilato e una testa di riccioli biondi sciolti come quelli di Alessandro. I suoi jeans Daisy Dukes rosso brillante non si chiudevano da settimane, così li indossava senza chiudere la cerniera e arrotolati in basso. L’abbigliamento premaman non era penetrato nel suo universo.
Mentre camminava verso una Times Square affollata di spogliarelli a 25 centesimi e prostituti in attesa del paparino con cui fare notte, un ambulante si era sporto dal chiosco e aveva detto: «Mio Dio, non ho mai visto niente di più bello!».
I miei genitori vivevano in un isolato a quel tempo malfamato: la 3a Strada tra la 2a Avenue e la Bowery, un indirizzo oggi innocuo. Il groviglio incrostato di sangue di aghi usati e pipe da crack, la melma di avvilimento, rifiuti e omicidi, le mostruose tracce di povertà tra le grinfie di questi appartamenti di merda: tutto è stato candeggiato e ripulito da tempo.
I miei genitori e il loro mondo erano lì prima dello scintillante negozio 7-Eleven e dei brunch speciali da trenta dollari, a sciallarsela con i loro jeans a vita alta, colletto sollevato, capelli cotonati, sparando rap e jazz e no wave dai loro stereo portatili. Prima che l’East Village fosse conosciuto come «il quartiere universitario», dovevi chiamare il tuo spacciatore dalla cabina telefonica e urlare alle finestre per farti aprire. Il Bowery Hotel, ora un fascinoso pied-à-terre per i fine settimana delle attrici cinematografiche, era una volta un benzinaio aperto 24 ore su 24 che serviva vindaloo radioattivi in piatti di polistirolo a mia madre nel cuore della notte. Due cani spelacchiati pascolavano tra le pompe, così sporchi e incrostati di residui dei gas di scarico che il pelo di uno era diventato verde e l’altro blu.
La strada non era uno scherzo neanche all’inizio del secolo precedente, quando gli immigrati si ammassavano negli appartamenti, sei per stanza. Ma nel 1985, perfino con la città sul lastrico e nel caos, in coda all’epoca punk, e nel cuore dell’epidemia di Aids e crack, la 3a Strada si distingueva per il livello di raffinatezza della violenza, per la caleidoscopica follia.
Proprio di fronte al nostro palazzo c’era il più grande centro accoglienza di New York, che aveva trasformato l’isolato in un approdo di senzatetto da tutto il paese, il buco infetto in cui iniettare tutti i tossici, i vagabondi, i matti della nazione, la Ellis Island dei pazzi criminali. L’America aveva mollato i suoi pazienti psichiatrici da un decennio e li aveva ripartiti tra gli scarti della società – i falliti, i dannati, gli abbandonati – e questa miscela tossica, rigettata da ogni cortile del paese, veniva spedita in stile container di spazzatura e scaricata sulla nostra via, trasformandola nel luogo in cui far marcire ogni testa di cazzo da qui al Texas. L’esito era uno stato di permanente tumulto di basso profilo.
Mia madre guardava fuori dalla finestra la folla che brulicava come tante formiche sovralimentate, e diceva: «Guardateli. I disadattati non diagnosticati d’America. Devono medicarsi da sé per sopravvivere, e tutto quello che possono usare sono botte di roba, di crack, di Night Train».
E molti non sopravvivevano. Di notte c’erano così tanti senzatetto che dormivano spalla a spalla che si riusciva a malapena a vedere il marciapiede. Ogni tanto, al mattino, un’ambulanza veniva a prendersi qualche «dormiglione», lasciando una silhouette grigia sul cemento dove la carcassa aveva drenato.
All’angolo opposto al benzinaio, l’Esercito della Salvezza aveva allestito una casa famiglia per ragazzi delinquenti, una specie di rifugio per casi senza speranza, che fungeva da scuola di preparazione alla vita sul lato opposto del marciapiede. Ogni settimana, una volante della polizia si fermava sul marciapiede e due ufficiali scortavano un ragazzo fuori dall’edificio in manette, inchiodato per aver rapinato e violentato una turista giapponese in una tromba delle scale da qualche parte.
Per arricchire il quadro, una via più a est c’erano i quartier generali e il circolo dei famigerati Hells Angels, che di tanto in tanto si abbattevano sulla strada, trenta per squadra, con le loro moto senza marmitte, facendo del loro meglio per provocare una rissa.
Il Quattro luglio di ogni anno, gli Angels facevano saltare in aria l’isolato. Una bandiera alta due piani veniva issata dal lato nord al lato sud della strada, vibrando sulle frequenze lancinanti dell’heavy metal psicotico che sparava dagli altoparlanti ammassati alle finestre del circolo. Un anno un razzo M-80 esplose in un cestino della spazzatura chiuso, e un triangolo di shrapnel galvanizzato squarciò il collo di un ragazzino portoricano del quartiere, uccidendolo sul colpo.
La polizia faceva il possibile per restare lontana almeno quattro isolati da quello che definivano «il buco del culo del mondo». Noi lo chiamavamo casa.
Tre mesi e mezzo prima della sua nuotata a Hell’s Kitchen, in un appartamento con vista sul miasma, mia madre era sveglia, alle due del mattino, intenta a cucinarsi qualcosa. Aveva fatto esercizi come un’ossessa nelle ultime due settimane, provando a buttare giù quell’ostinata piccola pancetta che le era spuntata in vita. Mio padre, fissandola nell’oscurità, la vide avvolgere la pancia con la mano sinistra, e capì all’istante. Era ritratto in migliaia di affreschi e pale d’altari, quel naturale gesto materno, così pieno di grazia.
«Rhonna, sei incinta. Avremo un bambino.»
Fuori dal contesto, questo potrebbe sembrare un momento di dolcezza, il meraviglioso sviluppo del rapporto tra due giovani innamorati, forse impazienti di iniziare una famiglia, di realizzare qualche fantasia da staccionata di legno. Permettetemi di chiarire il fraintendimento: i miei genitori erano semplicemente arrapati, negli anni ottanta. Infatti, se proprio vogliamo procedere a tentoni nell’oscuro armadio delle colpe esistenziali, io punto il dito contro la vasca da bagno. Un sacco di relazioni, e probabilmente molti figli degli anni ottanta, si potrebbero far risalire alla vasca da bagno delle case popolari.
Lasciatemi spiegare: entrando in un appartamento di una vecchia casa popolare, l’ingresso si affaccia direttamente s...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. PARTE PRIMA
  3. PARTE SECONDA
  4. Ringraziamenti