Il suono di una sola mano
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Il suono di una sola mano

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Informazioni sul libro

Da Lotta Continua a Macondo a Saman, dalla lotta di classe alla lotta alle dipendenze alla lotta alla mafia, dal rosso del comunismo all'arancione di Osho, dal Nord al Sud, da Torino a Trento a Palermo, da Pune a Milano, da Trapani fino alle stelle dove certamente il suo spirito scintilla. Le mille vite di Mauro Rostagno.

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Informazioni

Anno
2011
ISBN
9788865761298
Categoria
Criminologia

1. 26 settembre 1988, un lunedì

No Mauro, a scuola non ci voglio andare oggi, 26 settembre 1988.
Capita a quindici anni, soprattutto se fuori c’è il sole e vivi in un baglio, tra campi, ulivi e animali.
Saranno state le 8, eravamo svegli già da un po’. Eravamo fuori, nel parcheggio, tu ti sei arrabbiato, mi hai detto che a scuola dovevo andarci, poi sei salito sulla Duna e sei andato a Radio Tele Cine.
Sapevi che non ti avrei dato retta, che sarei rimasta a casa.
Sei tornato a pranzo per mangiare con Chicca, voi due soli, come al solito, seduti sulle poltrone del nonno. Avete mangiato pomodoro e mozzarella e bevuto il succo di carota che Chicca ti preparava sempre, e avete ascoltato il telegiornale. Dall’estate ti eri messo in testa di mangiare meno, per togliere un po’ di pancetta.
A tavola le hai parlato degli scandali di Marsala, delle cose pazzesche che stavano succedendo, della tua inchiesta.
Poi tra una chiacchiera e l’altra è arrivato il momento di andare.
Ti ho incrociato per caso nel parcheggio.
Quel momento è impresso nella mia memoria. Solo due metri ci separavano. Ci siamo guardati negli occhi. Ho ancora il tuo sguardo dritto nel mio. Tu, vestito di bianco, hai passato la lingua per un attimo sull’angolo delle labbra, come facevi spesso. Hai continuato a guardarmi e io ho continuato a guardare te. Potevamo fare pace. Potevamo parlare, o avvicinarci. Non l’abbiamo fatto. Chicca lo dice sempre che ci assomigliamo. Orgogliosi. Permalosi che siamo.
Basta, chiudere tutto, è ora di andare a cena.
Sono le 19.50 di lunedì 26 settembre 1988. Mauro Rostagno sta per uscire da Rtc, la televisione locale di Trapani, dove lavora da quasi due anni. Ogni sera racconta ai trapanesi quello che succede in città e in regione. Lo fa senza chinare mai la testa giù per leggere, ma guardando fisso la telecamera. Può farlo perché la notizia la conosce a memoria; non la trova scritta su un foglio ma la cerca per strada. Di giorno esce con le telecamere, filma i cumuli di rifiuti, scopre palazzi di giustizia deserti, svela inghippi sulla sanità pubblica, legge le inchieste della magistratura. E alla sera la notizia è sua.
«Ho scelto di non fare televisione seduto dietro a una scrivania, ma in mezzo alla gente, con un microfono in pugno mentre i fatti succedono. Sociologicamente si chiama “primato dell’esistenziale sul teorico”: e già questo è profondamente antimafioso» ha scritto una volta a Renato Curcio, suo amico ai tempi del ’68 a Trento.
Tre giorni fa ha ricevuto una lettera anonima: una fotocopia di un documento con l’intestazione «Tribunale di Marsala» indirizzato a Elio Licari, presidente dell’Ente Teatro del Mediterraneo, che organizza festival nell’isola di Mozia.
Sopra c’è scritto a matita: «E adesso, se hai coraggio, di’ pure questo». Mauro Rostagno il coraggio ce l’ha e il 24 settembre ha raccontato tutto in tv: una spesa di quasi due miliardi per un breve ciclo di spettacoli, per il progetto «Mozia ’88», parte dei quali sembrano finiti sui conti correnti di alcuni amministratori; e, visto che ci siamo, una battuta sulla chiusura dell’Ente Fiera vini, che promuove l’immagine del vino marsalese, e un’altra su un concorso truccato per l’assunzione di vigili urbani.
Dopo aver registrato l’editoriale contro gli assassini del giudice Antonino Saetta e di suo figlio Stefano, ammazzati poche ore prima sulla strada tra Canicattì e Agrigento, Mauro Rostagno saluta il suo collega Ninni Ravazza ed esce con Monica Serra, venticinque anni, capelli corti e rossi, che vive nella comunità Saman e da una settimana, in base a un programma terapeutico di reinserimento per tossicodipendenti, lavora con Mauro a Rtc.
Rtc è in contrada Nubia, a Paceco, in via Garibaldi. È un capannone isolato, attorno ci sono grandi distese di erba ed eucalipti.
Mauro Rostagno e Monica Serra salgono sulla Duna bianca e partono. Anche stasera si è fatto tardi e per arrivare alla comunità Saman, a Lenzi di Valderice, devono percorrere dodici chilometri. Fanno la solita strada.
Stamattina l’Italia ha spostato le lancette indietro ed è già buio. Mauro e Monica proseguono, prendono la Provinciale verso Trapani. Sia sul lato sinistro che sul destro ci sono le saline, ma si vedono ben poco; stanno lì dai tempi dei fenici ma i trapanesi non ci fanno molto caso. È l’abitudine.
Probabilmente neanche Mauro e Monica si soffermano sulle saline. C’è da parlare di lavoro, dell’ultimo servizio, dei fatti di Marsala. Attraversano un ponte e si incamminano verso Villa Rosina. Lì giù, sotto quel ponte, anni dopo, qualche giovane trapanese avvezzo ai murales prenderà le saline come chiave per un aforisma uggioso; con uno spray nero scriverà a caratteri cubitali SULU CU NASCE IN MEZZ’U SALE CONOSCE L’AMARO.
Mauro e Monica vanno avanti. Ora attorno ci sono vecchi palazzi e palme basse, poi c’è una rotonda. Osserva la scena il monte Erice, imperioso, a un palmo di naso. È impossibile non notarlo. Te lo senti addosso, come se potesse crollare da un momento all’altro.
Mauro guida e si volta per un attimo a guardarlo, poi torna subito con gli occhi alla strada, bisogna svoltare.
Continuano, girano a destra, fanno la salita, passano per via Viale, svoltano alla chiesa di San Giuseppe, la chiesa rossa. Seduta sui gradini c’è una ragazzina. «Ma è Kusum?» chiede Mauro.
No, non è Kusum. Kusum, cioè sua figlia Maddalena, è a casa che lo aspetta.
I due si immettono nell’unica strada per la comunità. La via passa davanti a una dozzina di case, alcune abitate, altre di villeggiatura. A incrementare l’effetto dell’ora legale ci si mette anche un blackout. È buio, troppo buio. Mauro Rostagno e Monica Serra proseguono. Ora sono vicini. Vicinissimi, solo cinquecento metri. All’improvviso un colpo. Due, tre. Frantumano i vetri posteriori. Colpiscono Mauro; lo colpiscono alla schiena e al torace.
«Stai tranquilla, non ti preoccupare, stai giù» dice Mauro a Monica. Sono fermi, immobili, Mauro è ferito, Monica è nascosta sotto la plancia.
Sono in preda agli assassini.
Il fucile Breda calibro 12 è puntato su Mauro Rostagno, 46 anni. S’inceppa, scoppia un pezzo della bascula. Ma gli assassini hanno anche una pistola calibro 38. Gliela puntano alla testa e sparano ancora.
Ero in camera di Chicca, sdraiata sul letto. La stavo aspettando per farmi aiutare in matematica. Ho sentito degli spari in due scariche, ma non ci ho fatto caso. Ci ho pensato dopo. In campagna ogni rumore, anche quello degli spari, sembra naturale. Poteva essere un cacciatore che voleva allontanare i cani, a volte succede. All’improvviso il portone del Gabbiano, la parte più antica del baglio, si è spalancato. Ho sentito qualcuno che gridava «Chicca, Chicca». Non ricordo chi fosse. Mi sono affacciata per dire che mia madre era in ufficio.
Poi sono uscita, qualcuno è venuto a prendermi e mi ha presa per mano.
«Mauro ha avuto un incidente» mi hanno detto.
«Portatemi da loro, da Mauro e Chicca» ho detto. Andrea, un ragazzo della comunità, ha detto «Non ti muovere» e mi ha tirato una sberla. Poi ho sentito l’ambulanza, vicino, molto vicino, e poi anche le urla di Chicca.
Vi ho raggiunti in strada, nel buio. Chicca è venuta verso di me, dietro di lei alcuni carabinieri. Ci siamo abbracciate. Mi ha accarezzato e mi sono accorta che aveva le mani sporche di sangue. Né io né lei ricordiamo bene cosa ci siamo dette, come me l’ha detto. Di sicuro mi ha chiesto se volevo vederti, io le ho risposto di no. Poi i carabinieri l’hanno portata subito in caserma, a Napola. Mi sono seduta a terra sul vigneto davanti all’ufficio e dopo poco ho deciso che volevo raggiungerla a piedi. Mi hanno accompagnato due ragazzi della comunità, fuori c’era un po’ di gente, alcuni in divisa e altri no, mi sembra che qualcuno tenesse un faretto in mano per fare luce.
Non mi sono girata verso la macchina, ho continuato a guardare dritto, nel buio.
Per strada abbiamo incontrato Paolo, un muratore che era spesso in comunità per fare lavori. Ci ha dato un passaggio.
Arrivata in caserma, mi hanno indicato una stanza in fondo al corridoio. C’erano Chicca e Monica, sedute su una panchina, guardavano la televisione e mi davano le spalle. È solo in quel momento che ho realizzato. Il conduttore del tg parlava e sullo schermo andavano in onda le tue foto. Solo in quel momento ho realizzato. Ti avevano sparato.
La mattina dopo, appena ho aperto la porta della mia stanza, ho visto da lontano una persona seduta sui gradini dell’ufficio con un enorme cappello viola. Ho capito subito che era lei, Nartano. La prima ad arrivare. Una delle più grandi amiche di mia madre, quella con cui era tornata in India una volta.
Nartano l’avevamo conosciuta ai tempi di Macondo, a Milano. Eri venuto a prendermi all’asilo, a Lampugnano, con mantello nero e kajal. Lei era lì fuori ad aspettare sua figlia Viola, ti ha notato e siete diventati subito amici. In quegli anni gestiva il Rebelot, una stravagante boutique, poi lei e Viola si erano trasferite con noi a Saman per qualche anno, dove Nartano teneva i suoi laboratori di cucito. Ma non era cucito il suo; era creatività allo stato puro.
In quei giorni Nartano non mi ha lasciata per un secondo. Mi abbracciava, mi regalava sorrisi, chiacchierava, e una di quelle sere guardammo insieme Il petomane, con Tognazzi che faceva il «Paganini del peto».
Ho consegnato a lei la mia colonna sonora per il funerale, per il tragitto in auto dalla chiesa al cimitero; dentro c’era The sound of silence di Simon & Garfunkel, ripetuta venti volte, in loop. Ed è lei che ha fatto il cuore sul cemento del loculo dove ti hanno messo prima che avessi un pezzo di terra al cimitero.
Nei giorni della camera ardente a Saman, sono venuti in centinaia per salutarti. Io ero lì fuori, seduta a terra, a guardare tutti, senza entrare. Con alcuni ero accogliente, con altri meno.
Il tuo amico Checco – che avevo conosciuto a febbraio a Trento, dove mi avevi portato per il ventennale del ’68 – ha capito di cosa avevo bisogno: si nascondeva e mi lanciava sassolini.
Mercoledì sera Chicca ha bussato alla porta e mi ha chiesto se ero davvero sicura di non volerti vedere. Era l’ultima possibilità. Poi avrebbero chiuso la bara.
Ho detto: «Voglio vederlo, ma da sola».
Sono entrata nella stanza più grande del Gabbiano.
Lì dentro il 25 settembre io e Saverio, un ragazzo della comunità, avevamo fatto una cosa insolita: avevamo preparato una cena romantica per te e Chicca, cucina cinese. Chicca conserva ancora il bigliettino che vi feci trovare: «Onolevoli signoli, la cena è selvita». Lì abbiamo guardato i Mondiali del 1982, Blade Runner e Il padrino; lì ho pianto con te, quando hanno ammazzato Sonny Corleone; lì ti ho detto che per la prima volta mi erano venute le mestruazioni e tu ti sei messo a ridere; lì abbiamo passato pomeriggi interi ad ascoltare musica; lì dove lavoravi con la tua macchina da scrivere; lì dove mi leggevi le lettere del nonno.
Lì, ora, c’eri tu, vestito di bianco, disteso in una bara. Non eri bello come mi avevano detto. Ti ho guardato immobile. A un metro di distanza, tremando. Ho pensato che volevo farti una carezza, ma non ci sono riuscita. Poi mi sono accorta che avevo lasciato aperto il portone e che dietro di me, a guardare il nostro incontro, c’erano Chicca, Nartano e Francesco, e me ne sono andata.
In India, quando una persona muore, stendono il suo corpo accanto al fiume Gange, lo ricoprono di fiori e lo bruciano, per poi gettare le ceneri nell’acqua. Intorno al corpo di un nostro amico, quando eravamo in India – io avevo 7 anni –, avevamo ballato fino al tramonto. Avrei voluto salutarti così, con odore di gelsomino e danza, ma Chicca mi ha fatto capire che a te il funerale in chiesa sarebbe piaciuto.
Io non sono venuta, c’era troppa gente. Ma quando se ne sono andati tutti, ho scavalcato il muretto del cimitero e sono venuta a salutarti portandoti tre margherite.
Che ancora oggi, quando io e Chicca ce le regaliamo o disegniamo, rappresentano noi tre.
Il 29 settembre, alle 3 del pomeriggio, si tengono i funerali, nella cattedrale barocca di San Lorenzo, a Trapani. La Crocifissione di Van Dyck, il San Giorgio di Andrea Carreca e il Cristo morto di Giacomo Tartaglia a fare da sfondo al saluto di Mauro Rostagno.
foto
Mauro e Maddalena sul terrazzo blu di Saman, estate 1988.
Fino alla sera prima si è parlato di un rito civile a Saman, ma Chicca Roveri ha deciso per un rito cattolico, perché tutti i cittadini di Trapani potessero essere presenti. Alle 22 è arrivato il sì dal vescovo di Trapani Emanuele Romano; a chiederlo monsignor Antonino Adragna, che conosceva Rostagno da tempo, da quando entrambi, insieme ai ragazzi della parrocchia, avevano festeggiato il decennale dell’occupazione della cattedrale, a opera dei senzatetto.
Accorrono in tantissimi, circa trecento solo i compagn...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Prefazione
  3. 1. 26 settembre 1988, un lunedì
  4. 2. Giro giro tondo
  5. 3. Com’è alto il cielo a Pune
  6. 4. I non-camaleonti
  7. 5. Noi lavoriamo sulla bellezza dell’universo
  8. 6. L’upupa, la Bella Elena
  9. 7. L’insostenibile leggerezza del movimento studentesco
  10. 8. Chiddu ca varva
  11. 9. Non sono dunque di passaggio
  12. 10. Ricordo
  13. 11. 22 luglio 1996
  14. 12. Sono passati anni
  15. 13. Cuanta pasión
  16. 14. Messico e nuvole
  17. Ringraziamenti
  18. Fonti, documentazione e curiosità