Il campione e il bandito
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Il campione e il bandito

  1. 303 pagine
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Il campione e il bandito

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Le vite di Pollastri e Girardengo ebbero corsi paralleli, e non solo a causa della comune discendenza novese. I testimoni sono concordi: Sante e Costante erano amici, e continuarono a vedersi negli anni della latitanza, si rispettavano e si tenevano informati l'un l'altro. Entrambi provenivano da quella genia tra ligure, francese e piemontese forgiata dalla fame e dal freddo. Entrambi vissero una dura storia di emancipazione dalla miseria. Sante, a dispetto dei suoi crimini (uccise quindici carabinieri) e di tre ergastoli, aveva un senso tutto suo della giustizia. Costante fu il primo campionissimo del ciclismo italiano.

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Informazioni

Anno
2010
ISBN
9788865760598
Argomento
Historia
PARTE QUINTA
Due ragazzi del borgo cresciuti troppo in fretta
Un’unica passione per la bicicletta
Un incrocio di destini in una strana storia
Di cui nei giorni nostri si è persa la memoria
Cella numero 25
La finestra a bocca di lupo della cella numero 25, al piano terra del carcere di Santo Stefano sull’omonimo scoglio dell’arcipelago delle Ponziane, inquadra un pezzetto di cielo che per oltre vent’anni incornicia tutti i sogni di libertà di Pollastro. Nei primi cinque, Sante rimane chiuso in una cella di rigore della quarta sezione, quella seminterrata, e non c’è che buio, neppure quel timido spicchio di cielo. Buio e silenzio. L’ex bandito resta a Santo Stefano dal dicembre 1929 all’aprile 1950, se si esclude il soggiorno nella casa penale di Procida fra il novembre 1943 e il dicembre 1944. Quindi passa a Volterra e, nell’aprile 1953, nel penitenziario per minorati fisici di Parma, dove aspetta il buon esito delle numerose istanze di grazia del suo avvocato. Questo significa che il bandito entra a Santo Stefano a trent’anni e torna libero a Parma quando ne ha sessanta, nel 1959, avendo trascorso più di metà della vita dietro le sbarre. L’avventurosa carriera del bandito dura un lustro, dai ventitré ai ventotto anni. A Santo Stefano, Pollastro è una matricola, il numero 1504 cucito sulla tuta a righe da ergastolano. Ma dietro quel numero continua a esprimersi la cifra di una personalità che s’impone anche nel nuovo ambiente, tra nuovi compagni di vita. Pollastro si rivela, oltre che bandito, campione di sopravvivenza. E, forse, più ancora che ai tempi delle imprese banditesche, è a Santo Stefano che esprime appieno le sue doti di capo.
Quando oltrepassa in catene l’ingresso del carcere, non è già più il bandito Pollastro, ma il mite ergastolano che sogna la libertà. Anarchico, ex nemico pubblico numero uno, anche in virtù del suo passato continua a esercitare dietro le sbarre il suo carisma sulla popolazione di dimenticati dal mondo. La libertà gli appare, attraverso la grata alta della porta chiusa sul cancello e la finestrella a bocca di lupo, di volta in volta come un volo breve di uccelli migratori o una formazione di caccia alleati che duellano con gli apparecchi italiani negli anni della guerra, o una fuga di nuvole che disegna nel vuoto il miraggio di altre fughe. Tutte sequenze brevemente inquadrate nel periscopio della sua celletta. La libertà è negli occhi di un gattino che s’intrufola nel suo antro, si fa carezzare, diventa il compagno segreto dell’ergastolano che trent’anni dopo, a Novi Ligure, vorrà ancora circondarsi di gatti. La libertà è passare dai sotterranei alla cella 25 dopo i primi cinque anni di segregazione. Nella cella di rigore la volta bassa lo costringe a chinarsi. Il silenzio profondo delle mura è rotto dall’ululare del vento, dal tintinnio dei buglioli e dalle grida dei compagni di pena sui letti di contenzione che gli ricordano le urla dei condannati alla ghigliottina tra le mura della Santè.
La libertà è un sogno, il sogno della libertà. È perdersi nel pensiero che sarà per trent’anni – dirà Pollastro a Brignoli – l’occupazione esclusiva della sua mente di ergastolano: «Mentre gli agenti hanno mille cose a cui pensare, il detenuto ne ha una sola, inventarsi l’occasione per evadere». Un assaggio di libertà è nel progettare l’evasione. La libertà è essere ammessi a lavorare in cucina, anche se lavorare è proibito agli ergastolani. La cucina si trova già fuori della quadruplice linea delle celle, tra cortile e portineria, più vicino al corpo di guardia che alla chiesetta dove il cappellano officia la messa, nel cortile interno. I secondini spalancano le porte di legno per la celebrazione di don Aniello: le sue cantilene dall’inflessione campana sono un simulacro di libertà, anche se il cappellano è invisibile, i cancelli sempre sbarrati, e la cupola è ancora quell’unico pezzetto di cielo che filtra dalle finestrelle a bocca di lupo e dalle grate delle celle.
Libertà è l’ora d’aria. Libertà sono i trecento grammi di pane e il mestolo di minestra condita da una stilla d’olio (in guerra più niente). Libertà, vera e totale, è poter di nuovo parlare con un essere umano dopo le punizioni e la segregazione, non solo captare la voce flebile del vicino al quale annunci mormorando che anche quest’anno è passato, ed è già l’alba del terzo anno da quando sei dentro: un timido augurio di libertà, un cinguettio tra uccelli di voliera. L’augurio di (avere) un futuro.
Libertà è poter abbracciare la sorella Carmelina, l’unica volta che ha potuto pagarsi il viaggio da Novi a Ventotene per stringersi Sante al petto come quand’erano bambini (che pena dovergli parlare attraverso le sbarre e aspettare la fine del colloquio prima di poterlo baciare). Libertà è ricevere a Capodanno un pacco regalo dalla sorella e dall’adorato Sante, il nipotino, il figlio di Comollo. Libertà è gustare una razione piena di pasta nelle «grandi ricorrenze»: Natale, Pasqua, lo Statuto, il 21 aprile, il 28 ottobre. Due settimane prima, la direzione comincia a togliere un grammo al giorno dalla razione pro capite per dare l’impressione, alla fine, che per la festa la gavetta sia colma e il pasto abbondante. La carne è confezionata come un salamino di fettine ripiene di ingredienti piccanti e arrotolate con un filo, anche se la quantità – scrive Giuseppe Mariani, l’attentatore anarchico al Teatro Diana detenuto a Santo Stefano dal giugno 1922, un mese prima che Sante uccida Casalegno – a volte rende quasi difficile distinguere se sia più il filo o più la carne. Si può anche avere un tocco di formaggio grattugiato e un quartino di vino. I condannati possono acquistare non più di mezzo litro coi propri soldi. E se qualcuno desidera affogare la tristezza ubriacandosi e sfidando la punizione, deve accordarsi con gli altri e cedere a turno la sua parte. Così, a rotazione, si perde la testa: un po’ per dimenticare, un po’ per inebriarsi del fantasma della libertà. La golosità non è vera, dice Mariani, è piuttosto una specie di malattia mentale, una forma di idea fissa, «la visione di un mondo sorto dai contrasti di mille privazioni». È il massimo della felicità col minimo dello spreco: un boccone di cacio, un bicchiere di vino, il profumo di un pranzo normale…
Sante si ritrova alle prese con la fame che ha sofferto da bambino. La sopporta meglio di altri, perché un novese di quegli anni, figlio di contadini della Frascheta, sa come centellinare i pasti ed eventualmente saltarli, come sfruttare ogni caloria e affrontare i digiuni. Sa come mangiare, e come non mangiare. Soprattutto, lo aiuta la formidabile volontà di restare vivo. Svaria i pensieri per non farsi carcerare nella spirale di un pensiero unico, pensato e ripensato alla follia. A Brignoli dirà che «l’unica salvezza era nel sonno».
Mai come a Santo Stefano l’ex bandito ama la libertà. Dormire è un po’ tornare liberi: sogna evasioni, la mamma, gli sprint di Girardengo, due lire d’argento, una serata al Moulin Rouge, il passato e le fughe in bicicletta, Maria, l’Ottava di Pasqua… La libertà è conservata nelle storie della cella 25, l’unica dalla quale un detenuto sia riuscito a evadere per dodici giorni, aggrappato agli scogli e alla scarsa vegetazione commestibile dell’isola prima di essere ripreso e trasferito dalla grotta a un’altra cella. Di rigore. Racconta Mariani che accanto agli specialisti delle evasioni che segano le sbarre, ci sono altri specialisti capaci di aprire tutte le porte con una spilla doppia o un piccolo chiodo, o anche un passe-partout ricavato dal manico di alluminio dei boccali per l’acqua.
La storia è la seguente. Un giorno di un anno imprecisato, l’agente di servizio nella prima sezione vede il recluso della 25 dormire nonostante la sveglia, e siccome non risponde ai richiami entra, gli poggia la mano sulla fronte, è fredda, pensa che è morto, dà l’allarme. Il defunto, si scopre, è un manichino: la testa è mollica di pane, il tronco indumenti appallottolati, compreso il piede di pezza che spunta dalla coperta. Il direttore interpella un detenuto mago delle serrature, il quale spiega che anche quella notte è uscito per una passeggiata in compagnia del numero 25, ma che questi ha deciso di non rientrare, nella speranza di abbordare a nuoto una barca di passaggio. La fuga dura qualche giorno. L’evaso viene ritrovato la notte che uscito dalla sua grotta si è gettato in acqua e a larghe bracciate si è diretto verso una scialuppa di carabinieri, preferendo consegnarsi a loro piuttosto che alle carezze delle spazientite guardie di Santo Stefano. Il sottufficiale, a scanso di sorprese, lo restituisce solo dopo avergli fatto controfirmare un verbale che ne attesta le buone condizioni, e insomma che non è stato malmenato. L’evaso si è nutrito di fagioli, ceci crudi e pomodori rubati nella casa dell’unico fittavolo dell’isola, dove ha trovato anche da vestirsi.
Santo Stefano è un isolotto di 139 metri sul livello del mare nel punto più alto, collegato a Ventotene da una catena subacquea di un chilometro e mezzo. Le navi passano in mezzo alle due isole. La corrente è troppo forte per la gran parte dei nuotatori. Non c’è porto, se si esclude un attracco per le scialuppe. Il piroscafo è costretto a gettare l’ancora a duecento metri e aspettare la barca per il trasporto di uomini e merci. In cima a questo nido di corsari con una superficie di soli trenta ettari, e a una scala a zig-zag che se non porta alla libertà, almeno conduce a un bel panorama, lo sguardo spazia sull’arcipelago. Se il cielo è limpido si vedono i profili di Capri e Ischia, la punta di Gaeta e un tratto di costa, lo scoglio di Crotone, il frastagliato splendore di Ponza… Sull’isola ci sono la villa del direttore con gli appartamenti per il cappellano, il medico, il ragioniere e l’ufficio postale, le due casette del fittavolo e di un bettoliere, e la caserma per gli agenti della guardia esterna.
L’edificio è un progetto borbonico del 1770 destinato inizialmente ai delinquenti comuni di Napoli, ma riempitosi di «politici» dopo la fallita rivoluzione del 1848. Da allora, vista la pratica impossibilità di evadere, il ferro di cavallo senza muri di cinta (le celle con doppio cancello danno sul cortile, le si dovrebbe bucare dall’esterno) ospita ergastolani, dissidenti e criminali politici. Nonostante i divieti, nel 1907 i reclusi trascinano ancora la palla di ferro. Il brigante Musolino impazzisce dopo due anni. Gaetano Bresci, l’anarchico uccisore di Umberto I nel 1900, finisce (ufficialmente) per impiccarsi nella sua cella, conosciuta come «la cella del regicida» da allora mai più abitata. Diventa pazzo anche l’anarchico e mancato regicida Antonio d’Alba, due anni prima che arrivi Mariani.
La cella di Bresci non ha numero, non è una delle centonovantacinque celle delle tre sezioni del corpo di reclusione che si aprono sui tre ballatoi circolari, né fra le settantotto della quarta sezione, i cosiddetti «inferi», riservata ai galeotti impazziti, segregati, puniti, pericolosi. Nel 1929, le celle dei politici sono contrassegnate da una targhetta con la matricola in nero e un dischetto rosso. Il progetto del penitenziario risponde a logiche astruse e sottilmente perverse: celle a forma di trapezio disposte per gironi attorno al ferro di cavallo. La cella del regicida si trova in fondo a un corridoio cieco, che porta a un terrazzino.
Nessuno è mai evaso da Santo Stefano. Questa è la terribile verità, di cui Pollastro è consapevole. C’è una sola speranza, una sola possibilità, e anche questo Pollastro lo sa bene: la grazia. Ma per ottenerla, l’ex bandito deve puntare sulla «buona condotta», mettere in questa impresa la stessa pervicace furbizia delle azioni criminali. La buona condotta, poi, non basta. Ci vuole un pizzico di eroismo. Ci vuole che Sante faccia l’opposto di quanto ha fatto sinora: che invece di ammazzare le guardie, si prodighi per salvargli la vita.
Santo Stefano è l’ambiente ideale per chi cerca la libertà nel suicidio, e di suicidi e tentati suicidi se ne contano diversi fino al 1967, anno della definitiva dismissione. Ad alcuni la «libertà» viene data per eccesso di zelo. Come al povero Pugliesi, un «politico» del quale scrive Mariani: nel 1930, in una cella non lontana da quella di Sante, un capoguardia, un agente e un guardiano d’infermeria infieriscono su Pugliesi finché non si rialza più. Per qualche tempo quella morte, oggetto d’inchiesta della direzione generale delle carceri, determina qualche riguardo verso i superstiti. Negli anni i regolamenti cambiano, l’isolamento non esige più la doppia chiusura, giorno e notte, del cancello in ferro e della porta in legno (non più, insomma, il buio assoluto), ma la semplice chiusura diurna del primo.
Nel 1940 Sante inciampa finalmente nell’occasione per farsi valere. L’episodio resta nella memoria di Mariani e degli altri detenuti, e nelle testimonianze allegate al fascicolo della grazia. Un recluso siciliano, tale Baldassarre, affetto da mania di persecuzione perché crede che un certo magistrato trami contro di lui e abbia ordinato alle guardie di mettergli il veleno nel pane o nella minestra, dà in escandescenze quando l’agente Floriano De Feo apre la cella, contigua a quella di Pollastro. Per distrazione le celle, contro il regolamento, restano entrambe aperte. Baldassarre, preso da un raptus di follia, afferra il bugliolo, ne strappa il coperchio di metallo e comincia a picchiare sulla testa De Feo il quale, colto di sorpresa, non reagisce. «Certamente – scrive Mariani – l’agente sarebbe finito ucciso o gravemente ferito se il Pollastro, accortosi della cosa, non avesse ridotto all’impotenza il povero pazzo, il quale, ormai fuori di sé, faceva sforzi disperati per liberarsi, senza però riuscirvi. E poiché nello stesso tempo gridava, mentre Pollastro con parole buone cercava di calmarlo, gli agenti di servizio nelle altre sezioni diedero l’allarme.» De Feo se la cava con qualche escoriazione. Alcune ore dopo, il direttore e il medico del carcere vanno da Pollastro «per complimentarlo del suo umanissimo gesto». Lo compensano anche, il direttore offrendogli una sigaretta, il medico tre giorni di vitto speciale. Baldassare, in una delle successive e tutte uguali mattine di Santo Stefano, s’impicca all’inferriata. Morto, assolutamente morto.
L’assolutamente morto non è un pleonasmo, almeno a Santo Stefano. Un altro giorno, succede infatti che medico e cappellano accertano la morte e impartiscono l’estrema unzione a un malato che soffriva di lunghe perdite di coscienza. Stavolta l’incoscienza è durata più a lungo, il paziente viene dato per defunto, ma quando i falegnami lo sollevano per aggiustarlo nella cassa, il morto tira un sospiro e ringrazia tutti per averlo aiutato a cambiare posizione. Da allora, a Santo Stefano si aspettano sempre ventiquattr’ore prima di inumare qualcuno. Niente più sepolti vivi, se non in senso figurato.
Quando Pollastro, nell’aprile 1931, va al processo di Alessandria per l’uccisione di Casalegno, alla sorella che lo avvicina in aula per baciarlo sussurra: «Sta’ tranquilla, che mi a sortu ancora. An ghe moru an prisòn!».
Non morirà, no, come Baldassarre il pazzo, come il morto che non è morto, come Bresci, come sarebbe morto De Feo se Sante non lo avesse salvato… Qualcuno, ragiona Pollastro, quella grazia prima o poi la restituirà. Ragiona in termini nuovi, con prospettive diverse, con un ritmo che non è più quello della cantata, incalzante come la pedalata del Campionissimo o gli inseguimenti del bandito. Ragiona con la paziente furbizia della sua gente, con la saggezza della Frascheta. Torna pure lui, come Girardengo, ai miti consigli e all’atavica rassegnazione.
«Ritorno là dove la mia famiglia ha cominciato. Siamo di razza che vien dalla campagna» dice il Campionissimo dopo la rottura del polso. L’obiettivo è sempre quello di contrastare con l’ingegno la scalogna di essere nati. C’è in entrambi, Pollastro e Girardengo, dall’inizio alla fine della storia, una tristezza, uno scetticismo che si riscatta con l’ironia, la testardaggine e una certa dose di egoismo.
Il bandito e il campione si salvano la vita perché sono freddi, cinici, ironici e perché nonostante questa freddezza, questo cinismo, questa ironia, riescono a trasmettere il calore di una vita vissuta con passione, sino in fondo. Una disperata gioia di vivere.
Il processo di Alessandria
(28-30 ottobre 1931)
I protagonisti di questa storia formidabile, da Pollastro a Girardengo, da Cavanna a Rizzo, che nel frattempo è stato promosso questore e si fregia del titolo di commendatore, sfilano nel processo che si apre il 28 aprile 1931 ad Alessandria. Pollastro finalmente respira. Su una motovedetta della Finanza ha raggiunto Napoli e di qui, su una carrozza ferroviaria blindata, i luoghi della sua infanzia e adolescenza. Deve rispondere dell’omicidio di Achille Casalegno per cui è stato condannato nel 1924, in contumacia, a trent’anni di reclusione.
Certo, non è un bel modo quello di presentarsi a casa con la giubba da galeotto e cucito sulla tasca uno straccetto bianco che riporta il numero di matricola 1504. Scortato da cinque carabinieri e un brigadiere, Sante è legato come un salame, manette ai polsi e giri di catene attorno a braccia e fianchi. Un fantoccio che si stringe nelle spalle. Liberato da ferri e catene nel gabbione è, anche là dentro, marcato da due carabinieri. «Peccato – dice ai cronisti – che debba pagare a così caro prezzo la mia presenza in questo luogo. Mi legano troppo stretto e troppo pesantemente. Di che cosa hanno paura? Hanno detto che voglio scappare, ma si tratta di una fantasia di giornalisti…» Osserva la platea, le persone venute a vederlo dopo gli anni di latitanza e reclusione. I giornali riportano che la sua voce è «roca, con inflessioni cupe». Il presidente del tribunale gli legge la fedina penale. Lui ascolta «con indifferenza» in piedi, le mani giunte dietro la schiena, «alla lettura di questo stato di servizio». Replica, senza troppa convinzione, che quei delitti non li ha commessi tutti lui, «ma ciò non ha importanza, più che l’ergastolo non potevano darmi…». Chiamato a precisare a quali imprese abbia preso parte, risponde: «Ho partecipato solo all’uccisione dei due sottufficiali di pubblica sicurezza nell’osteria di via General Govone, e alla rapina all’orefice Zanetti. Ma per quest’ultimo delitto i giurati di Milano mi hanno assolto». Qui, scrivono i giornali, è «sorpreso da un fiotto di riso», «atteggia il volto a un sorriso di soddisfazione». Più che beffardo verso la giustizia umana, Sante è rassegnato all’inutilità del processo. Inutile perché i trent’anni saranno sicuramente trasformati in ergastolo, e per la mancata revisione delle posizioni di Carrega e Leggero. «Cosa vuole che dica. È inutile! Tanto non mi si crede» ripete al presidente. E con toni più bassi consola l’avvocato: «Che cosa vuole farci? Se ho confessato…».
La sua voce è roca. I giornalisti ignorano che la fame patita dai reclusi in segregazione produce un filo di voce al quale spesso corrisponde anche un filo di pensiero. Pollastro è lucido, eppure ha strane reazioni, prova le emozioni eccessive di chi vive da troppo tempo solo. È un trauma per lui, costretto nel buio e nel silenzio di una cella d’isolamento sopra uno scoglio, piombare nel frastuono del processo del quale è l’involontario mattatore. Sono tre giorni di passione. «I suoi occhi – nota l’inviato della Stampa – si incontrano con quelli di una giovane donna che, appoggiata al parapetto della tribuna, quasi si tende verso di lui: è la sorella, colei che fu compagna di uno degli affiliati della banda, tragicamente perito poi in un conflitto tra i militi dell’Arma.» È Carmelina, la compagna di Emilio Comollo ucciso nella Cascina del Diavolo. Pollastro lo chiama «mio cognato» e i cronisti con sarcasmo precisano che si tratta non dello sposo della sorella, ma del convivente. La donna, «colei che sorresse e confortò il bandito durante la sua sinistra carriera», getta sguardi e sorrisi di «pietà affettuosa» a Sante, che non nasconde la commozione. «Il viso del bandito, atteggiato tanto spesso a duro cipiglio, si illumina come di gioia. Poi un velo di tristezza subentra a quel chiarore improvviso e il bandito si effonde in cenni di saluto, patetici e accorati.»
Pollastro comincia a rispondere alle domande con un ritornello di «mi rimetto a quello che ho detto, è inutile che io insist...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Prologo
  3. Parte prima
  4. Parte seconda
  5. Parte terza
  6. Parte quarta
  7. Parte quinta
  8. Epilogo
  9. Ringraziamenti
  10. Bibliografia