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Oggetto di questo libro sono i diversi modi in cui le arti visive del XX secolo e le teorie estetiche ad esse correlate si sono poste in relazione agli sviluppi tecnologici comunicazionali e all'affermazione dei mass media.I mutamenti avvenuti nella produzione artistica contemporanea in rapporto alle innovazioni tecnologiche emergenti portano a porre una domanda di partenza: Com'è cambiata l'opera d'arte nell'era della virtualità e dell'interattività?

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Informazioni

Editore
Ledizioni
Anno
2014
ISBN
9788867052042
Argomento
Arte
Categoria
Arte generale

2

Tecnologia e Filosofia

Uno degli argomenti basilari del discorso fin qui intrapreso è il rapporto fra tecnica e arte. Quest’ultima, fin dalle sue origini, intrattiene con la tecnica un rapporto di intensa ambiguità, espresso dall’etimologia stessa del termine tecnica: téchne, che indicava esattamente quelle tecniche che nella cultura latina e medievale sarebbero diventate artes. Molto di ciò che noi oggi chiamiamo arte, nel mondo greco, è stato chiamato tecnica. Le ragioni storico culturali e naturalmente linguistiche che portano a tale ambiguità sono ovvie, ma parte di questa confusione permane ancora oggi, soprattutto a causa della recente invasività tecnologica nel mondo delle arti. Partendo da questo residuo di ambiguità è quindi necessario formulare una teoria che tenti non di spiegare l’attuale dualità e/o l’antitesi fra arte e tecnologia ma la sua dialettica. Per comprendere il punto di partenza di questo rapporto è opportuno riferirsi al pensiero di Martin Heidegger grazie al quale la riflessione teoretica sulla tecnica raggiunge una matura consapevolezza di concetto e di visione. Egli intende la tecnica, respingendo ogni comprensione strumentale, come un modo essenziale di orientarsi nel mondo e di incontrare le cose. “La tecnica, dunque, non è semplicemente un mezzo. La tecnica è un modo del disvelamento. Se facciamo attenzione a questo fatto, ci si apre davanti un ambito completamente diverso per l’essenza della tecnica. È l’ambito del disvelamento, cioè della verità[1]
Ciò significa che la téchne fu originariamente compresa come un disvelamento dell’esistente, un modo di darsi alla verità, la quale richiede però una poiesis ovvero un coinvolgimento produttivo dell’uomo il quale disponeva di questi processi creativi per sussistere in armonia con la natura intesa come spontaneità creatrice e capacità autogenerativa, esattamente ciò che i greci chiamarono physis. Per questa via egli è in grado di individuare il legame costitutivo fra il concetto di natura e il concetto di tecnica e perché la questione della tecnica sia emersa solo nel pensiero moderno. Per Heidegger l’arte funge da termine sovraordinato rispetto alla tecnica nel senso che all’arte è riconosciuta la capacità di salvaguardare la memoria dell’essenza della tecnica stessa. L’arte ha per molti secoli assolto il compito di preservare la memoria del fondamento poietico della tecnica, ma è ancora possibile attribuirle questa definizione nel mondo totalmente tecnicizzato dalla modernità? “Che cos’é la tecnica moderna? Anch’essa è disvelamento.[…]. Il disvelamento che governa la tecnica moderna, tuttavia, non si dispiega in un pro-durre nel senso della poiesis. Il disvelamento che vince nella tecnica moderna è una pro-vocazione (Herausfordern) la quale pretende dalla natura che essa fornisca energia che possa come tale essere estratta (herausgefördert) e accumulata[2]
Heidegger pone particolare enfasi anche sulla nozione d’origine che dà il titolo al suo scritto di filosofia dell’arte più noto, L’origine dell’opera d’arte. Il carattere originario dell’arte non vuol dire che qualcosa dà origine all’arte, né che l’arte sorga da un nulla assoluto. Per Heidegger l’arte non ha origine, ma è origine la sua essenza stessa. Il nuovo paradigma del rapporto fra arte e tecnica si profila proprio dall’incompletezza della tesi heideggeriana che non si cimenta con i mezzi di riproduzione tecnica. Il riferimento è ovviamente alle tesi avanzate da Walter Benjamin nel saggio sulla riproducibilità tecnica dell’arte nel 1936[3] che sarà compiutamente trattato nel prossimo capitolo. Il pensiero heideggeriano influenzerà senz’altro Benjamin e gli altri maggiori teorici della Scuola di Francoforte, Max Horkheimer, Herbert Marcuse e Theodor Wiesegrund Adorno i quali sosterranno, grazie ad una più approfondita consapevolezza sociologica, il tema della tecnica come seconda natura. In questa prospettiva Horkheimer collega heideggerianamente la tecnica al destino storico di oggettivazione della natura, mentre Marcuse, sottolineando il carattere puramente strumentale della razionalità moderna, rivelatasi incapace di soddisfare le istanze libertarie del progetto illuminista, pone la tecnica come soggetto attraverso cui si realizza la subordinazione della ragione teoretica alla ragione pratica. Ma è in Dialettica dell’Illuminismo scritto dallo stesso Horkheimer in collaborazione con Adorno che emerge il dato interpretativo più significativo: la tecnica viene annoverata tra le forme di dominio borghese e capitalistico e quindi al modello di una società industriale di massa. È contemporaneo all’avvento della tecnica, insomma, il problema della società di massa, in cui è possibile riscontrare operante il modello di una standardizzazione sistematica. Tale uniformazione alla prassi, secondo i due autori, non va comunque imputata unicamente ad un’istanza tecnologica forgiante ma, semmai, alla funzione che questa stessa istanza assolve nell’economia attuale. Il problema verte quindi sulla tecnica come modello attraverso il quale il dominio assolve la sua funzione sulla massa e non nel capire se la tecnica sia in sé dominio. É chiaro che i processi tecnologici di standardizzazione non rispondono tanto alle richieste della massa dei destinatari, quanto alla struttura economica. In questo caso, la tecnica, rappresenta qualcosa di più di un mero strumento atto a conseguire determinati effetti; al contrario, essa si rivela come una forma di schematismo atto a collegare l’indispensabilità di quegli effetti alle cause che li richiedono. La tecnica svolge, in definitiva, una funzione mediatrice all’interno di un sistema, quello capitalistico, in cui è l’offerta a determinare la domanda e non viceversa[4]. Anche il successivo pensiero postmoderno punta a porre in evidenza quegli aspetti della problematica tecnologica collegati alle modificazioni che l’espansione globale dei processi comunicazionali introduce nella concezione del sapere. Per questo fenomeno sembra valere, insomma, il destino già indicato da Benjamin per l’opera d’arte, ovvero la transizione verso l’anauratico.

* * *

Il saggio di Walter Benjamin su L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica è, degli scritti del filosofo tedesco, senza dubbio il più citato ed essendo punto di partenza di molte considerazioni svolte durante questa trattazione si approfondirà qui la riflessione estetica in esso contenuta. Grande è la predisposizione di Benjamin al nuovo, precoce l’attenzione per l’avvento delle nuove tecniche considerate in relazione alla società di massa. Benjamin ritiene che la riproducibilità abbia introdotto profonde modifiche nella natura dell’esperienza estetica non solo nel senso che è diventata un’esperienza di massa, ma anche nel senso che i valori di culto tradizionalmente connessi all’arte sono decaduti lasciando il posto a nuovi valori che il filosofo definisce espositivi: la fruizione distratta, l’esteticità diffusa, il carattere effimero e sempre disponibile dell’evento estetico. Il saggio è il punto di partenza problematico dell’arte contemporanea in quanto il rapporto fra originalità e copia diventa ora un elemento ineludibile.
Benjamin parte da dove Heidegger lascia l’opera d’arte. Il tema è per entrambi il paradigma filosofico che definisce l’opera d’arte nell’età della tecnica. Entrambi distanti dal risolverla meramente nello spazio interiore dell’esperienza e in un’ingenua produttività creatività soggettiva, trovano il loro punto di partenza nella hegeliana morte dell’arte: l’arte non è più “il modo più alto in cui la verità si procura esistenza”. Per Heidegger l’arte è la “messa in opera della verità”, nell’opera la verità appare fissandosi come Gestalt, ma la Forma ha bisogno di una sua struttura, di un’intelaiatura che dà il caposaldo ad ogni arte: quello di essere costruzione. L’Intelaiatura heideggeriana atta a reggere la forma diventa in Benjamin Apparecchiatura che, nell’epoca della riproducibilità tecnica, getta una nuova luce sull’opera d’arte, sulla sua originalità e sulla sua messa in opera della verità. Il saggio benjaminano va oltre l’eterna diatriba fra filotecnica e misotecnica in quanto percepisce la tecnica non come un feticcio del tramonto, ma bensì come una chiave per la felicità, tuttavia la sua non è di certo un’enfatizzazione utopica dello sviluppo tecnologico. Come il pharmakon greco che è veleno e rimedio nello stesso tempo, la tecnica, può significare distruzione o potenziamento[5].
Benjamin insiste su due temi destinati ad assumere sempre, maggiore rilievo: la tecnica e la fruizione che considera elemento costitutivo dell’esistenza stessa dell’opera d’arte. L’elemento tecnico riguarda il principio della costruzione dell’opera ma anche la natura stessa del proprio generarsi, il suo essere essenzialmente riproducibile, riproducibile dall’origine. Ma cosa s’intende per autenticità dell’opera d’arte? Il suo carattere d’originalità, opera unica e irripetibile, é dato dal suo hic et nunc, il qui e ora costitutivo dell’opera autentica, che consiste nel carattere di testimonianza storica dell’opera d’arte. Il valore rituale e quello espositivo sono serrati in un unico simbolo[6]. L’aura diventa sotto la penna di Benjamin un concetto estetico. L’aura di un’opera è quell’elemento che le appartiene propriamente ed esclusivamente, in quanto traccia irripetibile di una storia sedimentatasi con il tempo nel fondo della sua struttura e materialità. L’aura, apparizione unica di una lontananza, rappresenta una lacuna irrimediabile per le riproduzioni. Inoltre, l’opera d’arte riprodotta, diviene in sempre maggiore misura la riproduzione di un’opera disposta alla riproducibilità. Questo radicale cambiamento priva l’opera d’arte del suo valore cultuale/rituale mentre si dilata fortemente il suo valore di esponibilità. Il senso dell’esporre è quello di rendere accessibile, pubblico e ciò deprime l’aspetto rituale e cultuale dell’opera d’arte. Il carattere di originalità dell’opera è sradicato dalla stesa idea di tradizione e questo fa vacillare la sua stessa qualità di testimonianza storica. Le opere d’arte, osserva Benjamin, sono state sempre riproducibili, basta pensare ai copisti, ma l’opera autentica rimane salvaguardata nella sua unicità. Quello che muta con l’invenzione della fotografia e quella del cinema è proprio l’idea di autenticità e di originalità, ma ciò che interessa a questa trattazione sono soprattutto le modificazioni nell’ambito produttivo e ricettivo. La riproducibilità tecnica bandisce “l’hic et nunc dell’opera d’arte, la sua esistenza unica e irripetibile nel luogo in cui si trova[7]. Questo processo riguarda lo stesso momento produttivo che si emancipa dall’orizzonte autoriale. Opporsi a questi sconvolgimenti introdotti dall’opera d’arte “riproducibile nella sua stessa origine”, mettendo ad argine categorie tradizionali quali la creatività e il genio, è inutile, in quanto queste giungono ormai al loro compimento. Per esempio categorie solidificate da secoli quali autore e pubblico si avviano a perdere il loro carattere sostanziale in quanto il lettore, oggi più che mai, “è sempre pronto a diventare autore[8]. Le riflessioni benjaminiane in merito all’atto creativo, mettono in luce i cambiamenti avvenuti rispetto alle arti tradizionali. Si può partire dalle differenze individuate da Benjamin fra pittura e cinema: “L’atteggiamento del mago, che guarisce un ammalato mediante imposizione delle mani, è diverso da quello del chirurgo, il quale intraprende invece un intervento sull’ammalato. Il mago conserva la distanza tra sé e il paziente; […] il chirurgo rinuncia a porsi di fronte all’ammalato da uomo a uomo; piuttosto, penetra nel suo interno operativamente. Il mago e il chirurgo si comportano rispettivamente come il pittore e l’operatore. Nel suo lavoro, il pittore osserva una distanza naturale da ciò che gli è dato, l’operatore invece penetra profondamente nel tessuto dei dati[9]. Il pittore osserva una distanza naturale dal dato su cui lavora nella sua interezza, l’operatore invece penetra profondamente nel tessuto immaginale, la stessa pellicola cinematografica è una vivisezione della realtà, il dato è scomposto. Le immagini che entrambi ottengono sono enormemente diverse. Quella del pittore è totale, quella dell’operatore è fr...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Sommario
  5. Introduzione
  6. Artisti e Tecnologia
  7. Tecnologia e Filosofia
  8. Virtualità e interattività
  9. Due universi artistici lontani
  10. A Concludere
  11. Tavole
  12. Bibliografia