Gli immortali
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Storie del mondo che verrà

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Storie del mondo che verrà

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"«Anni fa, sulle rive del lago Bajkal, in Siberia, una donna mi lesse la mano. E un paio di anni dopo un bramino della città sacra di Vrindavan, in India, guardò nel mio futuro. Entrambi mi raccontarono delle stesse gioie che mi avrebbe riservato la vita. E della morte. Prematura e violenta. Che dovrebbe cogliermi tra poco.Alcune tra le cose predette si sono avverate. Altre non saprei. Le parole si sono perse nel tempo insieme alle cose a cui non do importanza. Ma con l'avvicinarsi di quell'appuntamento mi sono ritrovato a concentrarmi su un errore della divinazione. La donna con la quale ho avuto un bambino sarebbe dovuta essere una conoscenza d'infanzia. Impossibile, perché Francesca viveva dall'altra parte d'Italia e ci siamo conosciuti a Parigi appena qualche anno fa.La scorsa estate ho trovato una fotografia scattata nell'inverno del 1984 in un rifugio delle Dolomiti. Mi ritraeva a nove anni mentre il maestro di sci mi consegnava una medaglia per la mia prima gara vinta. Tra i bambini ai piedi del podio c'era quella che oggi è diventata la madre di mio figlio.Ho preso quel fatto come una coincidenza, ma partendo da quelle profezie ho iniziato a voler conoscere il futuro dell'umanità, alla ricerca, magari, di qualche indizio sul mio domani. Ho incontrato gli astronauti della nasa diretti su Marte, i padri della robotica umanoide in Giappone e gli uomini che si congelano in attesa di una nuova vita. Ho vissuto con i guardiani del clima al Polo Nord, parlato con gli scienziati che stanno costruendo un sole artificiale più potente di quello naturale e incontrato i politici che per salvare la biodiversità la chiudono in un bunker. Ho visto persone pronte all'apocalisse, mangiato pesci transgenici e verdure che non esistono in natura. Incontrato ricercatori che clonano, tagliano e cuciono dna ai limiti dell'eugenetica. Ho cercato in tutti una guida e risposte alle mie domande sul futuro. Ma anche loro, come me, volevano trovare solo la via per vincere la morte.Alla fine di questo viaggio, sono tornato nuovamente nell'antica città di Vrindavan, in India. Per cercare quel bramino e chiedergli se l'unico modo per vivere una vita degna non sia accettarne la fine.»"

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Informazioni

Anno
2019
ISBN
9788865767214
Premessa
Anni fa, sulle rive del lago Bajkal, in Siberia, una donna mi lesse la mano. E un paio di anni dopo, nell’autunno del 1999, un bramino della città sacra di Vrindavan, in India, guardò nel mio futuro. Entrambi mi raccontarono delle stesse gioie che mi avrebbe riservato la vita. E della morte. Prematura e violenta. Che dovrebbe cogliermi tra poco.
Il bramino mi consigliò di portare uno zaffiro giallo all’indice della mano destra. «Quel giorno ti aiuterà a scegliere tra la vita e la morte. E un uomo del futuro ti indicherà il giusto cammino.»
Alcune tra le cose predette si sono avverate. Altre, non saprei. Le parole si sono perse nel tempo insieme alle cose a cui non do importanza.
Ma con l’avvicinarsi di quell’appuntamento, mi sono ritrovato a concentrarmi su un errore della divinazione. La donna, ricca e con due figli, con la quale ho avuto un bambino, sarebbe dovuta essere una conoscenza d’infanzia. Impossibile, perché Francesca viveva dall’altra parte d’Italia e ci siamo conosciuti a Parigi, appena qualche anno fa.
La scorsa estate, passata nella casa al mare della mia famiglia con tutti i bambini, ho trovato una fotografia scattata nell’inverno del 1984, in un rifugio delle Dolomiti. Mi ritraeva a nove anni mentre il maestro di sci mi consegnava una medaglia per la mia prima gara vinta. Tra i bambini ai piedi del podio c’era quella che oggi è diventata la madre di mio figlio.
Ho preso quel fatto come una coincidenza, che mi parlava più dei casi dell’amore che di quelli della morte. Ma, così come ho sempre portato uno zaffiro giallo alla mano destra, quel giorno qualcosa si è mosso dentro di me, e partendo da quelle profezie ho iniziato a voler conoscere il futuro dell’umanità, alla ricerca, magari, di qualche indizio sul mio domani.
Ho incontrato gli astronauti della nasa diretti su Marte, i padri della robotica umanoide in Giappone e gli uomini che si congelano in attesa di una nuova vita. Ho vissuto con i guardiani del clima al Polo Nord, parlato con chi spera di redimere gli uomini e salvare le foreste mettendole sotto enormi campane di vetro. Ho ascoltato scienziati che stanno costruendo un sole artificiale più potente di quello naturale e incontrato i politici che per salvare la biodiversità la chiudono in un bunker. Ho visto persone pronte all’apocalisse, mangiato pesci transgenici e verdure che non esistono in natura. Incontrato ricercatori che clonano, tagliano e cuciono dna ai limiti dell’eugenetica. Ho cercato in tutti una guida e risposte alle mie domande sul futuro. Ma anche loro, come me, volevano trovare solo la via per vincere la morte.
Alla fine di questo viaggio, sono tornato nuovamente nell’antica città di Vrindavan, in India. Per cercare quel bramino e chiedergli se l’unico modo per vivere una vita degna non sia accettarne la fine.
La profezia
Ho sempre amato arrivare prima agli appuntamenti. Il tempo che intercorre tra ciò che abbiamo smesso di fare e ciò che faremo è privo di ansie: non devo e non posso fare altro che attendere. Finalmente smetto di inseguire il mondo, e in quei momenti mi sembra di riuscire a osservarlo davvero, evocando fantasie e speranze – che sono quasi sempre più dolci della verità. È come un viaggio: inizia nel momento in cui lo si immagina e quasi sempre ci porta, nella fantasia, in molti più posti di quelli che riusciremo davvero a visitare. A volte penso che dovrei sedermi e aspettare tutta la vita, anziché rincorrere le cose e perdermi, per riparare ai guai dell’andare.
Se fossi su un pianeta lontano, basterebbe un istante. Dicono che lassù il tempo si dilati, strappato dalla gravità. Un sospiro nel cielo vale quanto un anno sulla Terra. Allora forse sarei già a casa, sano e salvo.
Invece continuo ancora a girarmi tra le dita lo stesso anello che mi accompagna da vent’anni. Tozzo, con gli angoli smussati e uno zaffiro color miele affogato nell’oro ormai opaco. Dovrei tenerlo sul dito indice, invece lo porto all’anulare della mano destra, perché mi sembra stia meglio. Quando lo indossai per la prima volta ero dall’altra parte del mondo e in un’età nella quale si desidera che ogni esperienza lasci un segno sul corpo, per sembrare grandi contro la precarietà della vita. Fosse un bacio o una cicatrice. O un anello, appunto, che ora mi ricorda di questa storia iniziata molto tempo fa. L’ho portato sempre con me perché mi aiutasse a cacciare la paura. Ma dopo tanto tempo, quella mi è venuta a prendere per trascinarmi in questo viaggio.
Non ha certo fatto fatica a portarmi via perché, da che ho memoria di me stesso, andare è sempre stata la medicina contro ogni male. Quando le situazioni non funzionano più, prendo le mie cose e me ne vado, senza clamore. Non si tratta di fuggire. Credo piuttosto che abbia a che fare con un istinto nomade e col rispetto della felicità. Se i prati sono esausti è sterile restare, perché poi viene solo il buio e il freddo, come d’inverno. Mentre vado invece, i ricordi corrono fuori dal finestrino, col vento, insieme al paesaggio. E nella luce dei nuovi incontri, nella nostalgia per il passato, ritrovo i sentimenti. A volte mi basta salire su un treno o guidare qualche ora per sentirmi meglio, altre volte invece non mi fermo e ciò che lascio rimane per sempre alle mie spalle, nella memoria, bello come il ricordo di un’avventura.
La passione per il viaggio nasce da mia madre, e suonò alla porta di casa in un pomeriggio d’estate dei miei otto anni. Andai ad aprire col gatto in braccio e i piedi scalzi. Un signore sulla sessantina, cappello da sole e camicia celeste intrisa di sudore, se ne stava seduto su un motorino davanti a me, con il portapacchi pieno di giornali. Altri li aveva impilati tra le gambe, e in diversi sacchetti appesi alle manopole del manubrio. Era l’edicolante della piazza e mi diceva che la nostra raccolta di viaggio era conclusa e che restava da pagare. Corsi a chiamare mio padre, che lavorava in uno studio ricavato nella mansarda, con la scrivania rivolta alle finestre sul giardino. Sapevo che non amava essere disturbato, così restando sull’uscio gli dissi sottovoce che c’era un signore alla porta che voleva venderci delle cose. Mio padre non era un uomo tirchio, ma la miseria vissuta nell’infanzia della guerra gli aveva insegnato a essere parsimonioso e a vivere l’essenzialità come un valore. In questo era l’opposto di mia madre, che per riscatto dalla stessa miseria spendeva ciò che poteva e aveva una particolare ossessione per i libri di viaggio o qualsiasi cosa le raccontasse di paesi lontani. Era stata lei a chiedere all’edicolante sotto il suo ufficio di tenerle da parte le uscite di una enciclopedia a fascicoli, salvo poi dimenticarsene quando la compagnia telefonica per la quale lavorava fu spostata fuori città.
Lasciando la scrivania, mio padre brontolò qualcosa tra sé ma poi non aggiunse nulla, e mentre io portavo i giornali sul tavolo del soggiorno, lui pagò un anno e mezzo di arretrati senza obiettare. Sapeva che quei giornali erano importanti anche se nessuno li avrebbe mai sfogliati.
Le mappe del mondo erano per mia madre l’atlante dei ricordi, dove ricostruiva i pezzi di una famiglia polverizzata dalla geografia e dal bisogno, fatta di emigranti e malinconia. Nelle pagine dei suoi libri di viaggio riusciva a guardare l’Argentina e a trovarci suo padre, che l’aveva lasciata per un campo di polvere e cipolle in Patagonia. Tra le vie simmetriche e ortogonali di Buenos Aires cercava un cimitero di periferia dove era sepolta sua sorella e nelle fotografie dei pescatori sul Rio Paraná trovava la loro infanzia. Sognava di andare in Canada, dove quello zio con le mani ruvide da muratore aveva sposato una stilista di moda e che poi, poveretto, aveva finito i suoi giorni in un manicomio. Immaginava il Kenya, dove si erano trasferiti i cugini, compreso quello che si era innamorato della cinese e si era perso chissà dove.
Rimasta sola, a quattro anni mia madre fu affidata alle cure di una zia adottiva e cominciò a guardare l’orizzonte come un naufrago. Voleva proteggere le radici, perché tutti avevano promesso di tornare un giorno. Il tempo, invece, ha rarefatto ogni rapporto e reso la sua vita simile a un esilio. Lei non ha mai voluto partire, per paura che il mondo facesse perdere anche lei, ma in quei volumi incellofanati e muti come tombe aveva trovato la forza per andare avanti.
Compresi quella sua nevrosi solo da grande. Nell’infanzia invece, mi sedevo ai piedi delle librerie e aprivo un volume a caso con la stessa curiosità con cui si apre un baule in soffitta. Amavo l’odore della carta patinata, il rumore che facevano le pagine e gli sbuffi con cui ricadevano le une sulle altre. Iniziai a viaggiare così, con la fantasia, strappando da quei libri le figure che più mi piacevano e ficcandole in uno zaino nascosto sotto al letto. Fingevo di essere stato in un posto diverso ogni giorno, di aver incontrato gli indigeni o navigato con le balene. Non sapevo se avrei mai avuto il coraggio di partire davvero, fino a quando l’adolescenza prese il sopravvento e tutto ciò che mi circondava divenne noioso.
Avevo tredici anni, in Cina i ragazzi occupavano Piazza Tienanmen, a Berlino abbattevano il muro e io passavo le mie giornate tra l’algebra e gli antichi egizi, con pessimi risultati in entrambe le cose. Mi vergognavo del mio corpo troppo esile e lo annegavo in felpe troppo larghe. Avevo sempre un cappuccio a coprirmi il volto e pedalavo su una bicicletta scassata per andare agli allenamenti di basket, dove l’unico canestro che feci durante una partita fu un auto-canestro. Mi sentivo inutile e tutto mi sembrava senza senso: cominciavo a pensare seriamente che me ne sarei dovuto andare davvero.
Quell’autunno, per il mio compleanno, mio padre mi regalò una macchina fotografica. Disse che così avrei potuto immortalare i momenti belli, ma se fosse servita per quello avrei potuto tranquillamente lasciarla nella scatola. Invece me la misi al collo e cominciai a fotografare ogni cosa. Non lo facevo per fermare il tempo, semmai al contrario. Sentivo che mi sp...

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