Si rende noto che alle ore...
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>. (Dalla prefazione di Pierpaolo Vargiu)

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Informazioni

Editore
Ledizioni
Anno
2014
ISBN
9788867051564

12

Scienza e coscienza

Nessuno in reparto aveva mai accennato al caso. Solo Melli ne ave­va discusso con me. Ero circondato da silenzio e da assenze. Mi avrebbe fatto piacere conoscere il parere dei colleghi. Che cosa avrebbero fatto loro al mio posto? Mi resi conto che anche gli infermieri non volevano parlarne. Era come se il fatto di esprimere un’opinione equivalesse a esporsi, a farsi coinvolgere.
Ero cambiato. Quando ero di turno, provavo una sensazione d’appren­sione, se non di vera e propria paura. Il periodo della paura durò a lungo. Poi arrivò il disprezzo e la rabbia: due sentimenti che sono sordi come certi dolori. Quel morto mi si era avvinghiato addosso come una piovra, circondandomi con i suoi tentacoli e, con il suo peso, mi trascinava a fon­do. Mi chiedevo quale fosse la mia colpa? L’ignoranza di un giovane? Il disordine e il caos del reparto? Il fatto che l’ospedale risparmiava non volendo pagare i turni domenicali dei radiologi? Cominciai a sentirmi in pericolo. Avevo dentro come una crepa di un vetro che si frastaglia in una ragnatela ma che resta in piedi.
Mio nonno diceva che le mani sono la vera faccia di un uomo. Se guar­davo le mie mani non vi riconoscevo più nulla di me. Avevo perso il senso del mio lavoro. La strada sulla quale camminavo, glorioso e potente, si era trasformata in un fossato nel quale i miei piedi affondavano dentro a un limo sommerso e untuoso.
Era cambiata la mia propensione verso gli altri. Prima pensavo che un medico dovesse avere fiducia nelle persone. Credevo ci dovesse essere una disposizione d’animo che tende alla gentilezza. Scienza e coscienza erano le parole che m’ispiravano. Dopo l’avviso di garanzia, dicevo a me stesso che la parola “coscienza” non aveva più senso. La mia capacità di giudizio, fatta di valori morali e cognizioni scientifiche, era ormai solo un riflesso della mia mente. Me la potevo attaccare la mia “scienza e co­scienza”. I piccoli preziosi dettagli della mia coscienza non interessavano a nessuno. Dovevo solo rendicontare. Applicare standard e presentare il rendiconto. Ecco come funziona oggi. La coscienza era qualcosa che sta­va dentro di me. Fuori di me, invece, c’era una potentissima macchina pronta a giudicarmi. Una macchina con giudici, consulenti tecnici di uf­ficio, consulenti tecnici di parte, avvocati che ragionavano solo in termini di denaro. Il mio lavoro era una merce e non mi apparteneva più.
Avevo cambiato vita e città e ora sentivo tutto il peso di questa inutile solitudine. La mia vita era diventata una piazza vuota e deserta.
Poi trovai altri colleghi che ci erano passati. Ogni tanto incontravano qualcuno che mi dava una pacca sulla spalla e mi raccontava la sua storia. La maggior parte di essi aveva un atteggiamento di menefreghismo, come fosse un passaggio naturale, quasi obbligatorio. Lo stesso atteggiamento che ebbe mio padre. Mi disse: “Tu credi nell’intelligenza della gente … io credo nella natura degli uomini! Ricorda: la gratitudine è il sentimento della vigilia. Il cane randagio che hai appena sfamato, subito dopo ti rin­ghia. La persona che hai appena salvato, prima ti pugnala alle spalle e poi ti deruba”. Disse che purtroppo oggi la realtà è questa. Disse che non sa­rebbe successo nulla e che il novanta per cento delle cause per malasanità non approda a niente. Sono solo uno sfogo per i parenti e denaro per gli avvocati. Ciò che fa schifo è che l’errore medico sia considerato un reato penale, come se l’errore fosse una colpa da delinquenti.
Dopo l’avviso di garanzia cambiai. Quando visitavo un paziente non lo fissavo più negli occhi come prima. Guardavo gli esami e basta. Consi­deravo ogni possibile causa di malattia, anche quelle remote e assurde e prescrivevo, prescrivevo: esami su esami. Nessuno così avrebbe mai più potuto dirmi che ero stato imprudente.
Due mesi dopo arrivò l’esame del cuore di Michele. Il referto parlava di un’endocardite e della rottura di un muscolo papillare della valvola tricu­spide. Il caso fu archiviato.


Lettera a mio padre
Allego al memoriale una lettera che ho inviato a mio padre nel periodo immediatamente successivo all’avviso di garanzia. Credo che questo pos­sa essere considerato l’inizio di quel periodo nel quale poi si sono verifi­cati i fatti che sono oggetto del provvedimento disciplinare in questione.

Caro Papà,
non è certo un buon momento. I miei nervi sono scossi e lavoro con gran fati­ca. Conosco bene quale sia la giusta interpretazione da dare a quel fatto. Rico­nosco anche che tu abbia ragione da vendere e che, infondo, non ci sia nulla da aggiungere. Tu però mi conosci e sai quanto è grande il bisogno che ho sempre di capire e darmi delle regole. Volevo cioè esporti, per iscritto, ciò che al telefono non riesco a fare. Ho bisogno di parole, nient’altro che parole. Devo solo trovar­le. Poi, sarò più tranquillo.
Penso che il mio lavoro non sia altro che l’ombra di un desiderio sbagliato o di aver seguito solo una cupa, solitaria ossessione. Forse volevo solo assomi­gliare a te e al nonno. È evidente che non ci sono riuscito. Ciò che provo, in que­sto momento, è un senso di risentimento, un rancore nei confronti della gente e della vita. Del resto, in ogni lavoro, c’è sempre una ricompensa e, anche il più generoso dei benefattori, si aspetta, in fondo, un riconoscimento. Quest’avviso di garanzia non lo meritavo e mi demotiva.
Dico queste cose perché ci sono momenti nei quali, all’improvviso, la vita si ferma e diventa uno spazio vuoto. E ti fai pure delle domande cretine come ad esempio: ma perché mai mi sono così fissato con questo lavoro? Volevo forse lasciare una traccia di me stesso? Il lavoro è come la gravità e ci lega alla terra. Solo ciò che è pesante ci fa sentire vivi e dà un valore alla nostra vita. Mi chiedo allora se si lavora solo per il bisogno di riempire il vuoto che è dentro di noi o perché si ha bisogno di qualcuno che ti assegni un posto, un ruolo nel mondo. Lo ammetto sono confuso e un po’ fissato ma, per la prima volta, mi è caduta addosso tutta la stanchezza di questo lavoro e ne ho intravisto la parte oscura. Come posso spiegarti… ho percepito l’esistenza di quel tribunale invisibile che rende la mia condizione precaria, schiacciata dal peso di un dovere che oggi opprime come una condanna dell’inferno dantesco. Certo questo mestiere for­nisce un grande senso d’identità ma richiede anche una vocazione esigente. Fino a ieri il lavoro era il senso della mia vita oggi, invece, esso è un limite alla mia libertà personale e non sono più disponibile. Ho percepito come la mia fi­gura, rispetto a te e al nonno, sia stata diminuita, degradata, inutile. Oramai ho capito che non sarò mai uno che farà carriera. La carriera, l’andare forte, tagliare traguardi, guadagnare sempre di più. Non me ne importa più nulla e poi non ne ho la determinazione, la cattiveria.
Mi sono esiliato rimanendo. Chi lo sa?Avessi trovato una donna e ci avessi fatto un figlio non sarei qui a farmi tante domande. Non avessi accettato di percorrere questa strada che, inevitabilmente, porta alla solitudine. Tutto que­sto per essere poi giudicato come un essere imperfetto che sbaglia…
Un forte abbraccio
Tuo
Stefano


Ore 23,10
Rispondo al cordless. C’è una voce di donna che parla in fretta man­giandosi le parole.
“Chi sei?” chiedo.
È un medico del pronto soccorso. Non la conosco: deve essere una nuo­va, penso. Arriva la sua rabbia. Poi vengono tanti dati tecnici alla rinfusa. Sbuffo. Faccio uno, due tentativi di interrompere la verbosità, tempestata da tanti “io”, “ma ti pare?” Ansia libera, egocentrismo strisciante, delirio di persecuzione.
Finalmente, i fatti. Mi chiama per un uomo di quarant’anni, sempre sano; ha tolto il menisco in una clinica privata e porta un tutore alla gam­ba; da oggi pomeriggio ha trentanove di febbre. Accidenti, dico a me stes­so. Ma sono solo cinque ore fa? Ed è già in ospedale! Sospiro… Ci vuole pazienza. Dice che vuole mandarlo in consulenza per una meningite. Ri­spondo che vado io.
Prendo la strada del pronto soccorso. Faccio un lungo giro. Mi fermo al centro del cortile. Noto che il tempo sta cambiando. In mezzo a uno squarcio di nuvole risplende, con quella solita faccia da ragazza triste, la luna. Arrivo all’ingresso del pronto soccorso. Premo il pulsante che si trova a lato sul muro per aprire la porta automatica. Il corridoio è pieno di sedie a rotelle e sembra di essere a piazza di Spagna. Il pronto soccorso è una casba con gente di tutte le razze e di tutte le età. Mi fanno entrare nella sala urgenza numero tre. Lì trovo la collega. È una giovane ed è anche ca­rina. Porta gli occhiali e ha un piccolo tatuaggio sul braccio. Parla con una voce due ottave più alte del normale. Entra ed esce dalla stanza e parla con più persone contemporaneamente. Poi, finalmente, si ferma. Lei sospet­ta una meningite o un’emorragia subaracnoidea. Ha mandato il paziente dal neurologo che l’ha snobbata senza neppure rispondere al suo quesito. Ha scritto: esame obiettivo neurologico negativo (con punto esclamativo) e ha mandato il paziente dall’ortopedico. L’ortopedico ha scritto: non ci sono problemi ortopedici. In buona sostanza, se ne sono entrambi lavati le mani. Ripete continuamente: “Non si può mandare a casa”.
Visito il malato. È un rumeno, un omaccione che pesa più di un quin­tale. È spaventato. Non trovo niente, tutto negativo. Non ha la febbre né segni nucali. La dottoressa dice che aveva febbre ma ora non l’ha più per­ché gli hanno dato la tachipirina.
Allora perché, secondo te, dovrebbe avere una meningite? “Perché ha una cefalea nucale”, mi ammonisce la collega con aggressività.
“Ma ha anche centodieci di pressione” rispondo io.
“È una pressione da camice bianco”, risponde sicura.
Mi accorgo che il rumeno ci guarda come lo spettatore di una partita di tennis. Ogni volta che parla la dottoressa però annuisce. Penso che sono stato uno stupido. Me ne fossi rimasto in reparto avrei scritto anch’io “esame obiettivo negativo”.
Il problema è il seguente: non ha di sicuro una meningite. Non si sta parlando di probabilità ma della paura del paziente e della presunzione della dottoressa. È paradossale ma è così. Devo fare un esame inutile per soddisfare le fobie del paziente e le ossessioni della mia collega. E se l’a­vesse sul serio la meningite? Chi me lo fa fare di rischiare? Faccio prima a praticare una puntura lombare che stare qui a spiegare che l’esame è inutile.
Il punto è di fondamentale importanza per capire il sistema. Il sospetto di essere malati si esprime come un tarlo, un’idea intrusa. Basta pensare alla commedia intitolata “il trionfo della medicina” nella quale, il dottor Knox, arriva in un villaggio di gente sana e, a poco a poco, riesce a fare ammalare tutto il paese. Di fronte al dubbio di essere ammalati chiunque, anche gli stessi medici, provano un bisogno di rassicurazione. Come si chiama questa malattia? Si chiama paura! L’unico modo per guarire da essa è di escluderne le cause facendo esami inutili. Il fatto ridicolo è che la prevenzione è l’alibi per qualsiasi comportamento ossessivo compul­sivo e per lo spreco di tante risorse. Prevenire è meglio che curare… così almeno si dice. L’ipocondria dei pazienti è un tabù e non se ne parla per opportunità, tutta politica. Ma i medici che sono ipocondriaci per igno­ranza, per indole e personalità o per puro paraculismo, andrebbero bloc­cati subito, già all’università.
Telefono in reparto. Chiedo se qualcuno può venire con gli aghi per fare una puntura lombare. Mentre aspetto, un altro medico, mi vede e mi con­segna un altro verbale. Mi propone di vedere un nuovo paziente in un’al­tra stanza. È un ragazzo di vent’anni. La madre è arrabbiata. Sono cinque ore che aspetta senza che nessuno abbia ancora visitato suo figlio. Ha la febbre da quasi due settimane e mal di gola. L’età e le tonsille mi fanno sospettare la mononucleosi, ma non sento milza né fegato. Il ragazzo è molto pallido e, nel dubbio, consiglio il ricovero.
È arrivata l’infermiera con aghi e provette. C’è un problema tecnico da risolvere. Come si può fare una puntura lombare a uno che ha un tutore a una gamba? La facciamo a paziente disteso? Proviamo allora a metterlo disteso, ma la gamba gli fa troppo male. Ritorniamo nella posizione sedu­ta. La schiena è tutta storta. Dico a me stesso: ok, facciamo un tentativo. Se non riesce la dottoressa sarà contenta lo stesso. Mi metto seduto e ho la schiena del paziente davanti. Comincio a palpare la cresta iliaca, nella parte alta e laterale del bacino per avere un punto di repere. Traccio una linea mentale e tocco la colonna vertebrale. Ora devo trovare quel piccolo spazio che c’è tra una vertebra e l’altra. A questo livello, tra la quarta e la quinta vertebra lombare, non c’è pericolo. Il midollo spinale finisce tre quattro spazi più in alto. Questo è il momento decisivo. La posizione del paziente è fondamentale. Controllo che sia più dritto possibile mentre abbraccia il cuscino. Devo concentrarmi. Qualche volta quando faccio la lombare immagino di essere un toreador che con la spada deve centrare il toro nel punto giusto. Lentamente passo il mercurocromo per disinfetta­re la zona. L’infermiera ha preparato un tavolino con un telino sterile con tutto l’occorrente. Ora so che devo immaginare la vertebra, com’è fatta e dove devo passare.
“Ago rosa o ago giallo?” Chiede l’infermiera.
L’ago giallo è più sottile e, se prendi l’osso, si piega con un rumore che irrita come quello del gesso sulla lavagna. Se il malato si muove, o va via di testa, si può anche spezzare. Personalmente preferisco l’ago rosa: è molto più serio e affidabile. È lungo una decina di centimetri ed è grosso a suf­ficienza per non rompersi.
Ora tutto è pronto e si sente l’adrenalina come alla partenza di un gran premio di formula uno. “Ok, adesso ti pungo”, gli dico. “Non ti muovere, mi raccomando”, esclamo a voce alta. Faccio un respiro profondo e pian­to l’ago tenendolo dritto e perpendicolare alla schiena. Parto ed entro per i primi tre quattro centimetri. Bene, fin qui nessun problema. Altro re­spiro. So bene che se tocco l’osso deve tirare l’ago indietro e mirare più in alto. Entro ancora per uno-due centimetri. L’ago rosa fa il suo dove­re, taglia i muscoli e i legamenti con molta dedizione. Non sento anco­ra l’osso. Do un colpetto e sento quel rumorino secco. Quando passo il legamento giallo, sento una specie di “crack”. Non lo sento nell’ago, ma dentro di me. Allora vuol dire che sono dentro. Tiro indietro il mandrino e aspetto con grande speranza. E invece non sono dentro. Spingo l’ago per un altro mezzo centimetro e riprovo a estrarre il mandrino. Ecco che arriva il liquor. Sgorga come acqua di sorgente da un rubinetto che apro e chiudo avanzando o ritraendo il mandrino. Mi passano la prima provetta che riempio con due centimetri cubici. Riempio qualche altra provetta. Poi estraggo l’ago rosa e il mio sguardo incontra quello della collega che mi guarda ammirata. Torno in reparto. Dopo mezz’ora telefona la collega. L’esame del liquor è negativo, ma ora lei è molto contenta. Abbiamo fatto prevenzione. Fan culo.


Ore 00,10
Si se...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Sommario
  5. Avvertenza
  6. Presentazione
  7. Premessa
  8. Prologo
  9. Tersilli
  10. Un nuovo mondo
  11. La prima impressione è quella che conta
  12. Scudi umani
  13. Comandare è meglio che fottere
  14. Panorama ospedaliero
  15. Nadia
  16. Melli
  17. L'errore
  18. Omicidio colposo
  19. Autopsia
  20. Scienza e coscienza
  21. Direttore generale
  22. Giulia
  23. Trasferimento
  24. Telegramma
  25. Inaugurazione
  26. Il mercato delle vacche
  27. Carlo
  28. La torta di merda
  29. Epilogo