Storia della Letteratura Italiana
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La Storia della letteratura italiana è la principale opera di Francesco De Sanctis (1817-1883), il più eminente critico letterario e saggista italiano dell'Ottocento: essa costituisce la prima, sistematica, compatta e coerente sintesi di tutta la letteratura italiana. "La singolarità di quest'opera consiste nell'essere insieme una storia della letteratura e una storia della vita morale del popolo italiano. La preoccupazione moralistica può parere qua e là che deformi la visione dello storico letterario; ma, invero, bisogna riconoscere che ogni storico traccia sempre la storia di un suo mito. Senza quel mito di un'Italia che decade per eccesso di letteratura, e che la grandezza drammatica della storia italiana risiede in questa antinomia fra lo splendore dell'ingegno e la decadenza politica, non avremmo avuto un'opera così compatta e così eloquente." (Luigi Russo)

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Informazioni

Editore
Ledizioni
Anno
2013
ISBN
9788867051045

Francesco De Sanctis

Storia della letteratura italiana

Ledizioni

I
I SICILIANI

Il più antico documento della nostra letteratura è comunemente creduto la cantilena o canzone di Ciullo (diminutivo di Vincenzo) di Alcamo, e una canzone di Folcacchiero da Siena.
Quale delle due canzoni sia anteriore, è cosa puerile disputare, essendo esse non principio, ma parte di tutta un’epoca letteraria, cominciata assai prima, e giunta al suo splendore sotto Federico secondo da cui prese il nome.
Federico secondo, imperatore d’Alemagna e re di Sicilia, chiamato da Dante “cherico grande”, cioè uomo dottissimo, fu, come leggesi nel novelissimo signore, nella cui corte a Palermo venia “la gente che avea bontade, sonatori, trovatori e belli favellatori”. E perciò i rimatori di quel tempo, ancorchè parecchi sieno d’altra parte d’Italia, furono detti siciliani.
Che cosa è la cantilena di Ciullo?
È una tenzone, o dialogo tra Amante e Madonna, Amante che chiede, e Madonna che nega e nega, e in ultimo concede, tema frequentissimo nelle canzoni popolari di tutt’i tempi e luoghi, e che trovo anche oggi a Firenze nella Canzone tra il Frustino e la Crestaia.
Ciascuna domanda e risposta è in una strofa di otto versi, sei settenari, di cui tre sdruccioli e tre rimati, chiusi da due endecasillabi rimati. La lingua è ancor rozza e incerta nelle forme grammaticali e nelle desinenze, mescolata di voci siciliane, napolitane provenzali, francesi, latine. Diamo ad esempio due strofe:
AMANTE
Molte sono le femine
c’hanno dura la testa,
e l’uomo con parabole
le dimina e ammonesta:
tanto intorno percacciale
sinchè l’ha in sua podesta.
Femina d’uomo non si può tenere.
Guàrdati, bella, pur di ripentere.

MADONNA
Che eo me ne pentesse?
Davanti foss’io auccisa,
ca nulla buona femina
per me fosse riprisa.
Er sera ci passasti
correnno alla distisa.
Acquistiti riposo, canzoneri:
le tue paraole a me non piaccion gueri.
La canzone è tirata giù tutta d’un fiato, piena di naturalezza e di brio e di movimenti drammatici, rapida, tutta cose, senza ombra di artificio e di rettorica. Ci è una finezza e gentilezza di concetti in forma ancor greggia, ineducata. E perciò il documento è più prezioso, perchè se l’ingegno del poeta apparisce ne’ concetti e ne’ sentimenti e nell’andamento vivo e rapido del dialogo, la forma è quasi impersonale, ritratto immediato e genuino di quel tempo.
E studiando in quella forma, è facile indurre che c’era allora già la nuova lingua, non ancora formata e fissata, ma tale che non solo si parlava, ma si scriveva; e c’era pure una scuola poetica col suo repertorio di frasi e di concetti, e con le sue forme tecniche e metriche già fissate.
Chi sa quanto tempo si richiede perchè una lingua nuova acquisti una certa forma, che la renda atta ad essere scritta e cantata, può farsi capace che la lingua di Ciullo, ancorachè in uno stato ancora di formazione, dovea già essere usata da parecchi secoli indietro.
E ci volle anche almeno un secolo, perchè fosse possibile una scuola poetica, giunta allora all’ultimo grado della sua storia, quando i concetti, i sentimenti e le forme diventano immobili come un dizionario e sono in tutti i medesimi.
Come e quando la lingua latina sia ita in decomposizione, quali erano i dialetti usati dalle varie plebi, come e quando siensi formate le lingue nuove o moderne neolatine, quando e come siesi formato il nostro volgare, si può congetturare con più o meno di verisimiglianza, ma non si può affermare per la insufficienza de’ documenti. Oltrechè, non è questo il luogo di esaminare e chiarire quistioni filologiche di così alto interesse, materia non ancora esausta di sottili e appassionate discussioni.
Si possono affermare alcuni fatti.
La lingua latina fu sempre in uso presso la parte colta della nazione, parlata e scritta da’ chierici, da’ dottori, da’ professori e da’ discepoli. Ricordano Malespini dice che Federico secondo seppe “la lingua nostra latina e il nostro volgare”.
Ci erano dunque due lingue nostre nazionali, il latino e il volgare. E che accanto al latino ci fosse il volgare, parlato nell’uso comune della vita, si vede pure da’ contratti e istrumenti scritti in un latino che pare una traduzione dal volgare, e dove spesso accanto alla voce latina trovi la voce in uso con un “vulgo dicitur”, o “dicto.”
Questo volgare non era in fondo che lo stesso latino, come erasi ito trasformando nel linguaggio comune, detto il “romano rustico”. Nell’812 il concilio di Torsi raccomanda ai preti di affaticarsi a dichiarare le omelie in “lingua romana rustica”. Questa lingua romana o romanza, dice Erasmo, presso gli spagnuoli, gli africani, i galli e le altre romane province era così nota alla plebe, che gli ultimi artigiani intendevano chi la parlasse, “solo che l’oratore si fosse accostato alla guisa del volgo”. Il volgo dunque parlava un dialetto molto simile al romano, e similissimo a questo dovea essere il nostro volgare, anzi quasi non altro che questo, uno nelle sue forme sostanziali, vario ne’ diversi dialetti, quanto alle sue parti accidentali, come desinenze, accenti, affissi, ecc. C’era dunque un tipo unico, presente in tutte le lingue neolatine, e più prossimo, come nota Leibnizio, alla lingua italica, che ad alcun’altra.
Con lo scemare della coltura prevalsero i dialetti. Per le chiese per le scuole, negli atti pubblici era usato un latino barbaro, molto simile alla lingua del volgo. Nell’uso comune il volgare non era parlato in nessuna parte, ma era dappertutto, come il tipo unico a cui s’informavano i dialetti e che li certificava di una sola famiglia.
Questo tipo o carattere de’ nostri dialetti appare e nella somiglianza de’ vocaboli e delle forme grammaticali, e ne’ mezzi musicali e analitici sostituiti alla prosodia e alle forme sintetiche della lingua latina. Il nome generico della nuova lingua, come segno di distinzione dal latino, era il “volgare”. Così Malespini dicea: “la nostra lingua latina e il nostro volgare”, cioè la nuova lingua parlata in tutta Italia dal volgo ne’ suoi dialetti.
Con lo svegliarsi della coltura, se parecchi dialetti rimasero rozzi e barbari, come le genti che li parlavano, altri si pulirono con tendenza visibile a svilupparsi dagli elementi locali e plebei, e prendere un colore e una fisonomia civile, accostandosi a quel tipo o ideale comune fra tante variazioni municipali, che non si era perduto mai, che era come criterio a distinguere fra loro i dialetti più o meno conformi a quello stampo, e che si diceva il “volgare”, così prossimo al romano rustico.
Proprio della coltura è suscitare nuove idee e bisogni meno materiali, formare una classe di cittadini più educata e civile, metterla in comunicazione con la coltura straniera, avvicinare e accomunare le lingue, sviluppando in esse non quello che è locale, ma quello che è comune.
La coltura italiana produsse questo doppio fenomeno: la ristaurazione del latino e la formazione del volgare. Le classi più civili da una parte si studiarono di scrivere in un latino meno guasto e scorretto, dall’altra, ad esprimere i sentimenti più intimi e familiari della nuova vita, lasciando alla spregiata plebe i natii dialetti, cercarono forme di dire più gentili, un linguaggio comune, dove appare ancora questo o quel dialetto, ma ci si sente già uno sforzo ad allontanarsene e prendere quegli abiti e quei modi più in uso fra la gente educata e che meglio la distinguano dalla plebe.
Questo linguaggio comune si forma più facilmente dove sia un gran centro di coltura, che avvicini le classi colte e sia come il convegno degli uomini più illustri. Questo fu a Palermo, nella corte di Federico secondo, dove convenivano siciliani, pugliesi, toscani, romagnoli, o per dirla col Novellino, “dove la gente che avea bontade venìa a lui da tutte le parti”.
Il dialetto siciliano era già sopra agli altri, come confessa Dante. E in Sicilia troviamo appunto un volgare cantato e scritto, che non è più dialetto siciliano e non è ancora lingua italiana, ma è già, malgrado gli elementi locali, un parlare comune a tutt’i rimatori italiani, e che tende più e più a scostarsi dal particolare del dialetto, e divenire il linguaggio delle persone civili.
La Sicilia avea avuto già due grandi epoche di coltura, l’araba e la normanna. Il mondo fantastico e voluttuoso orientale vi era penetrato con gli arabi, e il mondo cavalleresco germanico vi era penetrato co’ normanni, che ebbero parte così splendida nelle Crociate. Ivi più che in altre parti d’Italia erano vive le impressioni, le rimembranze e i sentimenti di quella grande epoca da Goffredo a Saladino; i canti de’ trovatori, le novelle orientali, la Tavola rotonda, un contatto immediato con popoli così diversi di vita e di coltura, avea colpito le immaginazioni e svegliata la vita intellettuale e morale. La Sicilia divenne il centro della coltura italiana. Fin dal 1166 nella corte del normanno Guglielmo II convenivano i trovatori italiani. Sotto Federico secondo l’Italia colta avea la sua capitale in Palermo. Tutti gli scrittori si chiamavano “siciliani”. Cronache, trattati scrivevano in un latino già meno rozzo, anzi ricercato e pretensioso, come si vede nel Falcando. I sentimenti e le idee nuove avevano la loro espressione in quel romano rustico, fondo comune di tutt’i dialetti e divenuto il parlare della gente colta, il “volgare”, di tutt’i volgari moderni il più simile al latino.
La lingua di Ciullo non è dialetto siciliano, ma già il volgare, com’era usato in tutt’i trovatori italiani, ancora barbaro, incerto e mescolato di elementi locali, materia ancora greggia.
Vi si trova una forma poetica molto artificiosa e musicale, con un gioco assai bene inteso di rime, e grande ricchezza e spontaneità di forme e di concetti. Per giungere fin qui è stato necessario un lungo periodo di elaborazione. Ciullo è l’eco ancora plebea di quella vita nuova svegliatasi in Europa al tempo delle Crociate, e che avea avuta la sua espressione anche in Italia, e massime nella normanna Sicilia. Di quella vita un’espressione ancor semplice e immediata, ma più nobile, più diretta e meno locale, è nella romanza attribuita al re di Gerusalemme e nel Lamento dell’amante del crociato, di Rinaldo d’Aquino. Sentimenti gentili e affettuosi sono qui espressi in lingua schietta e di un pretto stampo italiano, con semplicità e verità di stile, con melodia soave. Cantato e accompagnato da istrumenti musicali, questo “sonetto”, come lo chiama l’innamorata, dovea fare la più grande impressione. Comincia così:
Giammai non mi conforto
nè mi voglio allegrare.
Le navi sono al porto
e vogliono collare.
Vassene la più gente
in terre d’oltremare.
Ed io, oimè lassa dolente!
Come degg’io fare?
Vassene in altea contrata,
e nol mi manda a dire:
ed io rimango ingannata.
Tanti son li sospire
che mi fanno gran guerra
la notte con la dia;
nè in cielo nè in terra
non mi pare ch’io sia.
Il seguito della canzone è una tenera e naturale mescolanza di preghiere e di lamenti, ora raccomandando a Dio l’amato, ora dolendosi con la croce:
La croce mi fa dolente,
e non mi val Deo pregare.
Oimè, croce pellegrina,
perchè m’hai così distrutta?
Oinzè lassa tapina!
ch’io ardo e incendo tutta.
Finisce così
Però ti prego, Dolcetto,
che sai la pena mia,
che me ne facci un sonetto
e mandilo in Soria:
ch’io non posso abentare
notte, nè dia:
in terra d’oltremare
ita è la vita mia.
La lezione è scorretta; pure, questa è già lingua italiana, e molto sviluppata ne’ suoi elementi musicali e ne’ suoi lineamenti essenziali.
L’amante che prega e chiede amore, l’innamorata che lamenta la lontananza dell’amato, o che teme di essere abbandonata, le punture e le gioie dell’amore, sono i temi semplici de’ canti popolari, la prima effusione del cuore messo in agitazione dall’amore. E queste poesie, come le più semplici e spontanee, sono anche le più affettuose e le più sincere. Sono le prime impressioni, sentimenti giovani e nuovi, poetici per sè stessi, non ancora analizzati e raffinati.
Di tal natura è il Lamento dell’innamorato per la partenza in Storia della sua amata, di Ruggerone da Palermo, e il canto di Odo delle Colonne, da Messina, dove l’innamorata con dolci lamenti effonde la sua pena e la sua gelosia. Eccone il principio:
Oi lassa innamorata,
contar vo’ la mia vita,
e dire ogni fiata,
come l’amor m’invita,
ch’io son, senza peccata,
d ’assai pene guernita
per uno che amo e voglio,
e non aggio in mia baglia,
siccome avere io soglio;
però pato travaglia.
Ed or mi mena orgoglio,
lo cor mi fende e taglia.
Oi lassa tapinella,
come l’amor m’ha prisa!
Come lo cor m’infella
quello che m’ha conquisa!
La sua persona bella
tolto m’ha gioco e risa,
ed hammi messa in pene
ed in tormento forte:
mai non credo aver bene,
se non m’accorre morte,
e spero, là che vene,
traggami d’esta sorte.
Lassa che mi dicia,
quando m’avìa in celato:
– Di te, o vita mia,
mi tegno più pagato,
che s’io avessi in balìa
lo mondo a signorato.
Sono sentimenti elementari e irriflessi, che sbuccian fuori nella loro natia integrità senza immagini e senza concetti. Non ci è poeta di quel tempo, anche tra i meno naturali, dove non trovi qualche esempio di questa forma primitiva, elementare, a suon di natura, come dice un poeta popolare, e com’è una prima e subita impressione colta nella sua sincerità. Ed è allora che la lingua esce così viva e propria e musicale che serba una immortale freschezza, e la diresti “pur mo’ nata”, e fa contrasto con altre parti ispide dello stesso canto. Rozza assai è una canzone di Enzo re; ma chi ha pazienza di leggerla, vi trova questa gemma:
Giorno non ho di posa,
come nel mare l’onda:
core, chè non ti smembri?
Esci di pene e dal corpo ti parte:
ch’assai val meglio un’ora
morir, che ognor penare.
Rozzissima è una canzone di Folco di Calabria, poeta assai antico; ma nella fine trovi lo stesso sentimento in una forma certo lontana da questa perfezione, pur semplice e sincera:
Perzò meglio varria
morir in tutto ...

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