Linguaggio, letteratura
e scienze neuro-cognitive
A cura di
Stefano Calabrese e Stefano Ballerio
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INTRODUZIONE
di Stefano Calabrese e Stefano Ballerio
Se la cognitive poetics si è da tempo conquistata uno spazio indiscusso nella comunità scientifica e comincia a diventare una stabile presenza nel settore delle humanities, le neuroscienze trovano ancora una certa resistenza da parte degli studiosi di letteratura, almeno in Italia. Il motivo di tale resistenza è duplice. Da un lato nella nostra cultura è stata rimarchevole la polemica contro la diffusione – ritenuta arbitraria, ingiustificata, addirittura perniciosa – del prefissoide neuro, accusato, come già avvenuto nel caso di postmodernità, di introdurre in ambito scientifico strumenti e metodi ricavati dalle neuroscienze solo perché nuovi, alla moda, circondati dal consenso dei media e del giornalismo più corrivo. In realtà, quella che poteva sembrare una moda – l’applicazione delle tecniche di neuro-imaging per fotografare le attività del cervello umano – si è rivelata una autentica rivoluzione conoscitiva, che in brevissimo tempo ha mutato strumenti e scopi della ricerca di base in ambito scientifico, ma altresì l’impostazione e il senso stesso degli studi umanistici. Ma proprio le discipline umanistiche, o meglio i settori metodologicamente più conservatori all’interno di esse, hanno costituito la seconda ragione del ritardo con cui la neuroretorica è approdata in Italia. Alcuni hanno temuto che fosse in atto il tentativo di espropriare ogni singolo studioso di una libertà interpretativa che le scienze esatte non riconoscono, ma che pertiene da sempre agli studia humanitatis; per evitare che il linguista, lo studioso di letteratura o l’ermeneuta filosofico rischiassero l’estinzione o che dovessero indossare il camice bianco del ricercatore di laboratorio, la strada più breve era il rifiuto delle neuroscienze.
Questi timori si sono rivelati infondati o ampiamente eccessivi, e oggi tutti desiderano favorire un’integrazione disciplinare fino a qualche anno fa inconcepibile. Siamo in ritardo, ma si tratta di un ritardo recuperabile, se solo nel 2010 l’autorevole rivista americana Rhetoric Society Quarterly ha dedicato un numero monografico alla definizione della neuroretorica (neurorhetorics), intendendo principalmente con questo termine un orientamento della comunità scientifica che studia le dinamiche della comunicazione e della cognizione alla luce dei risultati ottenuti a partire dagli anni Novanta grazie alle nuove tecniche di neuro-imaging (come la TMS, Transcranial Magnetic Stimulation, o la PET, Positron Emission Tomography), in grado di fotografare con una precisione inconcepibile solo dieci anni prima l’attività del nostro cervello mentre osserviamo qualcosa, deliberiamo di compiere un certo tipo di azione, rielaboriamo le percezioni corporee. In questo senso, la neuroretorica costituirebbe sia un ambito di studi interdisciplinari (che unisce linguistica, teoria della letteratura, neurofisiologia, cognitivismo e psicologia sperimentale, oltre alla retorica classica), sia una particolare attività grazie alla quale manipoliamo l’attività neuronale dei nostri interlocutori per persuaderli a compiere qualcosa o a credere in qualcuno. Lo dimostra l’importante contributo di apertura, a firma di Giovanni Buccino e Marco Mezzadri, sulla teoria dell’embodiment applicata al linguaggio e sulle sue conseguenze per la glottodidattica. Già nel 1999, in Philosophy in the Flesh, George Lakoff e Mark Johnson scrivevano che la centralità dell’embodiment caratterizza le scienze cognitive di seconda generazione rispetto a quelle di prima generazione. I risultati empirici degli anni successivi, e le ricerche attuali, sembrano suffragare ulteriormente una visione incarnata del linguaggio: «i contributi più recenti delle neuroscienze – scrivono infatti Buccino e Mezzadri – suggeriscono una stretta relazione tra la modulazione dell’attività dei sistemi motorio e sensoriale e l’analisi e la comprensione di diverse categorie grammaticali (nomi, verbi ed aggettivi)» (23). Ne derivano anche alcune conseguenze interessanti per la glottodidattica: se infatti «l’esperienza sensori-motoria a cui fanno riferimento specifici elementi linguistici come i nomi, i verbi e gli aggettivi […] è centrale sia nella comprensione che nella produzione linguistica» (34), l’insegnamento di una lingua dovrà fare leva innanzitutto su questa esperienza del discente, ponendola al centro dell’idea stessa di significato linguistico.
Le implicazioni di questa visione del linguaggio non si fermano alla glottodidattica. Se pensiamo alla marginalizzazione di cui era oggetto l’esperienza del lettore all’interno del paradigma strutturalista e alla visione disincarnata che esso proponeva del linguaggio, il cambiamento di prospettiva al quale siamo arrivati con la teoria dell’embodiment, che lega essenzialmente esperienza individuale e significato linguistico, appare radicale.
I processi cognitivi e l’esperienza del lettore, d’altra parte, sono terreno privilegiato della cognitive poetics e su questo terreno si colloca anche il saggio di Marco Caracciolo. Muovendo dall’idea di dissonanza cognitiva di Leon Festinger, Caracciolo si concentra sugli atteggiamenti che il lettore può assumere rispetto ai personaggi letterari quando la visione e l’esperienza del mondo che essi manifestano siano in contrasto con le sue ed elabora un quadro teorico che li individua nello spazio tra i due poli del «cambiamento d’atteggiamento» e della «resistenza immaginativa». La riflessione teorica ci dice che la dissonanza cognitiva generata durante l’atto di lettura può avere «un impatto sia sulla percezione di sé dei lettori che sulla loro personalità per come può essere misurata attraverso test psicologici» (67); la sperimentazione ci potrà dire in che misura ciò effettivamente accada. Inoltre, la risoluzione della dissonanza cognitiva verso l’uno o l’altro polo mostra come la dimensione etica – la nostra disponibilità di lettori o il nostro rifiuto di assumere la prospettiva dei personaggi per ragioni etiche – incida sulle possibilità dell’opera di agire sulla nostra visione del mondo e di noi stessi.
Se la ethical turn che secondo alcuni interpreti ha interessato gli studi letterari dalla fine del secolo scorso non può essere imputata all’influsso del cognitivismo, è certo interessante osservare come etica e cognizione si leghino peculiarmente nella cognitive poetics, dove la dimensione etica si precisa innanzitutto come esperienza morale del lettore e come relazione tra lettore e personaggio.
Si tratta di aspetti della letteratura e della sua esperienza che emergono anche nel successivo saggio di Gabriela Tucan. Nel saggio di Tucan, in particolare, l’esame di Il ritorno del soldato e di Grande fiume dai due cuori, di Ernest Hemingway, mostra come la dimensione controfattuale sia decisiva per l’identità dei personaggi e insieme per la sua ricostruzione interpretativa da parte dei lettori. Tucan si richiama in particolare alla teoria del blending, nella quale riconosce un tramite privilegiato per un incontro fra linguistica e critica letteraria, e ancora nota come nel quadro della cognitive poetics il lettore sia riconosciuto come «intelligenza incarnata» (86).
L’embodiment torna al centro della discussione nel successivo contributo di Grazia Pulvirenti e Renata Gambino, che in particolare si concentrano sul rapporto tra immaginazione e creatività artistica. Pulvirenti e Gambino affrontano questo tema attraverso una nuova interpretazione della scena faustiana della Finstere Galerie, nella quale leggono «una figurazione narrativa allegorica dell’immaginazione colta nell’atto della primordiale creazione della forma» (152). L’immaginazione come processo dinamico, emergente e ancora una volta incarnato è dunque l’obiettivo focale di un discorso che nel definire il proprio orizzonte tra neuroscienze cognitive e fenomenologia – tra Maurice Merleau-Ponty ed Elio Franzini – prosegue una linea ormai consolidata di mediazione delle teorie scientifiche, in vista del loro riferimento all’esperienza dell’arte, ...