Quando hanno aperto la cella
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NUOVA EDIZIONE AGGIORNATA. In Italia in carcere si muore. Alcuni sono suicidi, altri no. E si può morire nel reparto detentivo di un ospedale, come Stefano Cucchi; per strada, come Federico Aldrovandi; legati mani e piedi a un letto di contenzione, come Franco Mastrogiovanni. Si può morire anche durante un arresto, una manifestazione di piazza, un trattamento sanitario obbligatorio. «Quando hanno aperto la cella» porta alla luce le storie di persone che sono entrate in prigione, in caserma o in un reparto psichiatrico e ne sono uscite senza vita. Ricostruisce vicende processuali tormentate, in cui la tenacia di familiari e avvocati si è scontrata con opacità, omertà e, a volte, coperture istituzionali. Racconta di uno Stato che si ricorda di recludere, sorvegliare e punire, ma spesso dimentica di tutelare e rispettare gli individui che gli sono affidati.

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Informazioni

Anno
2013
ISBN
9788865763322
Categoria
Sociologia

SECONDA PARTE

Curriculum vitae. Tredici storie come tante

L’ultima fotografia di Marco Ciuffreda

Via San Francesco da Sales, a Roma, si trova oltre il Tevere. È una viuzza stretta, nel quartiere Trastevere, uno dei luoghi più frequentati da romani e turisti. Davanti a via San Francesco da Sales, come conficcato a forza in quel tessuto di botteghe, trattorie, bar, teatrini e locali, c’è Regina Coeli, costruito per ospitare un monastero e poi divenuto carcere.
La sua costruzione ebbe inizio nel 1643 e venne affidata dalla committente Anna Colonna alla direzione dell’ordine dei carmelitani scalzi. Il convento, aperto nel 1654, già poco tempo dopo stava per essere destinato ad altro fine: un lazzaretto per i contagiati dall’epidemia di peste del 1656. Così non accadde e per due secoli rimase monastero, fino a quando – dopo l’Unità d’Italia – alcune delle celle monacali furono destinate a ospitare detenuti condannati a pene brevi. I successivi progetti di ristrutturazione e di riorganizzazione di Regina Coeli risentono in particolare di due fattori. In primo luogo una legge del 1864 che prevedeva una struttura carceraria fondata su un sistema cellulare, con una cella per detenuto. E poi il dibattito che, infine, giunse anche in Italia, a proposito della funzione e dell’organizzazione interna degli istituti di pena e delle misure disciplinari del silenzio, dell’isolamento e del lavoro coatto. Dal 1873 Regina Coeli è sede di una scuola per allievi guardie da destinare alla custodia (e a questo in genere si attribuisce l’origine di quella che poi sarà la polizia penitenziaria). È su queste basi che si progetta la definitiva ristrutturazione di quel complesso edilizio che verrà portata a termine nel 1900. Già nella seconda metà degli anni ’70 dell’Ottocento faceva corpo unico con Regina Coeli il convento delle Mantellate che ospitava le detenute («Le Mantellate so’ delle suore / A Roma so’ soltanto celle scure / Una campana sona a tutte l’ore / Ma Cristo nun ce sta dentro a ’ste mure» canteranno un secolo dopo Ornella Vanoni e Gabriella Ferri su testo di Giorgio Strehler); e che sarà destinato a questo scopo fino a quando, nel 1959, verrà aperta la sezione femminile di Rebibbia. Nella sua struttura fondamentale Regina Coeli del primo Novecento è uguale all’attuale Regina Coeli.
Anche il rione circostante ha subìto poche trasformazioni. In via San Francesco da Sales c’è ancora una vecchia vetreria. Tra il 1997 e il 1998 un gruppo di professionisti si ritrovano in quei locali che affacciano sul penitenziario per realizzare un progetto artistico.
Tra loro c’è anche Marco Ciuffreda, fotografo d’arte, che si dedica a ritrarre quegli spazi e le opere lì esposte (ne è venuta fuori una pubblicazione, Volume!, edita da Cronopio). Per diversi mesi Ciuffreda fotografa, dall’esterno, le mura del luogo in cui da lì a poco, il 2 novembre 1999, perderà la vita.
I suoi ultimi giorni non sono segnati da violenze dirette a opera di altri. Ciuffreda viene «semplicemente» risucchiato dal carcere: una detenzione che si protrae oltre i termini di legge e l’abbandono da parte di chi avrebbe dovuto assisterlo e curarlo. La morte più frequente nel sistema penitenziario italiano. La sera di giovedì 28 ottobre, Ciuffreda viene arrestato da due ispettori della prima sezione della squadra mobile mentre cede a due persone delle bustine contenenti eroina, in via Cavour a Roma. Durante la perquisizione, nella sua borsa, viene trovata altra eroina. Viene prima portato in questura, e, poi, nell’abitazione che divide con altri, dove vengono sequestrate altre sostanze stupefacenti. In quel momento, a casa di Ciuffreda, c’è anche un suo amico (C.L.) nel cui portafoglio la polizia trova due dosi di eroina. Secondo un verbale steso successivamente, C.L. avrebbe «spontaneamente» dichiarato che la droga gli era stata venduta da Ciuffreda, ma il verbale e quelle dichiarazioni «spontanee» non verranno mai sottoscritte dall’interessato.
Successivamente, viene spiegato a Ciuffreda, incensurato e privo di conoscenze giuridiche, che può nominare un legale di fiducia, ma lui non si avvale di questa possibilità e gli viene assegnato un avvocato d’ufficio. Il suo ingresso a Regina Coeli avviene poco prima dell’una di notte di venerdì 29 ottobre; dopo la procedura di immatricolazione e la visita medica (che lo trova in buone condizioni di salute), viene destinato alla prima sezione, quella dei nuovi giunti, cella n. 12. Già nel 1999 il carcere romano è gravato da una situazione di acuto sovraffollamento, tanto che il direttore, in questi giorni di fine ottobre, ha appena chiesto che non vengano più inviati detenuti almeno per una settimana, e intanto si sta già provvedendo a trasferire centocinquanta persone in altri istituti. La cella dove Marco Ciuffreda passa gli ultimi giorni della sua vita ha quattro letti a castello e a uno di questi è stata aggiunta un’altra rete: quel «terzo piano» sarà il giaciglio di Ciuffreda, almeno per ventiquattr’ore. Poi Ciuffreda inizia a sentirsi male, casca da quell’altezza più di una volta e i compagni di cella gli concedono uno dei letti in basso.
La mattina del venerdì, a poche ore dal suo ingresso, viene visitato dai sanitari del Ser.T, secondo una prassi consolidata per chi, come Ciuffreda, dichiara di essere tossicodipendente. La sera prima, durante la visita medica, ha dichiarato di fare uso di eroina e di essere in cura presso il Ser.T della Asl Roma A, dove gli veniva somministrato metadone, e di avere assunto l’ultima dose del farmaco la mattina del giovedì.
Ciuffreda ha 37 anni e l’esperienza con l’eroina è iniziata in età già adulta. Tempo prima è stato in una comunità di recupero ma, una volta uscito, non è stato in grado di rinunciare all’assunzione di sostanze.
Di certo, però, non si può dire che la sua sia una vita da emarginato. Figlio di una nota giornalista del manifesto, è un professionista stimato per la qualità del suo lavoro. A Regina Coeli, il medico del Ser.T gli prescrive una terapia definita di «routine», consistente in un antidolorifico – per i forti dolori muscolari prodotti dalle crisi di astinenza –, un antiemetico (contro le nausee) e un sedativo di media intensità. In questi anni, nonostante la presenza di medici del Ser.T negli istituti, nella maggioranza dei casi la prescrizione del metadone incontra grandi resistenze, e non viene garantita neanche a quanti, pure, lo assumono con regolarità fuori dal carcere. Notoriamente, le crisi di astinenza sono lunghe e molto dolorose e Marco Ciuffreda, quel venerdì mattina, inizia ad avvertirne i sintomi.
Il giorno dopo, sabato 30 ottobre, c’è l’udienza di convalida dell’arresto in tribunale e la zia di Marco, Anna Maria Ciuffreda, nomina l’avvocato Salvatore Galletta, che prende il posto di quello d’ufficio.
Secondo la ricostruzione fornita dall’indagine ispettiva del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, disposta dopo la morte di Ciuffreda, quel giorno in udienza Marco «non evidenzia alcuna sintomatologia che possa insospettire». L’avvocato Galletta, che non ha potuto avere un colloquio con il suo assistito per via dell’esiguità degli spazi della saletta colloqui, quella mattina affollata di detenuti, lo trova, invece, «molto agitato». Anche il verbale dell’udienza fa pensare che Ciuffreda sia in uno stato di confusione: quando gli viene chiesta la sua occupazione, risponde con un «mi arrangio», omettendo l’attività di fotografo.
Il pubblico ministero chiede la custodia cautelare in carcere, ma l’avvocato si oppone sottolineando la totale mancanza di precedenti generici e specifici e a Ciuffreda vengono concessi gli arresti domiciliari presso l’abitazione della zia.
Da questo momento inizia il suo calvario e quello dei familiari, che non vengono messi a conoscenza della sua condizione. Fino a quando non giunge loro la notizia della morte. E sempre qui si sovrappongono due dinamiche distruttive. Il protrarsi della detenzione e il mancato trasferimento presso il luogo in cui doveva scontare gli arresti domiciliari, secondo la decisione del giudice; e, nel corso di quella detenzione non più legale, la mancata attenzione prestata alla sua condizione di salute e la carenza di cure, che contribuiscono in maniera determinante alla morte.
Anna Maria Ciuffreda, la zia di Marco, dopo l’udienza va a Regina Coeli, aspetta più di due ore e finalmente riesce a capire che i poliziotti per le scorte ai detenuti sono in numero insufficiente; e che il nipote, almeno per quel giorno, non potrà uscire dal carcere. La rassicurazione che riceve, e cioè che Marco sarà portato a casa il più presto possibile, in quel momento appare ancora credibile. Domenica 31 ottobre Ciuffreda viene visitato nell’infermeria del carcere perché accusa una crisi ipotensiva. Il medico dichiarerà, poi, che il paziente è andato alla visita sulle proprie gambe, mentre due detenuti lavoranti diranno di averlo accompagnato di peso poiché Ciuffreda non riusciva a reggersi in piedi. L’episodio ipotensivo regredisce velocemente, ma il medico dispone comunque che il paziente sia tenuto sotto controllo per le ventiquattr’ore successive. Cosa che non accade.
Nessuno, per il resto della giornata di domenica e fino al pomeriggio inoltrato del lunedì – ovvero per quasi ventiquattro lunghe ore –, visita Ciuffreda. Nel frattempo, mentre Ciuffreda inizia a stare veramente male, la questione del suo trasferimento ai domiciliari viene trattata in un’altra ala del carcere, precisamente dall’ufficio matricola e dal cosiddetto nucleo traduzioni e piantonamenti.
In un penitenziario, di solito, avviene così: all’ufficio matricola arrivano tutte le notifiche sulla posizione giuridica dei detenuti, come la concessione della libertà o la possibilità di scontare la pena in una comunità o presso un’abitazione; in quest’ultimo caso, se è stato previsto che il detenuto venga scortato, l’ufficio deve trasmettere la comunicazione al nucleo traduzioni e piantonamenti che, materialmente, esegue il trasferimento. L’ufficio matricola di Regina Coeli riceve le indicazioni sul provvedimento di arresti domiciliari per Ciuffreda presso l’abitazione della zia nel pomeriggio del 30 ottobre, giorno del processo e, visto che si è fatto tardi, viene deciso di rinviare al 31 la comunicazione del provvedimento al nucleo traduzioni.
I due uffici, nella casa circondariale di Regina Coeli, distano poche decine di metri l’uno dall’altro ed è consuetudine che l’ufficio matricola avverta telefonicamente il nucleo e questo invii qualcuno a ritirare manualmente le disposizioni. Gli agenti in servizio presso quegli uffici si rimpallano le responsabilità: dall’ufficio matricola dichiarano di avere provato per tutta la giornata a sollecitare il ritiro della nota in questione, quelli del nucleo, invece, negano di avere avuto la comunicazione quel giorno, dichiarando di averla ricevuta solo il 1° novembre, quando effettivamente viene inviato un agente per il ritiro del documento. In ogni caso, perché il trasferimento non è avvenuto nemmeno quel lunedì 1° novembre? A quanto è emerso, Ciuffreda non è stato portato a casa quel giorno perché, nel frattempo, aveva avuto un nuovo malore ed era stato ricoverato nel centro clinico. Ma c’è da notare che Ciuffreda si è sentito male alle 17, mentre la comunicazione al nucleo traduzioni era arrivata molte ore prima, alle 11 del mattino.
Ciuffreda, quindi, nel pomeriggio del primo novembre viene nuovamente portato in infermeria e questa volta la sua condizione appare ben più grave: «ipotensione, tachicardia, complicatosi poco dopo con cute subcianotica e tachipnea. Segni clinici chiaramente indicativi di un collasso cardio-circolatorio».3
Gli vengono somministrati dei farmaci per fronteggiare la crisi di astinenza in atto e si rende necessario trasferirlo al centro clinico del carcere per permettere un intervento più efficace. Le sue condizioni, però, continuano ad aggravarsi. Non resta altro da fare che chiamare un’ambulanza e ricoverarlo in una struttura esterna. Marco Ciuffreda viene portato all’ospedale Nuovo Regina Margherita, ai sanitari del pronto soccorso appare «disidratato, denutrito, ipoteso, con difficoltà respiratorie che rendono impossibile effettuare la Tac». La copia della cartella clinica redatta in carcere, che dovrebbe essere con lui, non viene consegnata. Quell’ospedale, però, non ha le attrezzature adatte per fronteggiare una simile emergenza, e il giorno dopo, 2 novembre, Ciuffreda viene nuovamente trasferito, questa volta allo Spallanzani. In questo arco di tempo nessun familiare di Ciuffreda viene avvisato del suo ricovero. Anche se un fax, a firma del direttore della casa circondariale di Regina Coeli, e assurdamente datato «24 settembre, ore 13», chiede che i congiunti di Ciuffreda siano avvertiti «con le cautele del caso e la debita urgenza». Ma nessuno dà seguito a questa disposizione. Allo Spallanzani Ciuffreda arriva alle 9 di mattina, in condizioni disperate. Per lui non c’è più niente da fare, muore alle 16.15 per «miocardite sub acuta e pericardite associata ad una sindrome di insufficienza respiratoria acuta».
Per essere salvato, doveva essere portato immediatamente in terapia intensiva. Ma nessun medico, a quanto pare, l’ha ritenuto opportuno. Solo alle 20, alcuni agenti vanno a casa della zia di Ciuffreda – dove Marco avrebbe dovuto scontare i domiciliari – e, per citofono, le comunicano che il nipote è deceduto.
Dopo la sua morte, con uno schema che vedremo ripetersi innumerevoli volte, viene fatta trapelare sui giornali la notizia che Marco Ciuffreda fosse malato di Aids. Basteranno gli esami del sangue effettuati al Nuovo Regina Margherita a smentire la falsa informazione.
Nei giorni successivi la madre di Marco, Giuseppina Ciuffreda, assistita dall’avvocato Grazia Volo, denuncia l’amministrazione penitenziaria per omicidio colposo e omissione d’atti d’ufficio; la procura di Roma apre un’inchiesta sulle cause della morte e il ministero della Giustizia avvia una propria inchiesta interna affidata al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap). Quasi un anno dopo, nel settembre 2000, la procura decide di archiviare il procedimento, assolve i medici del Regina Coeli e non giudica rilevante, sotto il profilo penale, la permanenza di Ciuffreda in carcere nonostante la concessione degli arresti domiciliari. L’avvocato Grazia Volo commenta così la sentenza: «Se tutto ciò fosse avvenuto in qualsiasi altro luogo e non in un carcere, le responsabilità sarebbero sicuramente emerse».4
Anche i processi di primo e secondo grado, che vedono imputati i sanitari del Nuovo Regina Margherita e dello Spallanzani, si concludono con un nulla di fatto. I medici vengono assolti in entrambi i gradi di giudizio: non è ravvisabile una loro responsabilità in quanto hanno «ereditato» una situazione già gravemente compromessa.
L’inchiesta interna del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, rimasta chiusa per molto tempo in qualche cassetto, concluderà tardivamente che si deve «escludere ogni responsabilità, anche di natura omissiva, in capo al personale civile e di polizia penitenziaria». E, tuttavia, non potrà far a meno di evidenziare almeno due punti, che destano «preoccupazione»: «il livello deontologico non è stato – almeno in questo caso – quello auspicabile»; «tutti i livelli direttivi ed operativi dell’istituto romano vanno adeguatamente richiamati ad operare con maggiore senso di responsabilità onde assicurare risultati accettabili in termini di tempestività ed efficienza specie quando si tratta, come nel caso in esame, di dare attuazione a provvedimenti modificativi della detenzione in senso favorevole al soggetto detenuto». Le conclusioni dell’indagine, almeno su quest’ultimo punto, non dicono niente di nuovo rispetto a disposizioni già operanti.
L’allora capo del Dap Gian Carlo Caselli, tre giorni dopo il decesso di Ciuffreda, dirama una circolare indirizzata ai direttori di tutte le carceri italiane in cui afferma il diritto dei detenuti a ottenere immediata esecuzione degli arresti domiciliari e aggiungendo come la prosecuzione della permanenza in cella, dopo la concessione dei domiciliari, sia una vera e propria lesione «di principi presidiati a livello costituzionale». Nel 1998 il suo predecessore, Alessandro Margara, era stato ancora più categorico nel pretendere rapidità di esecuzione degli arresti domiciliari, tanto da spingere il suo vice, dopo che Margara era stato inopinatamente sostituito, ad agire per vanificare quella disposizione. Venne così emessa una circolare «interpretativa» che, in contrasto con quanto stabilito da Margara, attenuava sensibilmente quell’«immediatezza» prima sollecitata.
Tutti i procedimenti penali aperti dopo la morte di Marco Ciuffreda, quindi, si concludono senza che vengano riscontrate responsabilità e le indagini interne si risolvono in qualche blando richiamo e nell’esortazione a «fare meglio». Nulla di fatto.
Nel 2003 Giuseppina Ciuffreda, ancora assistita dall’avvocato Volo, intenta una causa civile contro il ministero della Giustizia. La richiesta è duplice: un risarcimento danni, in quanto unica erede del figlio, per la responsabilità dell’amministrazione riguardante la non esecuzione della misura cautelare degli arresti domiciliari e degli obblighi diretti alla cura della salute dei detenuti; un risarcimento fatto valere in proprio, per il danno morale subito per la lamentata lesione alla libertà personale del figlio. L’ultimo punto viene rigettato dal tribunale di Roma, così come non viene accolta la domanda risarcitoria per la mancata assistenza medica a Ciuffreda in quanto «l’omissione nella rilevazione dei dati della notte precedente alle acuzie verificatesi nel pomeriggio del 1° novembre non consente di agganciare causalmente la morte del Ciuffreda a quell’omessa assistenza». Come è avvenuto prima di Ciuffreda, e come avverrà dopo di lui, il nesso causale che lega al decesso gli avvenimenti precedenti la morte non viene rilevato o viene trascurato o ridimensionato. Con danno incalcolabile ai fini dell’accertamento della verità. Per quanto riguarda l’ingiusta detenzione, invece, è stato riconosciuto il patimento da parte di Marco Ciuffreda di un danno morale, in ragione «della circostanza che il Ciuffreda si trovasse in stato di custodia cautelare e non di detenzione per espiazione pena e quindi in difetto di un accertamento irrevocabile della colpevolezza; della circostanza che le condizioni di salute dell’arrestato fossero destinate a rendere ancora più afflittiva l’illecita permanenza in carcere; della circostanza che l’amministrazione, sostanzialmente, non abbia mai adempiuto all’ordine contenuto nel provvedimento irrogativo della misura degli arresti domiciliari, risultando l’illecito stato detentivo spezzato dal solo intervenuto decesso dell’arrestato». Quel danno morale è stato stimato dal tribunale di Roma in seimila euro.

Il forte infarto di Marcello Lonzi

Il 19 maggio 2010 la procura di Livorno mette la parola fine. Marcello Lonzi, il ventinovenne deceduto l’11 luglio 2003 nel carcere delle Sughere dov’era detenuto dal 3 marzo dello stesso anno, è morto per infarto. Sul piano giudiziario, la sentenza è definitiva. Il gip Rinaldo Merani, durante l’udienza in cui decideva l’archiviazione del caso, ha pronunciato queste parole: «Non ci sono responsabilità di pestaggio del detenuto Marcello Lonzi, né da parte della polizia penitenziaria, né di terzi. Marcello Lonzi è morto per un “forte infarto”». Un forte infarto. Dopo questi sette lunghi anni passati tra udienze, richieste di archiviazione, perizie, controperizie, riesumazioni, la tesi dell’arresto cardiocircolatorio «indipendente», non causato cioè da elementi esterni, per la procura di Livorno è la più convincente, l’unica possibile, quella evidente. Vorrebbe convincersene anche la madre, Maria Ciuffi: forse si potrebbe dire «dovrebbe» convincersene. Ma non ha più molta fiducia nella giustizia, la signora Ciuffi, almeno non in quella amministrata lì, nelle aule del tribunale di Livorno.
Doveva scontare una pena breve, Marcello Lonzi, nove mesi per tentato furto. Era entrato alle Sughere di Livorno il 3 marzo del 2003, a fine ottobre sarebbe uscito. Faceva parte di quella non irrilevante quota di popolazione detenuta che compie reati e finisce in carcere per problemi correlati all’uso di sostanze stupefacenti. Cannabis, alcol, cocaina. Un numero elevato di persone che compie atti di microcriminalità, rivelando problematiche che non dovrebbero richiedere solo sanzioni – se non altro perché, prima o poi, quelle persone dovranno essere reintegrate nella società –, che viene stipato all’interno delle carceri e abbandonato a se stesso. È sotto gli occhi di tutti e lo si ripete da anni: in carcere finiscono gli ultimi e, spesso, non ne escono bene. Marcello Lonzi non ne è uscito vivo.
Le foto di Marcello, del suo corpo appena dopo il decesso, non possono lasciare indifferenti. Non è mai facile guardare l’immagine di un corpo senza vita, soprattutto se di un giovane. Ma quelle istantanee di Marcello Lonzi sono brutali. Ce n’è una scattata all’interno della cella. È disteso sulla schiena, la testa accostata allo stipite della porta blindata semiaperta, il suo sangue scuro è mischiato alla sporcizia sul pavimento, i suoi occhi sono due fessure, il volto è gonfio, la bocca socchiusa mostra alcuni denti rotti. Ha tre tagli, tutti sul lato sinistro del viso: uno appena sopra il labbro, uno sul sopracciglio, l’altro sulla parte alta della fronte che arriva fino all’attaccatura dei capelli. Sul pavimento, intorno alla sua testa, c’è un alone di sangue, molto chiaro, come se qualcuno avesse cercato di lavarlo; i capelli sembrano bagnati, appiccicati, anche questi intrisi di sangue. Nell’incavo vicino all’occhio sinistro, tra il naso e il punto di giunzione delle palpebre, si è raccolto altro sangue, a formare una piccola pozza. La madre è stata una dell...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. In quello spazio vuoto di diritti
  3. Di come si tratta un corpo
  4. Stefano Cucchi e gli altri. Ovvero Ilaria e le altre
  5. PRIMA PARTE
  6. SECONDA PARTE
  7. Cara Valentina e caro Luigi
  8. Le cifre crudeli
  9. Luoghi e modi della privazione della libertà.Un glossario
  10. Note