Scienze inumane e scienze inesatte?
TULLIO DE MAURO
linguista
Nel 1939, nel suo Kleines Lehrbuch des Positivismus nato nell’ambito della grande impresa della Unified Science, Richard von Mises scrisse: «Non si può porre un’antitesi di principio fra le scienze naturali e le scienze dello spirito sia per il loro metodo che per l’oggetto. […] I progressi più decisivi hanno spesso origine dal chiarimento di problemi che si trovano al confine di settori fino ad allora trattati separatamente».
Le questioni che von Mises considerò per arrivare a questa conclusione e che qui vorrei toccare esistono da tempi antichi e ci si ripropongono di continuo. Solo in parte sono soffocate dall’enorme sovrastruttura delle ripartizioni accademiche createsi nelle università prima europee e americane, poi di tutto il pianeta, negli ultimi duecento anni, tradendo anzitutto il senso stesso della parola universitas, che portava con sé l’idea di una globalità, di una coesistenza in uno spazio unico delle diverse articolazioni del sapere. La discussione, per quel che oggi sappiamo, cominciò nelle città greche della Ionia d’Asia (Eraclito ne è un testimone) e dell’Italia meridionale o, meglio, di quella che sola, allora, si chiamava Italia. E la riflessione sulle forme diverse del sapere, sul contrasto tra credenze opinabili e certezze razionali, tra l’osservare e sapere molte cose e il capirne le ragioni profonde e comuni proseguì poi sulla piazza del mercato d’Atene, l’agorà, e poi in luoghi un po’ più appartati, gli orti d’Academo, la palestra di Apollo Liceo riadattata a scuola, il Portico dipinto, l’orto degli epicurei. Ci si chiedeva allora che rapporto vi fosse tra il sapere primordiale, le credenze, la dóxa, e il sapere di chi pratica un mestiere e ne domina la téchne e, infine, il sapere di chi sa levarsi più in alto e fronteggiare nell’insieme credenze e saperi tecnici e giunge dunque all’epistéme. (Come nella parola germanica verstehen, «stare in alto e fronteggiare l’insieme» fu il senso primo di questa antica parola nata in dialetto ionico e così ereditata in Atene e nel greco comune e poi nelle lingue moderne.) Come si distinguono le forme di sapere e le loro diverse articolazioni?
Che siano forme e articolazioni distinte è evidente. La distinzione effettiva e la coscienza della distinzione si sono fatte sempre più marcate col sorgere delle scienze moderne, filologiche, anatomiche, galileiane, linneiane, statistiche, e hanno determinato il nascere del nuovo, specifico senso della parola scientia che ha ereditato e raffinato il senso di epistéme contrapponendosi alle artes medievali. Già Gottfried Leibniz, nel cuore del grand siècle, avvertiva la necessità di costituire una societas doctorum, di specialisti delle diverse scienze, proprio per mettere a confronto saperi in via di divaricarsi e trarne un frutto comune comprensibile oltre i confini speciali di ciascuna scienza. Da allora le nuove scienze si sono andate ancor più suddistinguendo in un vertiginoso processo di specializzazione. Già parecchi anni fa Claude Lévi-Strauss confessava di non riuscire più a seguire buona parte degli sviluppi degli ormai differenti rami della sua disciplina, l’antropologia culturale. Ed è un’esperienza comune nelle università di tutto il mondo la nascita e la moltiplicazione di insegnamenti distinti al posto di uno solo. Ciò è dovuto solo in parte a furbizia accademica, solo in parte è legato alla profluvie di «titolografia concorsuale», che lamentava Gaetano Salvemini già nel 1902. Opera nel profondo della cultura intellettuale migliore una spinta al conoscere analitico, al conoscere che si traduca in proposizioni circostanziatamente falsificabili. Affinatasi nell’età protomoderna, almeno dal Seicento, essa attraversa le fasce più alte e avanzate della cultura intellettuale e del mondo degli studi e ha portato con sé il bisogno di differenziare sezioni distinte del sapere e il ramificarsi sempre più fitto dell’arbor scientiarum. Chi si muove in ambiti in cui importa l’identificazione delle qualità particolari, l’accuratezza dei protocolli osservativi, la replicabilità di esperienze si trova a disagio dinanzi ad ambiti in cui dominano elaborazione di modelli e teorizzazioni matematiche, e viceversa. In parte notevole le rubriche di lettere di riviste come La Recherche o Scientific American o Nature sono dedicate a richieste di chiarimenti e discussioni tra specialisti di settori che a chi è ancora più lontano possono parere vicini e invece, per l’accumularsi di differenti conoscenze e metodologie, tali più non sono.
Un fisico geniale come Ernest Rutherford liquidava gli studiosi di ogni altro ramo scientifico diverso dalla fisica come «collezionisti di francobolli» e la cosa è stata ripetuta anche da fisici meno geniali. In cambio un oggi noto economista, Paul Krugman, ha affermato che la maggioranza dei fisici non comprenderebbe neanche il più semplice modello del rapporto tra domanda e offerta. Un filosofo accreditato, Michael Dummett, ha sostenuto che le scienze naturali, in particolare la matematica, non sono «cultura». In Italia ricordiamo le chiusure di Benedetto Croce e Giovanni Gentile non solo verso lo scientismo, ma verso le stesse scienze naturali ed esatte. In cordiale ricambio i filosofi a loro volta sono coperti di invettive della più varia provenienza, una delle più gentili è di Bertrand Russell: «La filosofia è un tentativo straordinariamente ingegnoso di pensare erroneamente». Così, frasi innocenti, d’apparenza neutramente descrittiva e perfino elogiativa, come è un chimico, è un ingegnere, è un matematico, è un letterato, è un filologo, è un filosofo, è un penalista, è un pedagogista, dette col tono adatto negli ambulacri accademici assumono valore di insulto sanguinoso in questo o quell’ambito accademico.
Se un po’ di buon senso e una scrollata di spalle bastano a liberarsi delle fastidiose conseguenze dell’irrigidimento delle distinzioni e suddistinzioni accademiche, più difficile è mettere in discussione la sacra bipartizione tra scienze naturali o esatte, da un lato, e scienze umane, dall’altro. Essa attraversa gli sforzi di classificazione delle scienze da André-Marie Ampère a Wilhelm Windelband, Pierre Naville e Wilhelm Dilthey ed è concrezionata con l’organizzazione attuale degli studi universitari in ogni parte del mondo. È donchisciottesco pretendere di scalfirla con qualche riflessione?
Una prima è puramente linguistica. Si pensi ai maestri dell’università italiana. Se quella distinzione davvero valesse che dovremmo dire? Che furono scienziati inesatti e innaturali grandi storici e filologi come Gaetano De Sanctis o Guido Calogero, Federico Chabod o Antonino Pagliaro o Ranuccio Bianchi Bandinelli e, invece, furono scienziati inumani grandi fisici o biologi come Emilio Segrè o Giuseppe Montalenti? In certi casi saremmo assaliti dal dubbio: un grande teorico dell’interpretazione come Emilio Betti o un grande economista come Paolo Sylos Labini o un matematico come Bruno de Finetti che furono? Inesatti o inumani a un tempo? E un matematico, attento però come pochi, sulle orme del padre, appassionatamente attento all’educazione e ai diritti di libertà come Lucio Lombardo Radice che sarà stato? Sia innaturale sia inumano? Dai campi elisi le ombre di questi grandi si ribellerebbero a questi epiteti e ci deriderebbero.
Ma, fuor di scherzo, se scherzo è l’applicazione consequenziale della categorizzazione e separazione di scienze naturali o esatte e scienze umane, vi sono grandi ambiti disciplinari in cui la separazione urta contro il loro assetto interno. Tali appaiono tra gli altri l’ambito degli studi economici o di quelli linguistici e ciò e parte subiecti come e parte obiecti. Un linguista è costretto a servirsi di strumenti concettuali e procedure che vengono dagli ambiti più disparati, dall’archeologia alla sociologia, dalla filologia testuale al calcolo delle probabilità. Per i linguisti nella materia stessa che indagano si ridisegnano in modo problematico i confini tra ciò che è natura e ciò che è cultura nel linguaggio. E lo stesso avviene in economia e sociologia, in antropologia e nelle scienze mediche.
Ma il sapere, nel suo intrinseco, facit saltus? La distinzione può essere contrapposizione? Se alcune forme del sapere si adornano (ma solo da alcuni secoli) del nome di scienza e di denominazioni in -logia (come cent’anni fa la ippologia del cavallo di un istruttore della Scuola di cavalleria di Pinerolo), che ne è delle altre? E se tra le scienze solo alcune si vantano naturali o esatte le altre che sono, innaturali? Inesatte? Ovvero, se solo alcune innalzano il vessillo del loro essere umane, le altre che saranno: disumane?
Ma del resto le distinzioni e parte obiecti, da una parte scienze dello spirito, dall’altra scienze della natura, già dalla fine dell’Ottocento hanno cominciato a cedere il passo a distinzioni che guardano più che alla materia indagata alla forma delle indagini. Andava in questo senso già la distinzione tra scienze idiografiche, che guardano all’identità del singolo fatto, e scienze nomografiche, che cercano costanti e leggi, risalente a Wilhelm Windelband e Heinrich Rickert. E andavano in questo senso i tentativi dell’Enciclopedia internazionale della scienza unificata dei tardi anni trenta del Novecento. Se ci rifacciamo a questi, le scienze paiono ordinarsi in ragione del loro diverso grado di formalizzazione, di hardness, di quella coerenza interna che faciliti la falsificabilità dei loro asserti e in ragione, quindi, del loro efficace distacco dall’everyday language, dal «quotidianese».
Riassumeva conclusivamente queste discussioni von Mises nel già ricordato passo del Kleines Lehrbuch des Positivismus che torno a citare più estesamente: «Non si può porre un’antitesi di principio fra le scienze naturali e le scienze dello spirito, sia per il loro metodo sia per l’oggetto. Ogni ripartizione e suddivisione delle scienze ha solo un’importanza pratica e provvisoria, non è sistematicamente necessaria e definitiva, cioè dipende dalle situazioni esterne in cui si compie il lavoro scientifico e dalla fase attuale di sviluppo delle singole discipline. I progressi più decisivi hanno spesso origine dal chiarimento di problemi che si trovano al confine di settori sino ad allora trattati separatamente».
Come avevano mostrato già i grandi filosofi europei tra Sei e Settecento, questi chiarimenti non sarebbero possibili se non possedessimo, con tutte le sue iniziali, felici indeterminatezze di significato, una lingua comune in cui e con cui chiamare a confronto proposizioni teoriche di ambiti scientifici diversi, una lingua comune da cui muovere per edificare nuove determinazioni e nuovi saperi scientifici che integrino i saperi già costituiti. È il nostro comune parlare, non la natura o lo spirito, la vera materia prima su cui nel suo costituirsi lavora ogni sapere scientifico. Questo poter passare grazie alle lingue dalla loro indeterminatezza semantica costitutiva a determinazioni sovra- e interlinguistiche ha una storia remota per la nostra specie. Essa cominciò quando molti millenni prima di Cristo in aree linguistico-geografiche diverse si crearono e svilupparono i nomi univoci dei numeri e i sistemi di numerazione, e fece un gran balzo quando, acquisita la capacità di scrittura, pur sempre grazie a convenzioni la cui matrice fu e resta l’uso linguistico corrente, a nomi e sistemi di numerazione si associarono cifre e simboli scritti. Mossero di là, nei secoli e millenni, le altre più antiche costruzioni e sistemazioni scientifiche: l’astronomia, la geometria, il diritto, le scienze mediche e, via via, altre innumerevoli. Ma la coscienza del comune rapporto con il comune parlare dei popoli non si perdette mai del tutto ed è riaffiorata prepotente nei decenni a noi più vicini. Ho ricordato von Mises, ma altri sono andati nella stessa direzione, logici come Rudolf Carnap, filosofi del linguaggio e logici come Ludwig Wittgenstein, fisici come Albert Einstein. Quest’ultimo osservava nella sua autobiografia intellettuale: gran parte di ciò che noi sappiano lo dobbiamo alle parole della nostra lingua, che altri hanno parlato prima di noi. Senza di esse la nostra intelligenza non sarebbe maggiore di quella di altri mammiferi superiori. Senza di esse non sapremmo costruire i linguaggi e le procedure delle scienze.
In questa prospettiva i diversi ambiti scientifici non si confondono davvero tra loro, anzi si ordinano, ma in modo appropriato, iuxta propria principia, a seconda del loro maggiore o minore avvicinarsi alle condizioni di libertà discorsiva e di precisazioni della comune attività verbale meramente locali, espresse di volta in volta ad hoc. Vicine per eccellenza sono le riflessioni filosofiche non formali e molta parte degli studi storico- e critico-letterari, già più lontani appaiono gli studi filologici e linguistici, la sociologia o le scienze del diritto, che progressivamente vincolano istituzionalmente i loro apparati espressivi, ancora più lontane quelle scienze che introducono sistematicamente i vincoli di misure e della determinazione di estesi blocchi terminologici, come l’economia, la demografia, le tassonomie naturali, la genetica, fino alle scienze fisiche e alle matematiche. Ciò che progressivamente si accresce non è l’inumanità, ma il grado di coerenza interna e di crescente quasi automatica cumulatività delle acquisizioni nuove che si conseguono. Ma anche ai livelli di coerenza massima, nelle matematiche o in fisica, la ricerca si scontra contro il nocciolo duro del constatabile come vero, ma non deducibile, come le «congetture» in ambito matematico, e del constatabile vero, ma non riducibile a princìpi comuni, come avviene per la fisica teorica alle prese con radicali differenze di princìpi tra mondo quantico e mondo macroscopico e tra il mondo che a misura d’uomo diciamo macroscopico e l’infinito cosmo. Proprio nelle aree di coerenza massima, quando mancate deduzioni e incoerenze non superabili obbligano a ripensare e ridefinire princìpi ultimi e fondamenti, il pensiero reincontra la necessità di tornare alla comune matrice linguistica e di discutere di princìpi e fondamenti con tutta la libertà espressiva della riflessione filosofica.
Quella che così ci si prospetta non è una gerarchia, il cammino di battaglioni guidati dai generali dell’astrazione massima e, a seguire, i collezionisti di francobolli, ma piuttosto una danza circolare cui ogni forma di sapere è chiamata a concorrere a condizione che si costituisca e dichiari come un sapere critico un sapere, cioè, che non pretende assolutezza universale, che, anzi e invece, indica i suoi limiti di validità, dunque le sue fonti – sperimentali, documentali e testuali, analitico-deduttive – e gli strumenti terminologico-concettuali con cui opera.
Il parlare comune non è solo la matrice da cui muovono tutte le scienze. È anche il luogo in cui devono, se possono, rifluire i saperi specialistici. Ho ricordato la societas doctorum di Leibniz: essa doveva servire a creare fecondi rapporti tra ambiti di studi diversi ma anche (Leibniz aveva idee chiare in proposito) a mettersi alla prova nel ritradurre in forma accessibile alla più vasta societas i risultati di quelle acquisizioni delle scienze. Queste, come egli vedeva e diceva, erano nate creando e raffinando linguaggi sempre più specifici e remoti dalla loro matrice, la lingua comune, e in questa dovevano infine proporsi di riversare per qua...