Atene 1687
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Atene 1687

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In una calda sera di settembre, un buon mese per terrorizzare i nemici, una bomba fa saltare in ariauna polveriera turca. L'esplosione è immane, blocchi di pietra scaraventati a grande distanza, trecento morti, l'incendio che dura per giorni. I mortai della coalizione cristiana guidata dal veneziano FrancescoMorosini colpiscono il simbolo più insigne dell'antichità classica: il Partenone, giunto quasi intattodai tempi di Pericle a quelli del re Sole.Dopo il 26 settembre 1687 il tempio, ridotto a un cumulo di macerie pronte per il saccheggio, diventeràla camera del tesoro con cui Lord Elgin farà risplendere il British Museum. I cristiani avevano bisogno di una conquista simbolica per dimostrare agli islamici chi fosse il padrone del mondo. Viene scelta Atene, ormai da un paio di secoli in mano turca. Quattro anni prima gli ottomani erano stati respinti alle porte di Vienna, ora sono in ritirata lungo le pianure danubiane, incalzati dagli Asburgo, e le truppe della Serenissima si stanno appropriando di un pezzo di Grecia. Ma piantare il leone di San Marco in cima all'Acropoli in realtàserve a poco: i cristiani saranno costretti ad andarsene sei mesi più tardi, lasciando per un altro secolo e mezzo in mano islamica la città più celebre dell'antichità classica.Con Atene 1687 Alessandro Marzo Magno ripercorre le fasi dell'assedio di Atene, tratteggia i volti dei protagonisti e il loro stupore davanti al tempio distrutto, quindi giunge alla Venezia di oggi dove le tracce di quella guerra sono ancora visibili.Dalle scritte sui muri ai cimeli del comandante della spedizione, agli stendardi ricavati dallecode strappate ai cavalli dei turchi.

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Informazioni

Anno
2011
ISBN
9788865761342
Argomento
Storia
1. All’armi
«La sera di 26 con fortunoso colpo, mentre acceso un deposito di buona quantità di polvere non potè più estinguersi la fiamma, ore andò serpendo, e per due intieri giorni diroccando l’habitato coll’apportarle notabili danni, e crucciose mestizie.»1 Così, con un linguaggio che definire sottotono è un eufemismo, il comandante generale delle forze armate veneziane in Grecia diffonde la notizia di uno dei peggiori danni che mai nella storia siano stati inferti al patrimonio culturale mondiale: la distruzione del Partenone.
Siamo in Grecia alla fine del settembre 1687 e Francesco Morosini, capitano generale da mar della Serenissima, dopo aver conquistato la Morea (Peloponneso)2 ed esser stato per questo onorato del titolo di Peloponnesiaco, sbarca al Pireo. Penetra come un coltello nel burro nel borgo di Atene e ne assedia la rocca – spesso chiamata anche fortezza – ovvero l’Acropoli. I turchi vi si sono rinchiusi con le loro famiglie e hanno immagazzinato beni, polvere da sparo e materiali infiammabili nella costruzione che appare loro più sicura, perché di solido marmo e protetta da un tetto pur esso in pietra: il tempio di Minerva che nei secoli successivi il mondo conoscerà come Partenone. Un colpo fortunato (per gli assedianti) – e non fortuito – fa saltare in aria il deposito di polvere, distrugge l’edificio giunto sostanzialmente intatto, almeno nella struttura, dall’antichità classica, ammazza una quantità di persone (due o trecento) e provoca un incendio che dura due giorni. Questo scempio immane, una delle più nefaste «tra le date funeste della storia dell’archeologia»,3 già pochi mesi dopo si rivelerà del tutto inutile: i veneziani abbandoneranno Atene per l’impossibilità di difenderla (come peraltro ampiamente previsto da Morosini) e la città verrà subito rioccupata dai turchi. Nel 1716 gli ottomani si riprenderanno pure l’intero Peloponneso che rimarrà nelle loro mani fino all’indipendenza della Grecia, nel 1821.
Ma come si è giunti a questo piccolo passo avanti per la condotta della guerra e grosso passo indietro per l’umanità? Che cosa ci sono andati a fare i veneziani ad Atene? Per capire ciò che stava succedendo in quello scorcio finale del XVII secolo bisogna fare un balzo all’indietro.
La Serenissima Repubblica di Venezia e la Sublime Porta intrattengono ormai da due secoli e mezzo un rapporto di amore-odio: si ammirano, si rispettano, si combattono. Hanno bisogno l’una dell’altra per commerciare, Venezia è la porta d’Oriente, in laguna già si diffondono profumi e fragranze levantini, mentre a Costantinopoli vive una colonia stabile di mercanti «marcheschi» (il leone di San Marco è il simbolo della Serenissima). Ma se c’è l’occasione di darsele, nessuno si tira indietro. Per la verità sono più che altro i turchi, il pesce grande, a prendersela con Venezia, il pesce piccolo, ma se quest’ultima può riuscire a infastidire i suoi amici-avversari non ci pensa due volte. Si dice che i veneziani levassero i calici e brindassero augurandosi Copèmo un turco («ammazziamo un turco»), e l’espressione «maritare Venezia al turco» per indicare una cosa impossibile da realizzarsi divenne così proverbiale da essere ripresa da Molière nell’Avaro («Per i matrimoni poi ho un vero bernoccolo […] e credo che se me lo mettessi in testa potrei combinare le nozze del Gran Turco con la Repubblica di Venezia» dice Frosina ad Arpagone; atto II, scena VI).
Se si fan un paio di conti, comunque, salta all’occhio che i periodi d’amore superano di gran lunga quelli d’odio: nei 495 anni che intercorrono tra la nascita dell’impero ottomano (1302) e la caduta della Repubblica (1797), agli 86 anni di guerra se ne contrappongono ben 410 di pace,4 e tra il 1348, anno della prima missione diplomatica turca, e il 1762, quando viene mandata l’ultima, Costantinopoli invia a Venezia 178 missioni, con una media di una ogni poco più di due anni, periodi di guerra inclusi.5 Venezia teneva invece a Costantinopoli un ambasciatore residente, detto «bàilo», in una delle più antiche sedi permanenti della storia della diplomazia (la più antica, ovvero la prima ambasciata mai stabilita al mondo, è pur essa opera della Serenissima: fu istituita a Roma nel 1431 in occasione dell’elezione a papa con il nome di Eugenio IV del veneziano Gabriele Condulmer, mentre l’ex casa bailaggia – ambasciata – veneziana è oggi sede del consolato italiano a Istanbul). Alla fine, veneziani e turchi a forza di frequentarsi finiscono per assomigliarsi e si specchiano gli uni negli altri. Per esempio, in campo sessuale: i veneziani accusano i turchi di smodata libertà, di trasgressioni che li avvicinano ai selvaggi, senza rendersi conto che proprio nella loro città alla fine del Seicento «le devianze sociali erano diffuse e la letteratura erotica finiva per teorizzare le pratiche omosessuali».6
I veneziani ai tempi della quarta crociata, guidata dal novantacinquenne doge Enrico Dandolo, invece di andare a Gerusalemme a liberare il Santo Sepolcro avevano fatto una deviazione per occupare Costantinopoli – troppo acquiescente con Genova – e impossessarsi così di immani ricchezze e della «quarta parte e mezzo dell’impero romano» (intendendo con ciò l’impero d’Oriente). Era il 1204. I veneti avevano voluto per sé le isole dell’Egeo e la grande isola di Candia (Creta), lasciando stare i feudi terragni, buoni per gli spiantati cavalieri franchi, ma puntando piuttosto a solide basi da utilizzare per fruttuosi commerci marittimi. Nel 1489, poi, avevano aggiunto ai loro dominî da mar l’altra grande isola del Mediterraneo orientale: Cipro, convenientemente scambiata con una collina e un castello, in quel di Asolo, nel Trevigiano. Quando infatti la veneziana Caterina Corner, divenuta regina di Cipro per aver sposato l’ultimo re dell’isola, Giacomo II Lusignano, rimane vedova, Venezia vede bene di convincere (e neanche tanto con le buone) la sua ex suddita a rinunciare ai diritti sulla corona cipriota – strategicamente importante per contenere l’espansione ottomana – in cambio della signoria asolana. Lì Caterina darà vita a una delle più feconde corti del Rinascimento italiano, dove Pietro Bembo comporrà gli Asolani e le Prose della volgar lingua, e dove un giovane pittore della vicina Castelfranco – tal Zorzi – comincerà a dar prova della sua maestria prima di diventare più noto con il nome di Giorgione (in definitiva, se vogliamo prenderla molto alla larga, la letteratura e l’arte italiane parecchio devono alle pressioni turche sui possedimenti veneziani).
Nel frattempo – siamo nel 1453 – i turchi di Mehmed II conquistano Costantinopoli sottraendola al restaurato impero bizantino di Costantino XI Paleologo. Gli ottomani non possono non guardare in cagnesco quella «quarta parte e mezzo dell’impero romano» che costituisce una minaccia proprio nel loro giardino di casa. Venezia è una potenza marittima, i turchi combattono con i piedi ben piantati a terra, ma capiscono subito che per spuntare gli artigli del leone marciano devono scendere in acqua. E così fanno. L’incontro in mare tra le due flotte nel 1466, a Patrasso (Pàtra), è per i veneziani una batosta micidiale. I sopracòmiti (comandanti) delle galee col vessillo di San Marco riferiscono atterriti che «el mar pareva un bosco» per il gran numero degli alberi delle galee con la mezzaluna che lo solcavano. I veneziani ne prendono talmente tante che ancor oggi, a cinque secoli e mezzo di distanza, dire di qualcuno el xe nda a Patrasso co tuto significa che quel poveraccio non se la passa affatto bene. Quindi gli ottomani si mettono a spennare le ali del leone: a uno a uno sottraggono a Venezia i territori d’oltremare. Cominciano quattro anni più tardi, nel 1470, mandando trecento galee a conquistare l’isola di Negroponte (Eubea), così vicina alla terraferma – una settantina di metri – che basta gettare un ponticello sul canale di Egripos per farla diventare una penisola. È il sultano in persona, ovvero lo stesso Mehmed II che aveva conquistato Costantinopoli, a guidare le operazione di terra. Vuole mettere subito le cose in chiaro e dimostrare che non ce n’è per nessuno: la strage è tremenda. Veneziani e greci vengono massacrati senza pietà; al comandante Paolo Erizzo viene riservata una sorte beffarda: gli promettono salva la testa e così lo segano a metà. Da vivo, naturalmente. Secondo altre fonti (questa versione appare la più probabile) è il sultano a sgozzarlo personalmente e a lavarsi poi mani e viso col suo sangue. Appresa la notizia in Maggior consiglio, i patrizi (Paolo Erizzo era uno di loro) si riversano in piazza San Marco piangendo di rabbia e stupore.
I veneziani si vendicano due anni dopo, nel 1472, attaccando Smirne (Izmir). Il comandante veneto, Piero Mocenigo, destinato a essere eletto doge, rende pan per focaccia agli ottomani ammazzando tutti gli abitanti, donne e bambini compresi. Poi dà fuoco alla città, anticipando quanto accadrà nello stesso luogo esattamente quattrocentocinquant’anni dopo, nel settembre 1922, quando i turchi massacreranno gli armeni e i greci rifugiati a Smirne e la incendieranno, con le navi britanniche e francesi che assisteranno ormeggiate in rada senza intervenire.
Corone (Koroni) e Modone (Methoni), «gli occhi del Peloponneso», cadono in mani turche nel 1500.
È chiaro che gli ottomani azzannano qua e là i domini veneziani, ma mirano a papparsi il boccone grosso: l’isola di Cipro. Un contributo determinante a scatenare la guerra lo darà un personaggio singolarissimo e originale, un ricchissimo mercante e banchiere ebreo di origine portoghese, Joseph – o Yousef – Nasi. Fuggito da Lisbona, transitato per Anversa, si ferma a Venezia assieme alla zia Gracia Nasi. La Serenissima signoria lo accusa di aver trasformato la sede della sua compagnia commerciale in una centrale di spionaggio a favore dei turchi. Già allora Nasi manifesta l’intenzione di scatenare la guerra tra la Signoria e la Porta: fornisce false informazioni che sottostimano il munizionamento conservato all’Arsenale, in modo da indurre gli ottomani ad attaccare.
Venezia lo bandisce, ma la condanna non ha effetto perché nel frattempo Nasi si è già rifugiato a Costantinopoli dove diventerà consigliere del sultano Selim il Magnifico. Sfrutta questa posizione per far prevalere il partito della guerra, oscurando il gran visir Sokollu Mehmet (un bosniaco il cui vero nome è Sokolić, che nel 1557 ricrea il patriarcato ortodosso di Peć – oggi in Kosovo – e lo affida a suo fratello Macario).7 Gli ottomani mobilitano contro Cipro tutta la loro enorme potenza, la resistenza opposta dai veneziani è epica, ma inutile. Il comandante veneziano, Marcantonio Bragadin, si arrende a Famagosta (Ammochostos) il 9 settembre 1570, dopo che il suo avversario turco, Lala Mustafà, aveva promessa salva la vita a lui e ai suoi uomini. Invece fa massacrare i soldati e scuoiare vivo Bragadin. La pelle del comandante veneziano, riempita di paglia a formare un manichino, viene mandata in giro per Famagosta a dorso d’asino e poi spedita al sultano Selim come trofeo. Nessuno si sorprenderà quando un anno dopo, a Lepanto, i veneziani non faranno prigionieri.
La più grande e sanguinosa battaglia navale combattuta nel Mediterraneo fino alle guerre napoleoniche, Lepanto appunto, avrebbe dovuto sbaragliare la flotta ottomana e salvare Cipro. Il 7 ottobre 1571 nelle acque dell’arcipelago delle Curzolari, in Grecia, la coalizione cristiana sconfigge i turchi, ma la vittoria si rivela infruttuosa: Cipro sarà ugualmente persa e il sultano in breve tempo rimetterà in mare una potente flotta. C’è un quadro a Venezia, nella sala dello Scrutinio del Palazzo ducale, dipinto da Andrea Vicentino, che rappresenta quell’epica battaglia navale. Vi si vede una parte della flotta cristiana che si apre per far fuggire alcune galee turche: erano i genovesi di Gianandrea Doria, preoccupati che Venezia non avesse più nemici a Oriente e potesse rivolgere altrove la sua forza militare. I membri della coalizione saranno anche stati accomunati dalla fede cristiana, ma quanto a comunità d’intenti erano ben lontani fra loro. La Francia, intanto, se ne sta a guardare: in funzione antiasburgica schiaccia l’occhio al sultano (e continuerà a farlo per tutto il Seicento, tanto che – durante la guerra di Morea – la folla a Venezia non troverà nessun musulmano da malmenare per cui se la prenderà con i francesi: quanto di più vicino ai turchi fosse disponibile su piazza). Gli Asburgo sono formalmente alleati di Venezia (il comandante della flotta a Lepanto è don Giovanni d’Austria, figlio naturale di Carlo V, il suo vice Sebastiano Venier, futuro doge di Venezia), ma in realtà l’aquila bicipite e il leone alato hanno interessi divergenti. Non a caso si combattono per secoli interi: nella regione nota come Litorale austriaco, ovvero quella che nel 1863 Graziadio Isaia Ascoli battezzerà Venezia Giulia (gli austriaci si ripigliano Trieste dai veneziani nel 1382 per tenerla fino al 1918); in Tirolo (nel 1508 gli Asburgo sottraggono ai veneziani Rovereto, che rimarrà anch’essa austriaca fino al 1918); in Cadore (1509, vittoria veneziana) e in Friuli, a Gradisca (1615-17, vittoria veneziana). Venezia e l’Austria sono separate da un lunghissimo confine comune: dalle Alpi orobie alla Dalmazia, con numerose zone di frizione. Solo una cosa unisce le due potenze europee: il contenimento dell’espansione ottomana, gli austriaci per terra, i veneziani per mare. E infatti dopo la pace seguita a Lepanto le cose cambiano: «Tra il 1573 e il 1718 la Serenissima si trova impegnata tre volte in conflitti di grandi proporzioni con il colosso ottomano, ma in tutti e tre i casi mai riesce a suscitare intorno a sé uno spirito di crociata capace di unire in una guerra a oltranza di tipo “ideologico” tutte le nazioni cristiane».8 Venezia e Vienna si ritroveranno sempre più sole a contrastare la potenza turca.
Negli anni successivi alla guerra di Cipro, la Serenissima e la Sublime Porta riprendono tuttavia i commerci. Le due potenze vivono un lungo periodo di pace invidiato dagli altri regnanti italiani, facendo in tal modo diventare la Repubblica di San Marco bersaglio di un sempre più intenso «non ragionevol odio», tanto che a qualcuno viene in mente di prenderne le difese.9 A Venezia la presenza di mercanti in turbante è un punto fisso e infatti l’11 marzo 1621 viene loro assegnato il palazzo, in precedenza appartenuto al duca d’Este, che la Repubblica utilizzava per alloggiare ospiti illustri a spese dello stato. L’edificio diventa il Fondaco dei turchi (in veneziano fondaco significa «magazzino»), dove i sudditi del sultano possono abitare e conservare le loro merci. Il fondaco può ospitare fino a trecento persone in una cinquantina di stanze e i mercanti si suddividono in base alla provenienza («bossinesi e albanesi» sono i più numerosi, poi si trovano gli «asiatici e costantinopolitani»).10 All’interno dell’edificio vengono costruiti un hammam e una sala da preghiera. «L’ultimo abitante del fondaco fu Sa’dullah Idrisi (Saddo Drisdi nelle carte veneziane), che fu costretto ad andarsene nel 1838. Egli rifiutò fino all’ultimo di lasciarlo, difendendo il diritto della nazione turca ad abitare in quel luogo, invocò l’autorità del sultano, si rivolse all’ambasciatore turco a Vienna, ricorse agli uffici e ai tribunali: a chi cercava di spiegargli che i turchi erano stati solo affittuari soleva rispondere in veneziano che “il fontego esser stato prima de Pesaro, po’ de duca de Ferrara, po’ de Priuli, po’ de Pesaro, po’ de Manin. Ma San Marco aver dato fontego per casa de’ Turchi, e mi voler star in fontego”. Arrivò a puntare due pistole contro il commissario di polizia incaricato di persuaderlo; un giorno però sparì improvvisamente, dopo aver detto ad alcuni conoscenti che partiva perché non voleva patire quell’enorme ingiustizia; di lui a Venezia non si seppe più nulla e con lui cessò la presenza turca nel palazzo che fu per due secoli la casa dei sudditi del sultano.»11 L’edificio sul Canal Grande viene acquistato e restaurato dal Comune e nel 1924 diventa sede del Museo di Storia naturale.
Ma torniamo ai tempi del sultano che non intende rinunciare al progetto di fare del Mediterraneo orientale un lago turco e quindi non si accontenta di tarpare le ali al leone: vuole cacciarlo via. Per farlo deve sottrargli l’altra grande isola: Candia, con le sue basi navali e le ricche coltivazioni di vite e canna da zucchero.
La guerra comincia nel 1645 e durerà ben ventiquattro anni, f...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. 1. All’armi
  3. 2. Il Peloponnesiaco
  4. 3. Il Partenone
  5. 4. La bomba
  6. 5. L’abbiamo fatta grossa
  7. 6. Addio sogni di gloria
  8. 7. Souvenir di Morea
  9. Ringraziamenti
  10. Note
  11. Glossario dei luoghi geografici
  12. Fonti archivistiche e manoscritte
  13. Bibliografia
  14. Immagini