Alternativa nella scuola pubblica
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Alternativa nella scuola pubblica

Quindici tesi in dialogo

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Alternativa nella scuola pubblica

Quindici tesi in dialogo

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Tutte le riforme della scuola hanno un tratto comune: cadono dall'alto. Sono riforme fatte da politici e tecnici, che da qualche decennio operano in Italia per fare della scuola gentiliana, fondata sulla separazione (inevitabilmente classista) tra sapere umanistico e formazione tecnico-professionale, una scuola-azienda al servizio del mercato e dei suoi valori competitivi. Ai docenti non resta che adeguarsi, sottoponendosi ad un tour de force formativo per mettersi al passo con i tempi, imparando le nuove parole d'ordine ministeriali e diventando semplici esecutori di un progetto politico-educativo pensato da altri. Discutendo con docenti, studenti, persone interessate a vario titolo all'educazione e alla scuola, gli autori cercano in questo libro una alternativa praticabile: una scuola realmente democratica, centrata sul dialogo e sulla relazione, in cui ci si educa all'impegno ed alla critica sociale. Non un ideale né un progetto di riforma dall'alto, ma un modo per ripensare dal basso l'insegnare e l'apprendere, e per ripensare, attraverso la scuola, la nostra stessa democrazia, minacciata da disimpegno, fascismi di ritorno, populismi, razzismi e chiusure pseudo-identitarie.

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Informazioni

Editore
Ledizioni
Anno
2018
ISBN
9788867056934

1 | Cattedre, banchi, finestre

Una stanza. A giudicare dal numero di docenti, si direbbe un’aula docenti. Ma ci sono anche gli studenti: e non nell’angolo ad ascoltare. Parlano, e parlano di cosa vuol dire essere studenti. Anche i docenti parlano, parlano di cosa è stato per loro essere studenti, e di cosa vuol dire per loro oggi essere docenti. E, certo, non c’è modo più degno di cominciare un libro sulla scuola.
Martino Sacchi Quand’ero bambino non pensavo certo di fare l’insegnante. Vivevo in un paese della Bassa milanese, ero figlio di medici. A scuola avevo una maestra che adoravo; ho fatto in tempo a stare su banchi di legno massiccio, di quelli che si vedono nei film in bianco e nero, intarsiati da generazioni di temperini annoiati e irriverenti. Litigavo con i pennini in acciaio per realizzare i pieni e i vuoti delle lettere. Con i trentatre miei compagni, tutti maschi, si dividevano le merendine e si faceva a botte. Ma non ricordo vera cattiveria, né qualcosa di simile alla lotta di classe, per quanto il Sessantotto incombesse. Giocavo con tutti, dal figlio dell’amica del cuore di mia mamma ai figli dei portinai della villetta tre numeri civici più in giù nella via. A casa a partire dai sei-sette anni leggevo tutto quello che trovavo nella libreria in salotto, dai gialli di Ellery Queen in su. Verso i dieci anni tentai perfino di leggere un libro polveroso che nessuno apriva mai, con su scritto Sofocle. Non ci capii nulla e lasciai perdere dopo due pagine. Raccoglievo uccellini morti che sezionavo con un bisturi ormai non più affilato ottenuto da mio padre; collezionavo foglie secche; scendevo a rotta di collo, a circa 8 km/h, per un piccolo scivolo con una macchinina a pedali e poi su una specie di trampolino fatto con un asse sostenuta da un mattone, per provare l’ebbrezza del volo e dello scossone all’atterraggio. Una volta, verso gli otto anni, allagai la cantina per dimostrare che la pressione dell’acqua alla base di un fusto metallico (quello dell’olio Carli, per la precisione) era maggiore di quella in cima. Di pensare a fare in futuro l’insegnante, nemmeno il più piccolo sospetto.
Alle medie cambiò poco, tranne che la mia prof. di Italiano sembrava pensare che nulla fosse merito mio ma che tutto dipendesse dal fatto che ero figlio di medici. Ormai avevo fatto fuori tutta la libreria di casa, e non capivo perché i miei si facessero tanti problemi a scegliermi dei regali, quando ricevere un libro nuovo era la cosa che mi dava più piacere.
Al liceo mio padre mi mandò a fare il Classico in una scuola privata cattolica a Milano. I miei, onestamente, mi chiesero cosa ne pensassi: ma a me andava bene qualsiasi cosa. Al liceo, per la prima volta, non ero il primo della classe, ma la cosa non mi interessava molto.
Mi pesava invece il fatto di non riuscire ad avere veri amici, perché i miei compagni abitavano a Milano. Quindi passavo il mio tempo a studiare le cose di scuola; a leggere libri per conto mio, non ce la facevo più. Del fervore politico dell’epoca, niente filtrava fino a noi. Ricordo un’unica assemblea di Istituto in cinque anni, subito dopo l’omicidio Moro. Comunque, di voler insegnare continuava a non esserci nemmeno il sospetto. Quando arrivò il dopo liceo, furono guai. Scelsi Filosofia perché, dissi a me stesso e agli altri, mi permetteva di occuparmi in qualche modo ancora di tutte le altre cose. Cominciò immediatamente la processione di professori e amici dei miei che cercavano di farmi cambiare idea: “Cosa farai? Non vorrai mica insegnare, vero?” In effetti non volevo insegnare: semplicemente non sapevo cosa volevo fare. Perfino mio padre tentò, quasi per l’unica volta in vita sua, di farmi cambiare idea. Solo mia madre mi difese, quasi per l’ultima volta che poté farlo.
In Cattolica a Milano fu uno spasso, almeno dal punto di vista dello studio. Fu verso la fine del corso che si accese in me la nitida convinzione che tutto lo studio che avevo fatto sarebbe stato inutile se non l’avessi condiviso con gli altri. Fu proprio così: si formò la percezione chiara e netta che trasmettere ad altri quello che avevo capito (o credevo di aver capito), era la cosa giusta da fare. Tornai dal mio professore di tesi, che proprio in quel periodo si era messo in testa di fare politica. Mi rise letteralmente in faccia e mi consigliò di cercarmi un posto per insegnare religione. E così feci, ottenendo un posto in un ITIS. Fu la miglior esperienza sul campo che si potesse immaginare. Potere sugli studenti, zero. Possibilità di minacciarli in qualsiasi modo, zero. Libro di testo su cui fare affidamento, zero. Tutto doveva essere conquistato giorno dopo giorno, trovando argomenti validi, ogni volta, per ognuno dei ragazzi (praticamente miei coetanei) che mi dovevano sorbire una volta la settimana. Fu lì che imparai che per insegnare bisogna mettersi in gioco sul serio e capii davvero che l’insegnamento è, nella sua essenza, un rapporto tra persone, a cui il resto fa contorno.
Il resto è storia, ancor meno interessante temo di quanto ho raccontato finora. Soprattutto ho imparato a usare il computer per la scuola, e questo mi ha aiutato molto ad andare avanti: non sapevo nulla e dovevo imparare quasi tutto da solo. Un po’ come quando giocavo col Lego, con la differenza che adesso mi serve per lavorare.
Luca Cubattoli Ho iniziato le elementari nel 2002. Le maestre si arrabbiavano fuor di modo per la mia iperattività, ero vivace. Subivo insieme ad altri bambini i rimproveri della maestra di Italiano quando non riuscivo a scrivere le lettere dentro i quadrettoni dei quaderni di prima elementare. Alle medie mi sentivo tremendamente solo, la mia scuola media era una scuola di provincia e erano frequenti episodi di bullismo verbale e fisico. Quando facevo le medie tramite mia sorella mi arrivava l'eco delle grandi mobilitazioni del movimento dell'Onda contro la riforma che prendeva il nome dell'allora ministro Gelmini.
Giunto alle superiori era il 2010. Al Liceo delle Scienze Umane fui accolto da un collettivo studentesco che ebbe un ruolo fondamentale nella mia crescita personale di quel periodo, all'interno del quale ho formato alcuni dei rapporti più profondi che ancora mi accompagnano. Il collettivo era fatto da persone che quotidianamente si impegnavano contro quella riforma Gelmini e contro il governo Berlusconi, e che all'interno della scuola riusciva ad essere uno spazio partecipativo importante e ad incidere notevolmente sulla vita del liceo. Sentivamo addosso la responsabilità di offrire ai nostri compagni l'alternativa a quel subire quotidiano, in modo passivo e incolore, la scuola. Parallelamente mi impegnavo nell'associazionismo studentesco, passando pomeriggi interi a discutere, analizzare, cercare di contrastare, i problemi della scuola pubblica. La mia esperienza alle superiori è sempre stata legata alla quantità e alla qualità degli spazi democratici di cui potevo disporre, nei quali mi potevo inserire. Nell'anno in cui rimanemmo orfani di un collettivo vissi una situazione di grandissima solitudine. Anche per questo, per la mia esperienza personale, credo profondamente che il protagonismo studentesco all'interno delle scuole sia di centrale importanza e che il cambiamento che molti (tra cui gli autori di questo libro) promuovono quotidianamente all'interno delle scuole, evidentemente sempre più impellente, non possa esser fatto che insieme agli studenti.
Ivo Grande Il mio primo giorno di scuola lo ricordo come fosse ieri. Mio padre che mi accompagna in un'aula grigia e umida, senza finestre, che probabilmente sarà stata anche angusta, ma a me sembrava grandissima. L'illuminazione era affidata a un paio di neon. Era il 1981. Ricordo la mia compagna di banco che copiava bene la data dalla lavagna scandendo le cifre una alla volta. “Che cosa vuol dire?”, le domandai. E lei rispose, laconica: “UNO-NOVE-OTTO-UNO.” Facile.
Era la prima volta che mi scontravo coi numeri. Per tutti volevano dire qualcosa, per me assolutamente niente. Tutto ciò che aveva a che fare coi numeri apparteneva per me a una lingua straniera, anche affascinante nel suo essere chiusa, ermetica, per me del tutto inaccessibile. Ero un bambino “discalculico”, solo che allora quella definizione probabilmente neanche esisteva. Tolto questo, ero felice di andare a scuola. La mia maestra era splendida: le ore in sua compagnia si trascorrevano nell'ascolto, nell'esperienza, nella partecipazione. Mi fece scoprire la mia passione per la scrittura. In seconda elementare misi insieme i versi di una poesia sulla pioggia che probabilmente è una delle cose più belle che abbia mai scritto. Nel corso degli anni, grazie alla capacità di ascolto della mia insegnante, mi riconciliai con la matematica.
Poi arrivarono le medie, un incubo. Compagni ostili, ghettizzazione. Ma nonostante questo, grazie ad alcuni insegnanti che traevano evidente piacere nello stare in classe, intuivo il potenziale notevole che la scuola aveva e immaginavo che mi sarebbe piaciuto fare l'insegnante, sviluppare un mio stile nello stare in classe, con gli altri.
Il passaggio alle superiori coincise con il trasferimento in un'altra città. E le superiori furono un calvario. D'un tratto iniziai a andare male a scuola. Non capivo gli insegnanti, loro non capivano me. Leggevo libri che molti di loro non avevano letto. Percepivo una routine faticosa nel loro modo di lavorare e non avvertivo alcuna sintonia con loro. Tutto si svolgeva secondo regole rigide di cui mi sfuggiva il senso. Iniziai a prendere voti pessimi e la voglia di studiare mi passò. Fu così per l’intera durata del ginnasio, ma quando arrivai al liceo incontrai un nuovo insegnante, un professore a cui devo moltissimo. Con lui la scuola era finalmente diventata quello che avrebbe sempre dovuto essere: un luogo di confronto in cui c'era da imparare per tutti: studenti e insegnanti. Un'arte, quella di imparare, che non poteva prescindere dall'ascolto reciproco e che faceva della scuola, per eccellenza, il luogo della relazione.
Quando, nel 2006, dopo gli anni fecondi dell'università e del lavoro a teatro, mi ritrovai all'improvviso dietro una cattedra di scuola media, pensai che mi sarebbe piaciuto dare al mio lavoro la qualità delle ore trascorse in classe con quell'insegnante. Ripartire da lì, sviluppare un mio stile con gli strumenti che avevo acquisito nel mio percorso: il teatro era uno di questi.
È quello che continuo a fare, ogni giorno, con gioia immutata, nonostante le regole di un sistema che vuole imporre alla scuola i connotati di un'istituzione repressiva. La vera “missione” di insegnanti e studenti è questa: girare le viti di questa impalcatura, per fabbricare insieme un sapere ogni volta nuovo e diverso.
Emilia D'Annunzio Del liceo ricordo con orgoglio la prima occupazione della scuola, l' autogestione e un seminario organizzato sul movimento femminista. Mi ricordo le ore passate a stampare volantini al ciclostile, le mani nere. Mi ricordo di aver invitato Eugenio Finardi a cantare, era magro con capelli lisci, lunghi... non eravamo molte ragazze... solo alcune, i genitori non ci facevano dormire fuori ma ci permettevano di stare fino a tardi... ricordo le canzoni e la voglia di cambiare il mondo, non solo la scuola.
Nadia Gaiottino Decisi che avrei svolto questo lavoro a otto anni dopo una perfida interrogazione (andata benissimo come al solito) su Napoleone da parte di una maestra che non contava nemmeno sino a tre prima di lanciare oggetti contundenti sulle capocchie dei ragazzini che, a dir suo, non capivano. Decisi di insegnare così avrei avuto il potere. Pensa un po'... il potere. Finite le medie anche se figlia di operai fui incoraggiata dal professore di Lettere (unico ricordo di un pessimo ciclo scolastico) a frequentare il liceo Classico. Iniziai il corso di studi più formativo della vita. Scrivevo poesie surreali (molto surreali). Partecipai intensamente ai movimenti studenteschi. Fortunatamente. Ricordo con smisurato affetto il professore di Italiano che ebbe l'enorme responsabilità di convincermi che ero davvero adatta all'insegnamento perché avevo il pregio della creatività. Beh, creativa lo sono, forse troppo e il lavoro che svolgo mi piace proprio tantissimo. Insegno in un tecnico tecnologico... solo studenti maschi .
Sergio Pasquandrea Sono stato uno studente brillante, non un secchione perché mi bastava poco per eccellere, data la qualità umana scadente degli insegnanti. Venivo da una famiglia colta, benestante, avevo la casa piena di libri e un sacco di stimoli culturali, molto più della media dei miei compagni. Con i quali, comunque, legavo poco o nulla.
Sono cresciuto in un paesone della provincia pugliese. Il clima era quello di un machismo esibizionista, con bullismo diffuso e facili smottamenti nella microcriminalità. Influenza pervasiva della Chiesa.
Ricordo con piacere solo la mia maestra delle elementari e quella di Lettere delle medie. Quello di Matematica al liceo era preparatissimo nella sua materia, ma umanamente una merda. Gli altri si arrabattavano ripetendo nozioni imparate venti o trent'anni prima e mai aggiornate. Nessuno, a parte la maestra, mi ha davvero trasmesso la passione per il sapere.
A scuola non mi annoiavo, ma facevo abbastanza il comodo mio. Leggevo Tex, studiavo solfeggio, disegnavo sul banco, guardavo il culo delle compagne. Se mi interrogavano ero sempre preparato, per il resto me ne fregavo. Raramente ricordo di essere intervenuto in una discussione a scuola.
Non ho fatto occupazioni, gli scioperi si facevano quando i rappresentanti d'istituto lo decidevano, ma a nessuno interessava il perché. Ho studiato Lettere perché era la cosa che mi piaceva di più e faccio l'insegnante perché ho trovato subito un concorso e sono entrato fra i primi in graduatoria.
Francesco Schirò Di una cosa ero certo sino ad una quindicina di anni fa: che non avrei mai fatto l'insegnante. Il ricordo dei miei professori, la loro mancanza di energia, le interminabili noiosissime lezioni, la triste vita che ho respirato e che si respirava a scuola, l'astio, le piccole e grandi violenze, la sopraffazione e soprattutto la noia, la noia e la costante attesa del suono della campanella. Ho vissuto la scuola come una tortura. Non mi è mai piaciuta. Non solo penso che sia stata inutile ma anche e soprattutto dannosa. Ho fatto pace con grossa parte della letteratura italiana solo anni dopo la fine della scuola. Ho odiato per anni i Promessi sposi e l' ho letto, con piacere, solo a trent'anni quando nella biblioteca della scuola del Cairo dove insegnavo mi resi conto che era l'unico libro in italiano che ancora non avevo letto. Fu una scoperta. E così con tanti altri libri. La scuola italiana nella migliore delle ipotesi non serve a un cacchio, solitamente invece fa danno, per citare me stesso. In terza media feci un grande esame. Non avevo grandi voti e non avevo studiato granché in verità. Ebbi la fortuna però che la discussione cadde su Pasolini (che non era in programma) e parlammo di Bestia da stile che avevo appena letto e mi era piaciuto molto. Morale: fui licenziato con un voto molto alto. Perché e come sono diventato insegnante? Per caso, solo per puro caso.
Federica Orsini 1973 Prima Media: la giovanissima e bellissima prof.ssa di Lettere propone gruppi di lavoro finalizzati alla rappresentazione teatrale. Io scelgo quello di sceneggiatura. Ho imparato la storia dei Gracchi battendo i tasti della Olivetti Lettera 82 e ho cominciato a confrontare il passato con il contesto in cui vivevo, gli anni '70! Ora insegno filosofia e storia e credo proprio di dovere molto a quella affascinante giovane appassionata visionaria morta prematuramente. Un bacio dovunque Lei sia cara prof.
Franco Confessore Proposero per me le classi differenziali, non erano in grado di definire quella che ai loro occhi appariva come una diversità, non ero definibile secondo nessuna delle “ricche” classificazioni a loro disposizione. Ero soprattutto immaturo. Alle superiori mi sembrava di impazzire a stare cinque ore in una classe, credo che non sia normale che un ragazzo resista, come si resisteva “ai miei tempi”, tante ore in un banco. Ho fatto otto anni di istituto magistrale, diplomato con 40. Adesso insegno italiano e storia in un liceo artistico, sono referente di tutta l'area dell'inclusione nella mia scuola ed uno dei concetti su cui lavoro quest'anno è “lo sconfinamento”.
Tamara Macelloni 1971 inizio elementari: Dopo qualche giorno il mio banchino fu spostato accanto alla cattedra affinché la maestra potesse controllarmi, perché mi alzavo e parlavo agli altri bambini di continuo, dice. Io non ricordo... Iniziai da ribelle e finii come bambina intelligente, volenterosa, ma chiacchierona (giudizio finale della maestra, alla quale volevo bene). 1976, le medie: ricordo il bullismo a danno di maschi e femmine e la necessità di difendermi da sola a calci e morsi. Pupilla del professore di educazione tecnica perché sapevo costruire un circuito elettrico e del prof di ginnastica perché forte nello sport. Altri ricordi vaghi: la sensazione a posteriori di appiattimento della creatività e omologazione. Ottimo rendimento scolastico. 1979: istituto Tecnico Commerciale per volere dei genitori. Insegnamento buono in generale. I prof di Chimica e Diritto, comunisti convinti, parlavano più di politica che della propria materia; la prof di Tedesco era una fotomodella a riposo che non insegnava niente e noi eravamo contenti; il prof d’Italiano era un monaco cappuccino che fumava (a me sembrava strano). Partiti in 28, in seconda eravamo 13 e siamo diventati la classe “pilota” dell’istituto per sperimentare nuovi progetti d’insegnamento. Ottimo rendimento scolastico, ma l’Università non era prevista.
Andrea Ferrigno Parlerò di quello che mi succede a lezione perché dice qualcosa dello studente che ero. Insegno Farmacologia agli studenti del quinto anno di Medicina. Otto ore agli studenti italiani e otto a studenti provenienti da tutto il mondo. Gli italiani copiano compulsivamente le slide, non interrompono mai e se interpellati si nascondono; quelli del corso internazionale mi interrompono continuamente e se gli si chiede qualcosa si buttano volentieri, improvvisano e spesso hanno guizzi sorprendenti. Gli italiani prendono voti più alti all'esame, ma sono terribilmente passivi; gli altri sono capaci di contestarmi i test: sono critici. Gli italiani sono ossessionati dal voto e si sentono costantemente valutati, hanno paura di essere valutati anche durante una discussione informale. Io sono uscito così da un liceo italiano, convinto che il massimo che si potesse ottenere dalla scuola italiana fosse un voto alto. Infatti uscii con un voto pessimo, perché andare a scuola per il voto non mi interessava. Nessuno ha mai chiesto la mia opinione, tranne quando mi chiesero che ne pensassi di un certo sonetto. E la mia opinione fu valutata, negativamente. Per inciso, il sonetto era “Guido i' vorrei che tu e Lapo ed io”, che a rileggerlo a 43 anni mi fa piangere, ma a 17 come potevo capirlo? Cioè, lo capivo, ero mica scemo, ma non l'avevo ancora vissuto.
Enzo Tria La mia scuola era l'“Edmondo De Amicis”. Il mio Maestro non c'era giorno che non ci raccontasse della guerra e delle sue gesta di giovane fascista. Quando il Maestro andava a prendere il caffè con i colleghi, Danilo, il capo classe, andava alla lavagna a scrivere i buoni ed i cattivi. Per star zitto e non prendere bacchettate con la “Santa Ragione”, il nome con cui il Maestro aveva battezzato la bacchetta (spalliera di una sedia non lavorata, dono di Danilo, figlio di un costruttore friuliano di sedie trasferitosi in Puglia) mi misi a scrivere. Sul foglio strappato dal quaderno a righi fantasticai un verbale di polizia. Danilo venne al mio banco, lesse il mio scritto, mi prese il foglio e, malgrado le mie proteste, lo consegnò al Maestro. Questi, dopo avelo letto si rivolse a me dicen...

Indice dei contenuti

  1. Colophon
  2. Introduzione
  3. 1 | Cattedre, banchi, finestre
  4. 2 | Un dialogo
  5. 3 | Discussione
  6. 4 | Quindici tesi
  7. 5 | Dopo le tesi
  8. 7| Come fare? Cinque pratiche
  9. Bibliografia ragionata
  10. Per aderire
  11. Hanno discusso con noi
  12. Gli autori