Hotel Pasolini. Un'autobiografia
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Hotel Pasolini. Un'autobiografia

Dietro le quinte del cinema italiano

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Hotel Pasolini. Un'autobiografia

Dietro le quinte del cinema italiano

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Alfredo Bini è l'uomo che ha reso possibile il cinema di Pier Paolo Pasolini. Questa autobiografia è la storia di uno dei più grandi produttori cinematografici italiani e il romanzo di una vita vissuta a perdifiato, dall'infanzia sulle colline toscane alla guerra in Grecia e Albania, dalle luci della ribalta dei festival a un oblio inspiegabile e amaro. È un album fotografico in cui si incontrano i volti di Claudia Cardinale e Anna Magnani, di Gina Lollobrigida e Marcello Mastroianni, di Totò e Federico Fellini.Bini univa l'istinto di un rabdomante alla convinzione che un produttore fosse un artigiano rinascimentale. Solo un uomo vorace e visionario come lui avrebbe potuto scommettere che un grande poeta sarebbe diventato un grande regista. Grazie a quell'azzardo nacque il primo film di Pasolini, Accattone, e videro la luce i successivi, dal Vangelo secondo Matteo a Uccellacci e uccellini, fino a Edipo Re. Bini e Pasolini sfidarono la censura, si presero a pugni, viaggiarono in Africa e, insieme, cambiarono per sempre l'immaginario collettivo italiano. Quando il loro rapporto terminò, Alfredo Bini lavorò con Robert Bresson e Claude Chabrol, produsse b-movie «erotici ed esotici», quasi a riaffermare l'innocenza dell'osceno di fronte all'apparente purezza del normale. La vita che aveva inseguito finì per travolgerlo, lasciandolo solo e in miseria in un albergo nella Maremma laziale; qui venne accolto con generosità e amicizia da Giuseppe Simonelli, con cui trascorse i suoi ultimi anni. In questo Sunset Boulevard sulla via Aurelia un altro produttore, Simone Isola, si è messo sulle tracce di un uomo e di una grande stagione del nostro cinema, ricomponendo un memoriale che era affidato ad appunti, foglietti volanti, nastri magnetici e articoli di giornale. Dal suo lavoro è nato un documentario, Alfredo Bini, ospite inatteso, e nasce oggi Hotel Pasolini: un libro che, come un film, è fatto di parole e immagini; una soggettiva inedita sul nostro passato; un rapinoso piano sequenza che insegue protagonisti, fallimenti e capolavori di un'epoca intera.

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Informazioni

Anno
2018
ISBN
9788865766323
1. Infanzia, guerra e prima vocazione
Montalto di Castro, 2001
Abbiamo poco tempo per vivere, e non si può scegliere come morire, o quando morire. Si può soltanto decidere come vivere. Le persone normali lo capiscono solo vivendo. Io l’ho capito subito, appena ho aperto gli occhi. La mia vita è un mare di esperienze, conoscenze, occasioni. Mi sono tuffato in ogni cosa, seguendo strambe maree che mi hanno condotto a volte nell’uragano, altre in un’oasi di ricchezza. Sì, sono stato anche ricco! Come facevo a esserlo? Chissà. Eppure non me lo invento: giuro di essere stato ricco.
A Palazzo Taverna, a Roma, oltre all’appartamento avevo anche il mio ufficio: un salone lungo quarantacinque metri e alto dodici. Alte sulle pareti, c’erano tre splendide opere di Guido Reni, di oltre dieci metri ciascuna, naturalmente inamovibili. Per esibizionismo andavo ad aprire le porte agli ospiti in bicicletta… Stronzate di gioventù. E ho un ricordo impresso nella memoria, io sulla mia barca a Ponza nei primi anni sessanta, sdraiato a poppa, al tramonto, con il cameriere che versava lo champagne. Gettavo l’ancora al largo di Le Forna, in una zona dove nuotavano i dentici. Prima di andare a dormire innescavo gli ami e li gettavo a mare. Quando mi svegliavo c’era sempre qualche dentice attaccato. Che vita meravigliosa!
Dopo qualche decennio mi ritrovo alloggiato all’Hotel Magic, chilometro 107 della Statale Aurelia, ospite del suo generoso proprietario. Mi meraviglio ogni giorno della pace e del silenzio, così profondi, di questo posto, dopo tanti anni vissuti a Roma. Ho avuto una vita piena, densa di emozioni. Non ho mai pensato ai ricordi, ho sempre avuto la mente orientata al futuro. Ora è diverso, ho settantacinque anni e voglio perdere un po’ del mio tempo. Eccomi allora, mentre il sole lancia gli ultimi raggi sulla pianura che circonda questo postmoderno castello della maremma laziale, a battere a macchina la mia vita e a cercare nella memoria le immagini più lontane, nascoste.
Mi torna in mente, sfocata, la Livorno degli anni venti. Era bellissima, piena di vita. Sono nato lì, in via Magenta, il 12 dicembre 1926. La mia famiglia discende da Carlo Bini, sepolto al cimitero di Montenero tra illustri livornesi, valido scrittore rivoluzionario legato a Mazzini e alla Giovine Italia. Una personalità inquieta: fu accoltellato durante una rissa in una casa di tolleranza e morì in prigione a Forte Stella, insieme ad altri patrioti livornesi.
Da mia madre Giuseppina, insegnante di composizione, ho preso certo molto di più, le assomigliavo. Era una donna intelligente, molto coraggiosa per il suo tempo, come forse lo sono stato io (valuterete voi). Con mio padre, anche lui di nome Alfredo, era spesso in giro per il mondo per concerti, e furono anche incaricati dalla ditta Ricordi di lavorare alle prime radio private in America Latina. A cinque anni sognavo di fare il pianista, passavo ore e ore a sentire mia madre Giuseppina che la mattina si esercitava con le scale per sciogliere e riscaldare le mani, e poi iniziava a suonare interminabilmente: Schubert, Liszt, Mozart, Ravel, mentre io con le dita, già grandi per la mia età, giocavo con i tasti. Mia madre non voleva che imparassi a suonare e diventassi un professionista. Immaginava per me qualsiasi lavoro, dal muratore al medico, ma mai e poi mai il musicista. Lei e mio padre soffrivano troppo la precarietà del loro lavoro, alternando brevissimi periodi di guadagni e successi ad altri di miseria.
Venivo lasciato spesso solo con mia sorella Fiammetta a Montenero, una frazione collinare di Livorno, a casa del nonno Cesare, ex capostazione anarchico in pensione. Lì ho trascorso la mia infanzia, anni di irrobustimento fisico e caratteriale, con acquisizione di concrete conoscenze di vita, comportamento e leggi di natura. Un «imprinting» indelebile, senza il quale non mi sarei di certo salvato, né fisicamente né moralmente, da tutte le disavventure degli anni di guerra. Un capitale di conoscenze primarie che i ragazzi di oggi difficilmente possono avere.
Rivedo in caleidoscopica successione Nuvolari e Varzi sul vecchio circuito del Castellaccio, le cave di preziosa (per noi ragazzi) matita verde, le corse a rompicollo in vertiginosa discesa attraverso la macchia, fino al mare sotto il castello di Sonnino. O ancora a Calafuria, dove ci facevamo ributtare sugli scogli dalle vigorose ondate di libeccio, o allo scoglio della nave, sotto il vecchio cimitero di Antignano. Se non si voleva tornare a casa per qualche giorno, nella macchia ci si arrangiava senza problemi: c’erano pinoli, corbezzoli, asparagi selvatici, more e, per le «proteine nobili», tassi, tartarughe e ricci. Una dieta perfettamente bilanciata, come si direbbe oggi. E poi in mare, durante l’estate, polpi e ghiozzi, buttati sugli scogli dalle onde, che bisognava rapidamente acchiappare prima che l’onda successiva se li riprendesse. Qualche volta ci avventuravamo, sempre a piedi, fino ai mitici Bagni Pancaldi, dopo Ardenza Mare, a spiare le signore che, dall’interno delle loro cabine sulle palafitte, si calavano in acqua. Sono vissuto in campagna, a contatto con la natura: un periodo bello, sereno, che ricordo con piacere. Il bosco, le gite, i compagni di gioco, sopratutto di caccia: grilli, uccellini, lucertole, animaletti di ogni genere. Andavamo in cerca di funghi o partivamo al mattino per raggiungere il mare. Ci volevano quattro ore a piedi, dal santuario di Montenero a Calafuria: non c’erano strade, bisognava attraversare i preappennini. In realtà la distanza è di pochi chilometri, sette o otto, ma quel viaggio rappresentava per me ogni volta un’avventura eccitante, straordinaria: un’impresa audacissima.
Mi rimane nella memoria l’immagine patriarcale di mio nonno, che mi chiudeva fuori casa, per punizione, se tornavo dopo le sette. Dormivo sul pagliaio, e che meraviglia in piena estate, con mia nonna che all’alba apriva di nascosto la porta perché m’infilassi nel letto. Questo nonno autoritario non m’intimoriva affatto, anzi, avevo per lui una sconfinata ammirazione. Forse perché ripeteva volentieri che il più intelligente del gruppo, il più capace, ero io… Morì vecchissimo, ben oltre i cento anni.
A nove anni affrontai il mio primo lavoro come «scalda-chiodi», chiodi che venivano arroventati per fissare le lamiere delle navi in costruzione nei cantieri Orlando a Livorno; riuscii a integrare i pochi spiccioli di paga raccogliendo preziosi rottami di ottone e rame per rivenderli al mercato di zona.

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Alfredo Bini a Roma in compagnia della sorella Fiammetta

Da giovane andavo pochissimo al cinema. E anche in quelle rare occasioni non appena potevo scappavo. Mi annoiavo. Preferivo raggiungere, quand’ero a Montenero, i miei amici nella piazza vicina. Mia zia Anna venne incaricata di educarmi e mi iscrisse, con un anno di anticipo, alle scuole elementari. Il «posto fisso» era molto agognato anche dai giovani di allora: mia madre ottenne un incarico come insegnante di musica a Gorizia e mi riprese con sé, portandomi in quella che considero la mia seconda città. È per questo, come vedremo in seguito, che venni iscritto per la leva al Distretto militare di quella zona, terra di reclutamento alpino. Venni messo in un collegio, dove conobbi molti amici, tra i quali il futuro giornalista Gianni Bisiach. Di fronte avevo il collegio delle ragazze, si chiamava Santa Gorizia. E già iniziavano a esserci i primi contatti: sono stato precocemente interessato al gentil sesso.
Durante gli anni trenta, finita la scuola, ogni estate tornavo a Montenero di Livorno a casa dei nonni, dove ritrovavo anche la zia Anna e i miei amici d’infanzia. Con petulanti raccomandazioni che fingevo di ascoltare, la mamma mi accompagnava alla stazione di Gorizia, mi ricordava che dovevo cambiare quattro volte treno: a Mestre, a Bologna, a Firenze e a Pisa. Prima di Bologna era già buio. Ricordo ancora l’atteso rallentamento del treno che entrava in stazione: due fari lontani di un altro treno che si avvicinava. Un semaforo rosso e poi uno verde. Un intrico di lucide rotaie nel buio. Goccioline di pioggia che scorrevano obliquamente sul vetro del finestrino. Per continuare a vedere dovevo allontanare il naso dal vetro, che si appannava per il mio fiato caldo. Quando si è così giovani il mondo è una continua scoperta di meraviglie.
Tempo di guerra
Crescevo in fretta. A Gorizia ho frequentato il ginnasio al Dante Alighieri fino al primo anno del liceo classico, che ho completato nel settembre del 45, finita la guerra. Avvezzo a continui trasferimenti, sono cresciuto con il mito della guerra come avventura affascinante, da percorrere sino in fondo. Non avevo alcuna paura di morire, di andare incontro al pericolo. Don Giuseppe Drecogna, parroco di Prevacina, mi aveva incaricato di consegnare dei pacchi dono per Natale ad alcuni suoi giovani parrocchiani confinati alle saline di Margherita di Savoia, vicino a Bari. Portati i pacchi, decisi di proseguire per Brindisi, dove raccontai a un giovane ufficiale tedesco di voler raggiungere mio padre, alpino, ferito a Tirana. Raggiunsi rocambolescamente Valona, dove trovai un comando di tappa italiano e chiesi di essere arruolato, mentendo sulla mia età. La richiesta venne accolta e raggiunsi la divisione Julia nei pressi di Berat.
Le operazioni stavano incontrando notevoli difficoltà, e il contrattacco greco spinse l’esercito italiano in una fase di stallo. Ero un incosciente, e molte volte ho rischiato la vita: a quel tempo non andare a combattere per la patria mi sembrava inconcepibile. Durante una ritirata dovevamo passare in una gola molto stretta, ma da un fortino i Greci sparavano all’impazzata con le mitragliatrici. Bisognava fare qualcosa. Gli ufficiali dissero: «Vai tu Bini, che non hai famiglia». Al tempo la cosa mi parve ragionevole, ma oggi direi: «Vaffanculo, vacci tu, me la farò una famiglia!». Comunque andai. Sgattaiolando durante la notte riuscii ad arrivare fin sotto al fortino, e da una feritoia buttai dentro due bombe a mano. Conservo ancora il proiettile che mi ha colpito superficialmente al collo, rimanendo sotto pelle senza danni: fui decorato di una medaglia d’argento.
Terminate le operazioni in Grecia, un migliaio di superstiti della divisione si imbarcò per fare ritorno a Udine. Io e pochi altri non trovammo posto. Fu un colpo di fortuna: la nave venne affondata poco dopo la partenza e in molti affogarono. Iniziai allora da solo a risalire l’Albania, poi la Dalmazia, fino ad arrivare in Slovenia. Ero ancora vestito in parte da alpino e decisi di tenermi lontano dalle strade principali. Percorrendo stradine di campagna, preferibilmente di notte, mi spostai verso est, sfiorando prima Lubiana, poi Postumia, Aidussina, Prevacina. Arrivai a Gorizia dalla parte di San Pietro, e camminando verso piazza Cristo riconobbi la casa di tolleranza, invano desiderata l’anno prima, posta proprio nelle vicinanze della caserma sede della divisione Julia. Giunto a casa, in via Brigata Pavia, venni accolto da mia madre con sentimenti contrastanti: era al tempo stesso felice e infuriata, piena di rabbia per la mia fuga. Non le restò che piangere, mandarmi a lavare e chiedere dei vestiti vecchi ai vicini. In pochi mesi di guerra ero cresciuto di venti centimetri in altezza e trenta di torace. Portare «su per i monti» la piastra del mortaio è una ginnastica molto efficace.
Nel 1942 la Divisione Julia fu ricostituita per essere spedita con l’Armir insieme alla Cuneense e alla Tridentina sul fronte del Don. Nella Tridentina c’era, come giovanissimo sottotenente, il mio vicino di casa e grande amico Pierin Drecogna. Ma non ci fu nulla da fare. Anche se ormai avevo compiuto sedici anni, fui categoricamente rifiutato. Al tempo questa delusione mi fece piangere, ma forse mi s...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Sommario
  3. Introduzione
  4. 1. Infanzia, guerra e prima vocazione
  5. 2. Approdo al cinema
  6. 3. Io e Pier Paolo
  7. 4. Un avventuriero del cinema
  8. 5. Io e le donne
  9. 6. Terzo tempo
  10. Postfazione