Le borgate del fascismo
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Le borgate del fascismo

  1. 380 pagine
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Le borgate del fascismo

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Storia urbana, politica e sociale della periferia romana.Le borgate nate in epoca fascista rappresentano una pagina fondamentale della storia di Roma contemporanea. Additate come i luoghi più malfamati della città, specchio dei suoi contrasti socio-economici e urbanistici, in esse può riassumersi il modo disordinato in cui la capitale è cresciuta e si è sviluppata. Avamposti dell'espansione edilizia del secondo dopoguerra, le borgate hanno costituito il luogo d'approdo per migliaia di famiglie dalle molteplici provenienze. Argomento fino a oggi poco dissodato, il processo di popolamento della periferia romana è affrontato in questo libro per mezzo di nuove fonti archivistiche, con cui è stato possibile verificare ipotesi di studio di recente acquisizione. Sullo sfondo, la storia del più importante Istituto di case popolari italiano svoltasi durante il ventennio, un periodo nel quale l'ente, fiancheggiatore delle politiche urbanistiche e abitative del fascismo per la capitale e, seppur a fasi alterne, organo edilizio del Governatorato, fu impegnato nella costruzione di intere parti di città e in quella di un vasto esperimento pedagogico di educazione fascista nei suoi caseggiati, contribuendo anch'esso all'instaurazione di un sistema dalle caratteristiche totalitarie.Luciano Villani è nato a Taranto nel 1977. Si è laureato in Lettere all'Università "La Sapienza" di Roma e ha conseguito il dottorato in Storia contemporanea presso l'Università di Torino. Dopo un anno di ricerca presso l'Insmli, è attualmente impegnato in vari progetti di ricerca sulla storia d'impresa e del lavoro.

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Informazioni

Editore
Ledizioni
Anno
2012
ISBN
9788867050161
Argomento
Arte

PARTE II
Le nuove borgate popolarissime

CAPITOLO 5
La casa popolarissima: tipologie edilizie
tra ruralismo, razionalismo e autarchia

5.1 Il contesto italiano

A trent’anni di distanza dalla nascita dell’Icp di Roma, il tema della casa popolare non era stato ancora affrontato in termini chiari né sotto il profilo teorico né tanto meno da un punto di vista pratico. Nei paesi nordeuropei, il Movimento Moderno aveva fatto della casa popolare il proprio cavallo di battaglia, trovando in essa un vasto campo d’applicazione di metodi estendibili alla più generale progettazione edilizia e nell’uso di tecniche e materiali nuovi. In Italia, invece, l’architettura rappresentativa commissionata dal regime prese nettamente il sopravvento su di un’architettura sociale considerata “minore” e per questo espunta sia dal dibattito, pur denso di polemiche, che circolava su giornali e riviste specializzate, sia dai concorsi pubblici disposti nel periodo1. La contrapposizione tra “classicismo” e “modernità”, tendenze che, in ogni caso, si espressero polemizzando in nome di un’architettura degna del tempo fascista che ognuna di esse pretendeva di rendere al meglio, sfociò in una disputa sugli “stili” entro cui venne pressoché a esaurirsi il dibattito architettonico tra le due guerre2. In altre parole, il movimento razionalista italiano mancò di una vera “cultura della città” che altrove significò anzitutto il collocamento dei lavoratori all’interno delle cerchia urbane3.
Il tema della casa a basso costo rimase dunque materia poco coltivata, eccetto che per il lavoro di una esigua schiera di architetti maggiormente legati alle istanze internazionali, la cui fecondità è però collocabile solo a partire dagli anni Quaranta4. Quelli che Edoardo Persico chiamò i “sogni architettonici” dei razionalisti ebbero una diffusione estemporanea, per lo più confinata entro appuntamenti prestabiliti come mostre, fiere ed esposizioni, lungo tutta una fase storica segnata da alterne vicende ma in cui il tentativo di dare forma al nuovo ordine fascista per mezzo di un’architettura “rivoluzionaria”5, perseguito dai razionalisti nostrani, si concluse con un fallimento. L’indirizzo neoclassico che diede l’impronta principale alle composizioni progettate per l’Esposizione Universale, si impose come quello in grado di coniugarsi meglio coi destini imperiali di Roma, inverati dopo il maggio 1936 dalla conquista etiopica.
Se in Italia il problema della casa d’abitazione per fasce operaie non acquisì un’importanza e una sistematicità paragonabili all’ampio dibattito che contraddistinse i paesi nordeuropei, a esso si riallacciarono alcune opere significative, esempi destinati a rimanere tali ma indicativi di una evoluzione che iniziava a percorrere anche la cultura e l’atteggiamento dell’architetto italiano. Si tratta degli studi di Gaetano Minnucci sulla casa olandese6, quelli di Griffini sui metodi e le teorie di Alexander Klein7, ma soprattutto il libro di Giuseppe Samonà sulla casa popolare8, in cui vennero sintetizzati i maggiori risultati raggiunti in questo settore dell’edilizia.
Il confronto a livello europeo sulla base di standard oggettivi era impietoso: il ritardo accumulato dal nostro paese non affiorava solo dal paragone con Germania, Svezia, Olanda, ma anche rispetto ad Austria e Francia. Nei primi era la diffusione dello schema aggregativo della casa in linea a fare la differenza, con la standardizzazione di tutti gli elementi, criteri di orientamento più razionali, utilizzazione rigorosa degli spazi, cui si aggiungevano uno studio profondo del problema delle dimensioni dell’alloggio in relazione alla composizione delle famiglie – piuttosto che su un numero minimo di locali – e la perfezione degli impianti tecnici usati nei servizi. La sistemazione più frequente nei secondi era invece quella a blocco chiuso o aperto, preponderante anche in Italia, in cui Samonà individuava una serie di forti menomazioni, dall’infelice orientazione degli alloggi alla scarsa serializzazione degli elementi, essendo forme e dimensioni dei fabbricati vincolati alla natura geometrica della planimetria. Tuttavia, se dell’Austria si apprezzavano la minore concentrazione dei fabbricati, assai più radi, e la presenza di verde, della Francia si notava lo sfruttamento in altezza degli edifici – con relativa riduzione dei costi – e la maggiore ampiezza degli appartamenti9. Fanalino di coda era dunque l’Italia, dove l’edilizia continuava a svolgersi secondo metodi artigianali e la costruzione di case alte ed ampie era inibita dall’eccessiva altezza di piano fissata dai regolamenti.
Queste due ragioni concomitanti, mancata costruzione in serie e spreco di volume per eccessiva altezza di piano, hanno costretto gli architetti e i regolamenti a limitare il più possibile il numero dei vani e quello dei servizi. Sarebbe stato invece assai più vantaggioso per l’abitabilità, che si fosse proporzionato l’appartamento al numero delle persone destinate ad abitarlo, con statistiche rigorose che mettessero in evidenza la percentuale di famiglie con 2, 4, con 6 persone e più. Se si pensa che la classe meno abbiente è composta in genere dalle famiglie più numerose e che essa è destinata ad abitare gli appartamenti più piccoli, si vede come sia stato poco razionale il sistema seguito generalmente in Italia10.
Il carattere avulso della partecipazione italiana alla definizione di soluzioni progettuali moderne nel campo della casa a basso costo, è testimoniato in modo inequivocabile dalla scarsità degli articoli dedicati al tema apparsi sulle riviste specializzate, comprese quelle che vantavano rapporti più stretti con l’International style. La testata milanese «Casabella», diretta dal 1933 da Giuseppe Pagano e Edoardo Persico, si limitò a ospitare gli scritti di Gino Brunelli intitolati La casa per tutti11, in cui in una serie di numeri usciti nei primi mesi del 1934 affrontò la questione dei sistemi di finanziamento da parte del capitale privato e delle istituzioni locali. Dal canto suo «Quadrante», rivista diretta da Massimo Bontempelli e Pier Maria Bardi, luogo privilegiato dell’ortodossia razionalista, non tratterà l’argomento se non in un paio di articoli di Piero Bottoni12 e con gli scritti di Griffini sui progetti esposti alla V Triennale di Milano13. Si è supposto che in questo modo la rivista abbia voluto sottolineare «l’emarginazione italiana dalle conquiste sociali effettuate dalle socialdemocrazie nordeuropee»14. Eppure, nel gruppo di «Quadrante» e fin dalla sua fondazione furono presenti architetti, come il succitato Bottoni15, che nella loro vita professionale dedicarono largo spazio ai problemi dell’edilizia economica. Ad ogni modo, gli interessi della rivista ben presto si rivolsero alla formulazione di concetti ed enunciati per l’attuazione della cosiddetta “città corporativa”, traduzione urbanistica dei principi corporativi secondo cui ogni città sarebbe cresciuta inserendosi all’interno di un piano regionale e nazionale, cioè in funzione di un organismo definito in ogni sua componente. Al fervore nato attorno al tema non fu estraneo il successo della battaglia ingaggiata dai tecnici professionisti su quelli municipali per la creazione di un organismo nazionale in grado di diffondere i principi della nuova disciplina urbanistica, avvenuta nel 1930 con l’INU, veicolo del dominio statale sulle amministrazioni locali nell’ambito della programmazione urbana16.
Nel periodo interbellico in effetti si avvertì un clima nuovo, inizialmente legato proprio all’azione intrapresa dagli enti locali e che vide impegnati in prima linea soprattutto tecnici e professionisti provenienti dall’ambiente milanese. A Milano sembravano infatti realizzarsi le condizioni per lo sviluppo di un’urbanistica moderna17. Fin dalla fine degli anni Venti, tecnici municipali milanesi come Cesare Albertini, Giovanni Broglio o come Giuseppe Gorla, vicepresidente dell’Icpm e futuro ministro dei LL.PP., presero parte ai congressi internazionali di urbanistica come quello di Parigi del 1928, così come milanesi furono gli architetti che entrarono per primi in contatto con l’esperienza centroeuropea dei Ciam (Congressi internazionali di architettura moderna), e cioè Bottoni e Pollini, delegati italiani dal 1929; e ancora, l’unica “invenzione tipologica” degna di nota in relazione alla casa collettiva scaturì da un’idea che Broglio propugnava fin dal 1906, adottata poi nei quartieri popolari milanesi Regina Elena, Solari e XXVIII Ottobre (poi Stadera), cioè la collocazione integrale dei servizi esterni al fabbricato, soluzione sostanzialmente arretrata ma che ebbe sufficiente notorietà internazionale18. Alla V Triennale di Milano del 1933, Bottoni e Griffini presentarono, unico esempio del genere in tutta la mostra, il “Gruppo di elementi di case popolari”19, edificio a due piani che raggruppava diversi tipi di alloggio disposti in serie, disimpegnati nel primo piano da una scala e nel secondo da ballatoio. La proposta, sebbene ricevette opinioni piuttosto severe – Persico parlò di “europeismo da salotto”20, mentre appena più sfumato fu il giudizio di Sigfried Giedion, segretario generale dei Ciam21 – presentava un “carattere didattico” attraverso il quale si celavano intenti divulgativi del discorso razionalista a un contesto retrivo come quello italiano. L’ambiente milanese, insomma, si dimostrò più ricettivo di altri nella rielaborazione di soluzioni maturate nell’esperienza europea, mantenendo con essa diversi canali di confronto e scambio attraverso il lavoro di architetti ma anche urbanisti e tecnici, al cui spirito riformatore concorse la tradizione igienista sviluppatasi nel corso dell’Ottocento, talvolta mossi, come nel caso dell’Albertini, da un atteggiamento timoroso e preventivo nei confronti del possibile contagio provocato dalla presenza in città delle cosiddette “classi pericolose”. Secondo un giudizio unanime, un momento di svolta fu rappresentato dal concorso per il quartiere F. Baracca di San Siro, istituito dall’Ipcm nel 1932. L’esito del concorso significò l’accettazione della “lezione funzionalista” presso i vertici dell’Istituto milanese, con la vittoria pari merito di tre progetti tra cui quello del gruppo Albini, composto da undici corpi di fabbrica in linea22.
Nondimeno, permanevano profondi elementi di distacco tra la cultura architettonica internazionale e il modo in cui l’Italia riadattava i concetti espressi da quella in meri...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Titolo
  3. Colophon
  4. Indice
  5. Elenco delle abbreviazioni
  6. Introduzione
  7. PARTE I L’Ifacp nelle vicende edilizie della capitale negli anni Trenta
  8. PARTE II Le nuove borgate popolarissime
  9. PARTE III Vivere in borgata
  10. Apparato iconografico
  11. Elenco delle opere citate
  12. Ringraziamenti