Ho visto quel ragazzo forte
Sul giornale è comparsa la notizia delle 233 firme di poliziotti ferraresi «di ogni ordine e grado» che esprimono fiducia e solidarietà ai quattro colleghi implicati nella morte di Federico. È curioso che questa notizia venga pubblicata proprio nel momento in cui in giro si comincia a dire: «ma io a quell’ora ero lì», «io ho sentito così». È l’effetto del blog. Ognuno ha con sé un frammento che sarebbe utile per ricostruire la verità ma si guarda bene dal renderlo pubblico.
Ne sono convinta: la Questura sta correndo ai ripari. Far sapere che la Polizia di Ferrara è compatta sul fronte difensivo frenerà parecchio le testimonianze.
Ho saputo che è arrivata una lettera anonima indirizzata a uno dei due quotidiani di Ferrara. Mi hanno raccontato che più o meno diceva: «Vorrei testimoniare ma ho dei figli e ho paura che facciano alla mia famiglia quello che è successo a Federico Aldrovandi. Quindi non parlo». Perché questa è la realtà. La gente sa che testimoniare vuol dire mettersi contro tutta la Polizia di Ferrara. È un deterrente fortissimo.
Chi ha voluto che la notizia delle 233 firme venisse pubblicata ha sicuramente raggiunto lo scopo che si era prefisso.
Questa vicenda ha diviso la città e così pure la Polizia. Ma all’interno della Questura di Ferrara le posizioni che puoi prendere non sono quelle ovvie: o stai da una parte o stai dall’altra, o difendi i tuoi colleghi o li affronti. No, la realtà è più meschina: o ti allinei con il fronte difensivo o taci, perché parlare può essere pericoloso. Schierarsi in un certo modo vuol dire essere esclusi, assegnati ai servizi più stupidi o, magari, essere trasferiti. E, considerando che la maggior parte delle persone che lavorano in Questura abita a Ferrara, magari con la propria famiglia, si può capire come un trasferimento che mette in gioco la vita e non solo il lavoro diventi un argomento molto persuasivo.
Oppure, nella migliore delle ipotesi, schierarsi dalla nostra parte vuol dire essere isolati. È il caso di Nicola Solito. Rivestiva un incarico importante e sta pagando le conseguenze per essere stato etichettato come nostro amico di famiglia. È stato messo ai margini. Abbiamo saputo che quando passa in corridoio e qualche collega sta probabilmente parlando di questa storia, di colpo cala il silenzio. L’hanno rinchiuso dentro una bolla.
In questa realtà omertosa e spaventata c’è però qualcuno che non riesce a stare zitto, nonostante la paura di possibili ritorsioni. Qualcuno che ha visto e non riesce più a tacere. Che va a confessarsi e racconta.
Domenico Bedin è il parroco di Sant’Agostino, periferia sud, ma è anche un prete di frontiera. Ha fondato un’associazione che si occupa di emarginati, tossicodipendenti, migranti. Conosce bene gli Aldrovandi, è stato il loro parroco. Federico, ma soprattutto Stefano, andavano a giocare nella sua parrocchia. Gli amici sono lì. La comunione e la cresima Stefano le ha fatte lì. Don Bedin è il prete del quartiere ed è lui che raccoglie una confessione.
È una donna, viene dal Camerun. Si chiama Anne Marie Tsagueu.
Don Domenico mi aveva fatto sapere che qualcuno forse aveva visto qualcosa. Non mi aveva detto altro.
Non credo che questa persona avesse mai scritto sul blog, non so se ne fosse a conoscenza. E non so nemmeno se la lettera al giornale l’avesse scritta lei. Sapevo soltanto che aveva maturato nel tempo la decisione di testimoniare.
Era consapevole della gravità di quello che aveva visto. Ne aveva parlato con il parroco di cui si fidava e lui le aveva suggerito di rivolgersi a un avvocato. L’avvocato era Tiziano Tagliani, che oggi è il sindaco di Ferrara. Lui l’ha rassicurata sul rischio di non vedersi rinnovare il permesso di soggiorno.
Anne Marie è andata dal pubblico ministero a raccontare quello che aveva visto. E così si è arrivati all’incidente probatorio.
L’ho vista quel giorno in tribunale, Anne Marie: era il 16 giugno 2006. Ad assistere c’eravamo anche noi con gli avvocati. Non ci siamo dette nulla, in quell’occasione. Lei, però, ha raccontato tutto.
Il 16 giugno 2006, a inizio deposizione, il pubblico ministero chiede ad Anne Marie Tsagueu di cominciare a raccontare che cosa ha visto la mattina in cui Federico è morto:
«Ecco signora, vuole riferire che cosa ha sentito e visto la mattina del 25 settembre 2005, da quando si è svegliata, e che cosa ha fatto, che cosa ha sentito? Riferisca, cominci a riferire, poi le faccio qualche domanda specifica.»
«Sì. Io ero in camera che stavo dormendo con mio figlio, poi a un certo punto vedo le luci della macchina dei poliziotti, le luci lampeggianti blu che lampeggiavano; poi con il sonno cercavo di non svegliarmi, poi le luci… cioè c’erano sempre queste luci che non si spegnevano, e io mi sono alzata per vedere… perché erano le luci blu, che lampeggiavano come fanno le macchine della Polizia. Mi sono alzata per andare a vedere cosa era, […] ho sentito “apri il baule, aprilo”, e mi sono avvicinata alla finestra […] Ho visto questo ragazzo forte, non era un bambino così, ho visto una persona che si avvicinava da giù, venendo… cioè ho visto la macchina dei poliziotti, ho visto questo ragazzo che veniva verso i poliziotti, che si avvicinava per andare incontro ai poliziotti, e questi poliziotti erano fermi…»
«Erano fermi dove?»
«Vicino alle loro macchine, queste due macchine parcheggiate parallelamente. I poliziotti erano là, fermi fissi, ed il ragazzo si avvicinava verso di loro, dicevano “apri il baule, aprilo”. Io ho sentito queste parole qua, e lui senza capire cosa […] diceva, si è avvicinato verso di loro, è entrato in mezzo a queste due macchine, con una… ha fatto così il ragazzo, e subito questo poliziotto si sono... un attimo li ho visti tutti sopra di lui con il bastone che lo picchiavano. Allo stesso tempo l’ho visto per terra questo ragazzo qua, che era già… cioè era una velocità che era già per terra questo ragazzo, e continuando a picchiarlo, questi poliziotti che continuavano senza fermarsi a picchiarlo quando lui era per terra, si sono… non so come, però visto che c’era una donna… […] sentivo la voce di femmina, una voce femminile, che era di qua sui piedi, l’altro era sulle ginocchia, l’altro però, l’altro era qua, si sono ripartiti in quattro, però picchiandolo lo stesso questo ragazzo qua.»
Il giudice si fa più attento: «Ecco, vuole descrivere con accuratezza…».
Interviene il pubblico ministero: «Sì, adesso ci arriviamo. Si fermi un attimo signora, allora lei, la prima domanda che le faccio è questa: si sveglia perché, se non ho capito male, vede delle luci lampeggiare… quindi si sveglia per la luce?».
«Per la luce che mi ricordo ancora. C’era un po’ di rumore però non è che con i… io dormivo, non è che posso identificare che cosa era dentro questo rumore, no?»
[…]
«No? Era rumore di voci o rumore di…»
«Cioè non era rumore di macchine che corrono, era rumore forse persone che parlano… in questo senso che intendo rumore… non era rumore di un tamburo. Però era una cosa che…»
«Ho capito. Le faccio una domanda più specifica: lei ha sentito dei rumori come di lamiere che sbattono?»
«Come?»
«Di lamiere… di ferro che sbatte contro qualche cosa?»
«Per questo dico che non era rumore di macchina, di tamburo. Quando le persone parlano, anche mormorando, cioè che tu non identifica… erano rumore di parole… però queste cose qua non posso identificare cosa c’era perché…» […]
«Il ragazzo, se ci indica da dove veniva e verso dove andava.»
«Dal fondo dell’ippodromo, dal fondo chiuso, no perché c’è un fondo chiuso che è qua, e questo ragazzo sale, e lui che parte da qua per venire qua.»
«Quindi lei lo vede bene?»
«Sì lo vedo arrivare, lo vedo arrivare.»
«Lo vede arrivare di corsa, di passo? Come arriva?»
«Veloce, molto veloce e decisivo, perché fa…»
«Si chiama sforbiciata.»
«No, lui non ha fatto, a quel momento non fa niente, perché cammina questo rag...