Déja vu
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In Italia, quasi tutti i giorni muore un partito. In Italia, quasi tutti i giorni nasce un nuovo movimento. È difficile votare due volte di fila lo stesso simbolo, lo stesso schieramento, lo stesso leader. Essere di sinistra, in Italia, è un inferno. Cosa direbbe Freud, vedendo che oggi sono i padri, più o meno nobili, a ribellarsi a figli ingrati e rottamatori? E cosa direbbe Nietzsche di fronte all'eterno ritorno di una storia sempre diversa e sempre uguale a se stessa? Déjà vu ripercorre l'infinita notte dei lunghi coltelli della sinistra in un unico, abrasivo racconto. Sviscera i risentimenti personali, le vendette tardive, le inimicizie implacabili che hanno trasformato l'area progressista in un terreno radioattivo, una gioiosa macchina da guerra in un plotone d'esecuzione. Ricostruisce una storia che si ripete identica da venticinque anni, come un girotondo. Una storia fatta di vittorie effimere e sconfitte brucianti, di partiti che si riproducono per meiosi, di leadership deboli e congiure di palazzo. Una storia che sta accadendo di nuovo. Adesso.

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Informazioni

Anno
2018
ISBN
9788865766224




Déjà vu






Doloroso è continuare a rinascere
Dhammapada
Prologo
Una ricreazione infinita
Questo libro è un tentativo di storia istantanea. Infatti, sebbene le vicende narrate nelle pagine che seguono siano ancora in pieno corso, esse sono al tempo stesso, inesorabilmente, già accadute. Stiamo parlando di quel complicato, controverso, contraddittorio processo che sui giornali si usa chiamare ora riunificazione della sinistra ora ricomposizione del centrosinistra, ora più solennemente rinascita, ricostruzione, rifondazione di una grande forza progressista capace di riconnettere la sinistra con il suo popolo. E che forse dovremmo definire, più esattamente, ricreazione.
Il fatto è che ciascuno degli episodi qui raccontati si è già ripresentato almeno due volte – e spesso molte di più – sia in forma di tragedia sia in forma di farsa, rispunta persino nel momento stesso in cui scriviamo queste righe. E continuerà a farlo, senza alcun dubbio, quando l’intero volume sarà ormai in libreria.
Ogni giorno in Italia nasce – se non un partito – una corrente, un movimento o almeno un appello per rinnovare radicalmente la sinistra. E per farla finita, va da sé, con le divisioni. Per questo farne la storia è impossibile: perché l’infinita serie di scissioni, riaggregazioni e successive riscomposizioni che caratterizza la parabola del centrosinistra non disegna, per essere esatti, alcuna parabola. Semmai, un frattale. Un’immagine dotata cioè di autosimilarità, in cui ciascuna delle parti ripete su diversa scala la figura dell’intero.
Sarà meglio spiegarci con qualche esempio.
«Il paese ha bisogno di un radicale cambiamento. Che ripristini la legalità, che inverta la tendenza al regime.» È l’incipit di uno dei tanti appelli di questa lunga stagione. Il titolo è: «Per un nuovo partito della sinistra». Ma chi potrebbe dire con certezza, oggi, di quale nuovo partito si tratti, e di quale regime?
«Il paese ha bisogno di un partito della sinistra nuovo e diverso. Nuovo e diverso innanzitutto nel senso che a fondarlo non siano solo cittadini che già oggi militano in un partito, ma anche, e con eguale peso e dignità, i molti che nei partiti tradizionali e ufficiali della sinistra non hanno potuto riconoscersi: come singoli, club, movimenti di opinione.» Con queste parole, il 10 febbraio 1990, un gruppo di intellettuali capitanati da Paolo Flores d’Arcais riuniscono al teatro Capranica di Roma quella che al tempo, specialmente dalle colonne di Espresso e Repubblica, usano chiamare «sinistra sommersa», e che presto cominceranno a definire, più genericamente, «società civile». Sono le stesse parole d’ordine, e in molti casi gli stessi protagonisti, che si ritroveranno in quel movimento dei girotondi che dodici anni dopo, il 2 febbraio 2002, prenderà slancio dalle parole di Nanni Moretti («Con questo tipo di dirigenti non vinceremo mai!»). A cambiare, in pratica, è soltanto il regime: nel 1990 è ancora il regime democristiano, nel 2002 è già regime berlusconiano.
Lo stesso Flores, del resto, il suo primo appello a quella «sinistra sommersa» in cui «oggi è diffuso un disagio», a quegli elettori che «negli schieramenti della sinistra organizzata, e nella prassi quotidiana dei rispettivi partiti, trovano ormai difficoltà insormontabili a riconoscersi», lo scrive su Repubblica il 3 gennaio 1987. Quando ci sono ancora il Partito comunista e il Muro di Berlino, Reagan e la Thatcher. E continua a scriverlo, con cadenza ricorrente, per i successivi trent’anni. Per esempio, il 15 febbraio 2011, all’indomani della grande manifestazione femminista dei comitati «Se non ora quando?», allorché sul Fatto Quotidiano invita le organizzatrici a non fare «l’errore compiuto dai girotondi, e poi dai viola, e dal movimento degli studenti, e da tutti i movimenti di lotta che hanno mantenuto civile e vivo questo paese nel “quasi ventennio” cupo che abbiamo vissuto». L’errore cioè di delegare «ai soli partiti il momento elettorale» (e pensare che a ciascuno dei movimenti citati, nessuno escluso, era arrivato di volta in volta l’argomentato appello di Flores).
Sono le stesse parole d’ordine che risuonano a Roma, il 18 giugno 2017, nell’assemblea del teatro Brancaccio. A ben ventisette anni dall’assemblea del Capranica. A trenta da quel primo articolo sulla «sinistra sommersa».
«Quando è stato chiaro che ciò che pure si continua a chiamare “sinistra” sarebbe stata sotto il controllo di una oligarchia senza alcuna legittimazione dal basso, e intimamente legata al sistema, abbiamo detto: basta», spiega dal palco Tomaso Montanari, critico d’arte, editorialista di Repubblica e presidente di Libertà e Giustizia (associazione-movimento della società civile fondata nel 2002 da Carlo De Benedetti, con personalità e caratteristiche perfettamente autosimili). Per questa ragione «io e Anna Falcone abbiamo deciso di invitarvi a venire qua oggi, quando l’ennesimo amico ci ha detto che alle prossime elezioni politiche non avrebbe votato». Per avviare cioè un processo in cui «ogni cittadino conti a prescindere dalle tessere che ha o non ha in tasca». Un processo che tuttavia s’interrompe bruscamente il 13 novembre 2017, quando i due promotori, Montanari e Falcone, annullano l’imminente assemblea del loro movimento con un breve testo in cui danno la colpa alle «manovre politiciste» dei partiti e annunciano due distinti documenti – uno di Falcone, l’altro di Montanari – in cui dicono di voler continuare a lavorare insieme, ma in un percorso nuovo e autonomo.
Passano ancora pochi giorni e Antonio Ingroia e Giulietto Chiesa, a loro volta già protagonisti a diverso titolo di un’altra mezza dozzina di movimenti-partito e partiti-movimento della società civile di simile orientamento, annunciano «la mossa del cavallo». E naturalmente, come tutti i loro predecessori, contemporanei e successori, precisano subito: «Noi non siamo un partito e non saremo mai un partito, anzi, noi proponiamo, con questo appello al popolo, un’alleanza fra cittadini, contro i partiti. Noi guardiamo ai cittadini, a quel 60 per cento di elettori che hanno già deciso oggi di non votare alle prossime elezioni…».
Ci fermiamo qui, e solo perché a un certo punto bisogna fermarsi. Ma è giusto che il lettore sia avvertito, prima di proseguire, dell’assoluta arbitrarietà e soggettività dei criteri con cui abbiamo proceduto alla selezione di episodi, iniziative e protagonisti. Prigioniera com’è di un interminabile istante, questa storia non ha un inizio e non ha una fine. Di fatto, non conosce alcuno sviluppo, alcuna evoluzione, alcun cambiamento. È un magma.
O anche, se preferite, un girotondo.
1. Lo sparo di Gargonza
Tutte le grandi contese dinastiche della storia traggono origine da un lutto, reale o immaginario, che agli occhi dei contemporanei rappresenta i valori di quell’antica e nobile tradizione che infidi usurpatori minacciano di sovvertire: il funerale di Enrico Quinto con cui si apre la serie dei drammi shakespeariani dedicati allo scontro tra i Lancaster e gli York nella Guerra delle due rose; la decapitazione del re di Grande inverno sotto gli occhi delle figlie, all’origine dello scontro tra i Lannister e gli Stark, con cui si chiude la prima stagione del Trono di Spade; l’intervento di Massimo D’Alema al seminario di Gargonza – e la sua simbolica decapitazione dell’Ulivo sotto lo sguardo incredulo dell’intera aristocrazia progressista – con cui nel lontano 1997 ebbe inizio quell’infinita, spietata, sanguinosa serie di battaglie campali e congiure di palazzo, insincere riconciliazioni e reciproci tradimenti, che l’inesauribile ironia della storia ha consegnato alle cronache con il nome di «unità del centrosinistra».
Come ogni storia che si rispetti, anche la nostra storia comincia in un castello. Per essere precisi, nel castello di Gargonza, in provincia di Arezzo. È l’8 marzo 1997. È passato meno di un anno da quelle storiche elezioni del 21 aprile 1996 – le prime vinte dalla sinistra postcomunista! – e Romano Prodi ha voluto riunire, rigorosamente «a porte chiuse», vertici dei partiti e vertici del pensiero di quella grande coalizione che lo ha portato al governo (come direbbe D’Alema), o piuttosto che al governo è stata portata da lui (come direbbe Arturo Parisi).
Sia come sia, a un anno da quella storica vittoria, l’impressione è che la macchina abbia bisogno di una messa a punto. Di sicuro il clima non corrisponde all’entusiasmo dei primi giorni, e nemmeno a quello retrospettivo dei posteri. «La due giorni nel castello» profetizza su Repubblica Curzio Maltese alla vigilia del raduno «promette d’essere uno degli eventi più noiosi dell’anno. In linea, del resto, con il primo anno di vita (?) dell’Ulivo trascorso all’insegna dello slogan: l’assenza d’immaginazione al potere.»
I sondaggi che saranno pubblicati nelle settimane successive non lo smentiranno. «Insoddisfatti di Prodi 2 italiani su 3», titola La Stampa il 7 aprile. «I sondaggi dicono che il governo Prodi è al minimo di consenso, che il Polo ha superato l’Ulivo, e che anche la popolarità personale del presidente del Consiglio è sul gradino più basso. Si respira aria di tramonto di un’esperienza politica e di governo» commenta Edmondo Berselli, che pure di Prodi è un vecchio amico. «Suscita diffidenza una sinistra che complessivamente non riesce a divenire quel che vorrebbe», affonda il coltello anche un’altra autorevole intellettuale di sinistra come Barbara Spinelli, alla fine di quello stesso crudelissimo aprile, denunciando «una sorta di egemonia culturale» che Rifondazione comunista eserciterebbe su un centrosinistra «inibito, afasico, spesso impotente».
Insomma, a leggere i giudizi dei contemporanei, quel primo glorioso governo di centrosinistra, quello che porterà l’Italia in Europa e la sinistra al governo dell’Italia, caduto secondo molti per l’eterna inaffidabilità di Fausto Bertinotti e secondo molti di più per l’affidabilissima crudeltà di Massimo D’Alema, non sembra proprio fare scintille. «Finora Prodi e compagni sono riusciti a governare senza una sola idea, al massimo con qualche parametro», sentenzia Maltese.
All’incontro di Gargonza, in compenso, non manca nessuno dei più bei nomi dell’intellighenzia progressista: da Umberto Eco a Gianni Vattimo, da Ettore Scola a Luciano Berio, da Furio Colombo a Paolo Flores d’Arcais. L’intervento destinato a segnare per sempre la riunione, però, lo pronuncia il segretario del Pds, Massimo D’Alema.
Comincia così: «Voi mi scuserete se, diciamo, io ho optato per fare un discorso molto di merito e non un saluto formale, anche se questo discorso potrà contenere qualche risposta un po’ spigolosa».
Non lo scuseranno.
Quasi quindici anni dopo, commentando i risultati delle amministrative del 2011, quelle dell’«onda arancione» che sembra travolgere il centrodestra ovunque, da Napoli a Milano, Umberto Eco non mancherà di tornare, puntigliosamente, sul punto. «È ancora materia di discussione» scrive infatti sulla rivista Alfabeta2 «chi siano stati i veri vincitori delle elezioni comunali, specie a Milano e Napoli. Quello che non ci si è chiesti abbastanza è chi siano gli sconfitti.»
Berlusconi e Bossi, risponderà l’ingenuo lettore. Certo, concede Eco, ma quella è solo «l’evidenza più immediata». Meno immediato, ma a suo giudizio non meno evidente, è invece il fatto che qualcun altro, se non sconfitto, dovrebbe sentirsi come minimo messo in causa. Si sta parlando, ovviamente, di Massimo D’Alema.
È indiscutibile, argomenta il grande semiologo, che terremoti elettorali come quelli scatenati da Pisapia o de Magistris non avrebbero potuto verificarsi «se in campo fossero scesi solo i partiti tradizionali della sinistra». A fare la differenza è stato il fatto che intorno a loro si sono aggregati «comitati sorti quasi spontaneamente», con «varie altre rappresentanze della società», dalla sinistra radicale agli «elementi della borghesia cosiddetta illuminata» e «talora di quel mondo politico che era stato tempo fa espressione della migliore Democrazia cristiana». Due categorie, queste ultime, a onor del vero sempre presenti e sempre giustamente citate: da non confondere mai, va da sé, con esponenti della borghesia oscurantista o della peggiore Democrazia cristiana (con i quali non si è mai capito, tuttavia, per quale ragione i migliori si ostinassero a convivere). Comunque sia, il fatto è che si è formato «un paesaggio di difficile definizione geografica ma che, secondo le definizioni correnti, si può intendere come espressione della società civile». Questo è il punto. Ed è un punto particolarmente importante, perché non è la prima volta che accade. La prima volta in cui questo naturale fermento, questa spontanea fioritura della società civile si manifestò nella politica italiana, spiega Eco, fu proprio in occasione di quelle storiche elezioni del 21 aprile 1996. «Ebbene» insiste ora lo scrittore «che cosa ha fatto seguito a questa vittor...

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