Perché le nazioni falliscono
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Perché le nazioni falliscono

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Per la scienza sociale è la madre di tutte le domande: perché ci sono paesi che diventano ricchi e paesi che restano poveri? Per quale ragione nel mondo convivono prosperità e indigenza? Alcuni si soffermano sul clima e sulla geografia. Ma il caso del Botswana, che cresce a ritmi vertiginosi mentre paesi africani vicini, come Zimbabwe, Congo e Sierra Leone, subiscono miserie e violenze, smentisce questa interpretazione. Altri chiamano in causa la cultura. Ma allora come si spiegano le enormi differenze tra il Nord e il Sud della Corea? E che dire di Nogales, Arizona, che ha un reddito pro capite tre volte più alto di Nogales, Sonora, città gemella messicana? Le origini di prosperità e povertà risiedono nelle istituzioni politiche ed economiche che le nazioni si danno. Ce lo dimostrano Daron Acemoglu e James A. Robinson, accompagnandoci in un emozionante viaggio nella storia universale, di civiltà in civiltà, di rivoluzione in rivoluzione. Dall'Impero romano alla Venezia medievale, dagli inca e i maya, distrutti dal colonialismo spagnolo, al devastante impatto della tratta degli schiavi sull'Africa tribale, dalla Cina assolutista delle dinastie Ming e Qing al nuovo assolutismo di Mao Zedong, dall'Impero ottomano alle autocrazie mediorientali, le élite dominanti preferiscono difendere i propri privilegi ed estrarre risorse dalla società che avviare un percorso di benessere per tutti. La crescita economica sovverte lo status quo, e per questo è temuta e ostacolata da chi detiene il potere. Ma alcuni paesi sanno cogliere le opportunità della storia: la nascita di sistemi politici inclusivi e pluralisti diffonde la crescita economica a ogni latitudine. L'Inghilterra della rivoluzione industriale, la Francia rivoluzionaria e napoleonica, la nascita della democrazia negli Stati Uniti e, in tempi più recenti, il Brasile di Lula, dimostrano che si può prendere la strada dell'emancipazione politica e sociale. Nell'epoca in cui si assiste al tracollo di molti paesi e alla travolgente ascesa di altri, «Perché le nazioni falliscono» propone una teoria brillante, di rara profondità storica, che cambia il nostro modo di vedere il mondo. E, rifuggendo ogni conformismo, mette in discussione le certezze superficiali: siamo sicuri che la crescita della Cina sia inarrestabile?

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Informazioni

Anno
2013
ISBN
9788865762967
Argomento
Economia

1. Così vicine, eppure così lontane

L’economia del Rio Grande

La città di Nogales è tagliata in due da un muro. Se ci si avvicina e si guarda a nord è possibile vedere Nogales, Arizona, parte della contea statunitense di Santa Cruz. Da quel lato il reddito di una famiglia media è di circa 30000 dollari l’anno. Gran parte degli adolescenti va ancora a scuola e la maggioranza degli adulti ha un diploma di istruzione superiore. Malgrado tutte le critiche che le persone fanno al sistema sanitario statunitense per le sue carenze, la popolazione è relativamente in buona salute, con un’alta aspettativa di vita secondo gli standard globali. Molti dei residenti hanno più di sessantacinque anni e il diritto all’assistenza sanitaria pubblica di Medicare. Questo è solo uno dei molti servizi che lo stato fornisce e che la maggior parte dei cittadini dà per scontati, come l’elettricità, i telefoni, il sistema fognario, la rete di strade che li unisce al resto degli Stati Uniti e, ultima ma non meno importante, la garanzia della legalità e dell’ordine. Gli abitanti di Nogales, Arizona, possono svolgere le proprie attività quotidiane senza timore di attentati alla vita o alla sicurezza, e non devono temere costantemente di essere vittime di furti, espropri e altre cose che potrebbero mettere a repentaglio i loro investimenti in aziende e immobili. Altrettanto importante, i residenti di Nogales, Arizona, danno per scontato che, pur con tutte le inefficienze e la corruzione occasionale, lo stato agisca nel loro interesse. Possono votare per sostituire il loro sindaco, i loro deputati e senatori; si esprimono alle elezioni presidenziali che determinano chi sarà il leader del paese. La democrazia è per loro una seconda pelle.
La vita a sud del muro, solo pochi metri più in là, è piuttosto diversa. Anche se i residenti di Nogales, Sonora, vivono in una zona relativamente prospera del Messico, il reddito della famiglia media è circa un terzo rispetto a quello di Nogales, Arizona. Gran parte degli adulti di Nogales, Sonora, non ha un diploma, e molti adolescenti non vanno a scuola. Le madri devono affrontare alti tassi di mortalità infantile. Data la scarsa qualità del sistema sanitario pubblico, non sorprende che i residenti di Nogales, Sonora, non vivano altrettanto a lungo dei loro omologhi del nord. Allo stesso modo, non hanno accesso ad altri servizi pubblici. Le strade sono in cattive condizioni, a sud della frontiera. La legalità e l’ordine pubblico stanno ancora peggio. Il tasso di criminalità è elevato e aprire un’azienda è rischioso: non solo c’è il rischio di furti e rapine, ma ottenere tutti i permessi e «oliare» tutti gli amministratori non è un’impresa facile, anche solo per avviare un’attività. I residenti di Nogales, Sonora, convivono ogni giorno con la corruzione e l’inettitudine dei politici.
In contrasto con i vicini del nord, la democrazia è un’esperienza molto recente per loro. Fino alle riforme politiche del 2000, Nogales, Sonora, come il resto del Messico, era sotto il corrotto controllo politico del Pri, il Partito rivoluzionario istituzionale.
Come possono le due metà di quella che è in sostanza la stessa città essere così diverse? Non c’è differenza nella geografia, nel clima, e neppure nelle malattie tipiche dell’area, dal momento che i germi non devono affrontare le restrizioni esistenti per andare avanti e indietro tra Stati Uniti e Messico. Naturalmente, le condizioni di salute sono molto diverse, ma questo non ha niente a che fare con l’epidemiologia; la ragione è invece che le persone a sud del confine vivono in condizioni igieniche peggiori e sono prive di un’assistenza sanitaria decente.
Ma forse il fatto è che i residenti sono molto diversi. Non sarà che gli abitanti di Nogales, Arizona, sono i pronipoti dei migranti dall’Europa, mentre quelli a sud sono discendenti degli aztechi? In realtà non è così. I retroterra delle persone da entrambi i lati del confine sono assai simili. Dopo che il Messico si rese indipendente dalla Spagna nel 1821, l’area attorno a «Los dos Nogales» divenne parte dello stato messicano della Vieja California, e tale rimase anche dopo la guerra messicano-americana del 1846-1848. Fu solo dopo il cosiddetto Gadsden Purchase (letteralmente l’acquisto di Gadsden) nel 1853, infatti, che il confine statunitense si estese fino a quest’area. Il tenente Nathaniel Michler notò, mentre faceva la ricognizione della frontiera, la «bella, piccola valle di Nogales». Lì furono fondate le due città, una su ciascun lato del confine. Gli abitanti di Nogales, Arizona, e di Nogales, Sonora, condividono gli stessi antenati, amano lo stesso cibo e la stessa musica, per cui ci possiamo arrischiare a dire che abbiano la stessa «cultura».
Naturalmente, esiste una spiegazione molto semplice e ovvia per la differenza fra le due Nogales, che il lettore avrà intuito fin dall’inizio: l’esistenza della frontiera che divide le due metà. Nogales, Arizona, è negli Stati Uniti. I suoi abitanti hanno accesso alle istituzioni economiche statunitensi, che consentono loro di scegliere liberamente le rispettive occupazioni e di acquisire istruzione e competenze, e che incoraggiano i loro datori di lavoro a investire nelle migliori tecnologie: fattori che, nel loro insieme, consentono loro di ricevere salari più alti. Hanno anche accesso a istituzioni politiche che permettono di partecipare al processo democratico, di eleggere i propri rappresentanti e di rimpiazzarli se agiscono in modo sbagliato. Di conseguenza, i politici forniscono i servizi di base (dalla sanità pubblica alle strade e all’ordine pubblico) che i cittadini esigono. Gli abitanti di Nogales, Sonora, non sono altrettanto fortunati. Vivono in un mondo diverso, plasmato da istituzioni diverse. Le istituzioni creano incentivi molto differenti per gli abitanti delle due Nogales e per le aziende e gli imprenditori disposti a investirvi. Tali incentivi, determinati dalle differenti istituzioni dei due paesi in cui sono situate, sono la ragione principale del divario di prosperità economica di qua e di là dal confine.
Perché le istituzioni degli Stati Uniti sono tanto più adatte a promuovere il successo economico di quelle del Messico e, oltretutto, dell’intera America Latina? La risposta a questa domanda risiede nel modo in cui le diverse società si sono formate durante il primo periodo coloniale, allorché si determinò un processo di divergenza istituzionale, le cui conseguenze perdurano ancora oggi. Per capire questa differenziazione, dunque, dobbiamo cominciare dalla fondazione delle colonie in Nordamerica e America Latina.

La fondazione di Buenos Aires

Nei primi mesi del 1516 il navigatore spagnolo Juan Díaz de Solís si avventurò in un ampio estuario sulla costa orientale del Sudamerica. Approdando a riva, de Solís rivendicò la terra in nome della Spagna, e diede al fiume il nome di Río de la Plata («fiume d’argento»), dal momento che la gente locale possedeva questo metallo. I popoli indigeni su entrambi i lati dell’estuario – i charrúa in quello che oggi è l’Uruguay e i querandí nelle pianure poi divenute note come pampas nell’Argentina moderna – mostrarono ostilità verso i nuovi arrivati. Gli amerindi locali erano cacciatori-raccoglitori che vivevano in piccoli gruppi, senza una forte autorità politica centrale. Fu proprio una banda di charrúa a bastonare a morte de Solís, mentre esplorava i nuovi territori che aveva tentato di occupare per la Spagna.
Nel 1534, gli spagnoli, ancora ottimisti, inviarono una prima missione di coloni, con a capo Pedro de Mendoza, e fondarono una città nel sito dove oggi sorge Buenos Aires. Avrebbe dovuto essere un luogo ideale per gli europei. Buenos Aires («aria buona») aveva un clima temperato, ospitale. Eppure il primo soggiorno degli spagnoli durò poco. Essi non erano in cerca di aria buona, ma di risorse di cui appropriarsi e indigeni da costringere ai lavori forzati. I charrúa e i querandí non erano però dello stesso avviso. Si rifiutavano di fornire cibo agli spagnoli e, se catturati, di lavorare; attaccavano il nuovo insediamento con archi e frecce. Gli spagnoli furono in breve ridotti alla fame, dal momento che non avevano previsto di doversi procurare il cibo autonomamente. Buenos Aires non era ciò che avevano sognato. Non si riusciva a costringere la gente locale a lavorare per i coloni. Non era possibile sfruttare l’area per estrarre argento o oro; l’argento che de Solís aveva trovato era arrivato direttamente dallo stato inca sulle Ande, lontano, a ovest.
Gli spagnoli, mentre cercavano di sopravvivere, cominciarono a inviare spedizioni per trovare un altro luogo, che potesse offrire ricchezze più vaste e popolazioni più facili da sottomettere. Nel 1537, una di queste spedizioni, capeggiata da Juan de Ayolas, risalendo il fiume Paraná in cerca di una via per il territorio inca entrò in contatto con i guaraní, popolo sedentario con un’economia agricola basata sul mais e la manioca. De Ayolas si rese immediatamente conto che i guaraní erano tutt’altra cosa rispetto ai charrúa e ai querandí. Dopo un breve conflitto, gli spagnoli prevalsero sulla resistenza dei guaraní e fondarono una città, Nuestra Señora de Santa María de la Asunción, a tutt’oggi capitale del Paraguay. I conquistadores sposarono principesse guaraní e rapidamente si instaurarono come la nuova aristocrazia. Adattarono i sistemi di lavoro forzato e riscossione dei tributi dei guaraní, mettendo sé stessi al timone. Questo era il tipo di colonia che volevano fondare, ed entro quattro anni Buenos Aires fu abbandonata: tutti gli spagnoli che vi si erano stabiliti si trasferirono nella nuova città.
Buenos Aires, la «Parigi del Sudamerica», una città di ampi boulevard all’europea, che si giovava della grande ricchezza agricola delle pampas, non fu più colonizzata fino al 1580. Il suo abbandono e la conquista del territorio dei guaraní rivelano la logica della colonizzazione europea delle Americhe. I primi coloni spagnoli e, come vedremo, anche i coloni inglesi non erano interessati a lavorare la terra; volevano che altri lo facessero per loro, bramosi solo di ricchezze, oro e argento da depredare.

Da Cajamarca…

Le spedizioni di de Solís, de Mendoza e de Ayolas avvennero sulla scia delle più note imprese di Cristoforo Colombo, che avvistò un’isola delle Bahamas il 12 ottobre 1492. A dare il la all’espansione e alla colonizzazione spagnola delle Americhe furono l’invasione del Messico da parte di Hernán Cortés nel 1519, la spedizione di Francisco Pizarro in Perù una quindicina di anni più tardi e la spedizione di Pedro de Mendoza nel Río de la Plata solo due anni dopo. Nel corso del secolo successivo, la Spagna conquistò e colonizzò gran parte del Sudamerica centrale, occidentale e meridionale, mentre il Portogallo rivendicò, più a est, il dominio sul Brasile.
La strategia di colonizzazione degli spagnoli fu molto efficace. Elaborata per la prima volta da Cortés in Messico, si basava sull’idea che il miglior modo per vincere ogni resistenza fosse catturare il capo indigeno. Ciò consentì agli spagnoli di appropriarsi delle ricchezze accumulate dai leader locali e di costringere i popoli autoctoni a offrire cibo e tributi. Il passo successivo fu di ergersi a nuova élite della società indigena e prendere il controllo dei sistemi di tassazione ed esazione dei tributi esistenti, in particolare del lavoro forzato.
Quando Cortés e i suoi uomini arrivarono nella grande capitale azteca di Tenochtitlán, l’8 novembre 1519, furono ricevuti con benevolenza da Montezuma, l’imperatore azteco, che aveva deciso, contro il parere dei suoi consiglieri, di accogliere gli spagnoli in pace. Che cosa accadde subito dopo è ben descritto dal resoconto redatto dopo il 1545 dal frate francescano Bernardino de Sahagún, nel suo famoso Codice fiorentino:
Improvvisamente [gli spagnoli] afferrarono Montezuma […] e i cannoni esplosero un colpo […]. Il panico si diffuse; fu come se tutti avessero il cuore in gola. Prima che calasse la notte si erano diffusi terrore, stupore, apprensione e grande incredulità in tutti quanti.
E quando venne l’alba furono subito ufficializzate le richieste [degli spagnoli]: tortillas bianche, tacchini arrostiti, uova, acqua, legna e carbonella […]. Questo era stato ordinato da Montezuma.
E quando gli spagnoli si furono ben sistemati, iniziarono a interrogare Montezuma a riguardo del tesoro della città […] e con grande insistenza essi chiedevano dell’oro. E Montezuma dunque condusse con sé gli spagnoli, che lo seguirono circondandolo […] e tutti lo tenevano stretto, tutti lo afferravano.
E quando essi raggiunsero il palazzo del tesoro, in un posto chiamato Teocalco, radunarono tutti gli oggetti preziosi; copricapi di piume di quetzal, strumenti, scudi, dischi d’oro […] orecchini d’oro, bracciali d’oro per braccia a e gambe, fasce dorate.
E immediatamente si procedette a separare l’oro […] e subito gli spagnoli bruciarono tutti […] gli oggetti preziosi. E con l’oro ricavato vennero fusi lingotti […]. E gli spagnoli frugavano dappertutto […]. E tutto quello che ritenevano utile e prezioso lo prendevano.
Giunsero infine al magazzino dello stesso Montezuma […] a Teocalco […] e si impadronirono delle proprietà [di Montezuma] […] e di tutti i suoi oggetti preziosi: collane con pendagli, bracciali ornati con piume di quetzal, bracciali d’oro, braccialetti, fasce dorate decorate con conchiglie […] e il diadema di turchesi che era il simbolo del potere regale. Si impadronirono di tutto quanto.
La conquista militare degli aztechi nel 1521 era ormai completata. Cortés, in qualità di governatore della provincia della Nuova Spagna, cominciò allora a ripartire la risorsa più preziosa, la popolazione indigena, attraverso l’istituzione dell’encomienda. Questa aveva fatto la sua comparsa per la prima volta nella Spagna del XV secolo come parte della riconquista del Sud del paese a danno dei cosiddetti «mori», gli arabi che vi si erano stabiliti a partire dall’VIII secolo. Nel Nuovo Mondo prese una forma assai più perniciosa: si trattava dell’assegnazione di un certo numero di indigeni a uno spagnolo, il cosiddetto encomendero. Gli indigeni dovevano all’encomendero tributi e servizi di lavoro, in cambio dei quali egli aveva la responsabilità di convertirli al cristianesimo.
Un primo, vivido resoconto del funzionamento dell’encomienda ci è pervenuto da Bartolomé de las Casas, un frate domenicano che formulò la prima critica, e una delle più impietose, del sistema coloniale spagnolo. De las Casas arrivò sull’isola di Hispaniola nel 1502 con una flotta di navi condotta dal nuovo governatore, Nicolás de Ovando, restando sempre più deluso e turbato dal crudele sfruttamento a danno dei popoli indigeni di cui era testimone quotidiano. Nel 1513 prese parte alla conquista spagnola di Cuba come cappellano, per cui fu persino beneficiato di un’encomienda per i servizi resi. Tuttavia, rinunciò alla donazione e cominciò una lunga campagna per riformare le istituzioni coloniali spagnole. I suoi sforzi culminarono nella Brevissima relazione della distruzione delle Indie, scritta nel 1542, che rappresenta un vibrante attacco alla barbarie della dominazione spagnola. De las Casas riferisce quanto segue sull’encomienda, nel caso particolare del Nicaragua:
Gli spagnoli si stabilirono in ognuno [di quei villaggi] che erano stati loro assegnati o, come essi dicono, affidati e vi facevano lavorare gli indios, sostentandosi con il loro misero cibo e portandogli via tutta la terra e i poderi con cui si mantenevano. Cosicché gli spagnoli tenevano nelle loro case tutti gli indios: anziani capi, vecchi, donne e bambini erano obbligati a servirli senza riposo, giorno e notte.
A proposito della conquista di Nuova Granada, l’odierna Colombia, de las Casas offre una descrizione completa della strategia spagnola:
Gli spagnoli si erano spartiti i villaggi, i signori e la popolazione con l’unico pretestuoso obiettivo di raggiungere il fine cui mirano, cioè l’oro, assoggettando tutti alla consueta tirannia e servitù. Il principale tiranno e capitano che comandava su quella terra senza alcun motivo prese e tenne prigioniero il re e signore di tutto il regno e lo rinchiuse in prigione per sei o sette mesi, chiedendogli oro e smeraldi. Quel re, che si chiamava Bogotá, per la paura disse che avrebbe dato loro una casa piena di quell’oro che gli chiedevano, sperando così di liberarsi dalle mani di chi lo affliggeva, e mandò gli indios a prenderlo, e costoro più volte portarono una gran quantità d’oro e pietre preziose; ma siccome non consegnava la casa d’oro, gli spagnoli dicevano al capitano di ammazzarlo perché non compiva ciò che aveva promesso. Il tiranno rispose che per giustizia avrebbero dovuto chiederglielo davanti a quello stesso re, così gli spagnoli presentarono la loro querela accusando il sovrano di quella terra, e il tiranno emise la sentenza, condannandolo alla tortura se non avesse consegnato la casa d’oro. Gli inflissero la tortura della corda, gli versarono grasso ardente sulla pancia, gli chiusero ciascuno dei piedi in dei ferri conficcati su un palo e il collo stretto in un altro palo mentre due uomini lo tenevano per le mani e altri gli bruciavano i piedi. Di tanto in tanto entrava il tiranno e gli diceva che lo avrebbe fatto morire a poco a poco tra i supplizi se non gli avesse dato l’oro. Fu di parola e ammazzò quel signore con le torture.
La strategia e le istituzioni della conquista perfezionate in Messico furono prontamente adottate anche nel resto dell’Impero spagnolo. E mai si rivelarono più efficaci di quanto lo furono durante la conquista del Perù da parte di Pizarro. De las Casas inizia così il suo resoconto:
Nell’anno 1531 un altro gran tiranno andò con certi suoi uomini nei regni del Perù, dove entrò con lo stesso titolo e gli stessi propositi e intenzioni di tutti gli altri (era uno di quelli che meglio e in più di un’occasione si erano esercitati in tutte le crudeltà e le carneficine commesse in Terra Ferma a partire dall’anno 1510).
Pizarro partì dal tratto di costa vicino alla città peruviana di Tumbes e iniziò a marciare verso sud. Il 15 novembre 1532 raggiunse la città montana di Cajamarca, dove l’imperatore inca Atahualpa si era accampato con il suo esercito. Il giorno successivo Atahualpa – che aveva appena sconfitto suo fratello Huáscar in una lotta per la successione al trono del padre defunto, Huayna Cápac – si diresse con il proprio seguito al campo degli spagnoli. Atahualpa era irritato perché gli era giunta notizia di atrocità commesse dagli spagnoli, come per esempio la violazione del tempio di Inti, il dio del sole. I fatti seguenti sono ben noti. Gli spagnoli tesero una trappola e uccisero la guardia di Atahualpa, assieme forse ad altre duemila persone, catturando l’imperatore. Per rico...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Prefazione
  3. 1. Così vicine, eppure così lontane
  4. 2. Teorie che non funzionano
  5. 3. La costruzione di prosperità e povertà
  6. 4. Piccole differenze e congiunture critiche: il peso della storia
  7. 5. «Ho visto il futuro e so che funziona»: la crescita economica sotto regimi estrattivi
  8. 6. Sentieri divergenti
  9. 7. Il punto di svolta
  10. 8. Non a casa nostra: le barriere allo sviluppo
  11. 9. L’arresto dello sviluppo
  12. 10. La diffusione della prosperità
  13. 11. Il circolo virtuoso
  14. 12. Il circolo vizioso
  15. 13. Perché le nazioni falliscono oggi
  16. 14. Infrangere le barriere
  17. 15. Comprendere prosperità e povertà
  18. Ringraziamenti
  19. Fonti e riferimenti bibliografici
  20. Bibliografia
  21. Immagini