Partirei da un frammento di Nietzsche pubblicato postumo, la cui stesura risale al biennio 1887-1888, e che è dunque pressoché coevo alla Genealogia della morale e a Ecce homo. In questo testo il filosofo proclama la necessità di riconoscere un nuovo genere di verità, del tutto diverso rispetto a quello dominante in tutta la tradizione filosofica precedente. “La verità – afferma Nietzsche – non è qualcosa che esista e che sia da trovare, da scoprire, ma è piuttosto qualcosa che è da creare e che dà il nome a un processo”. Per l’esattezza, secondo Nietzsche la verità è il risultato di una volontà di soggiogamento, che di per sé non ha mai fine. Si tratta dunque – conclude il filosofo – di introdurre la verità non come un prendere coscienza di qualcosa che sia in sé fisso e determinato, ma come un processus in infinitum, come un “attivo” determinare.
La verità alla quale si riferisce Nietzsche si presenta insomma con due caratteristiche essenziali. Anzitutto, non è una “cosa”, ma un processo, che è inoltre costitutivamente inconcludibile. In secondo luogo, e conseguentemente, in quanto non è una cosa, la verità non è qualcosa che possa essere trovato o scoperto, ma è piuttosto qualcosa che è da creare, come prodotto sempre nuovo e consapevole della volontà di potenza. Come corollario non marginale, si potrebbe aggiungere che, avendo le caratteristiche ora indicate, la verità non riguarda soltanto né soprattutto l’attività teoretico-conoscitiva, non è l’oggetto di un atto “contemplativo”, ma coinvolge invece il dominio dell’attività pratica, e dunque supera la distinzione assiomatica fra conoscere e fare.
Sia pure per inciso, si può osservare che questo modo di concepire la verità era stato già annunciato in uno dei primi scritti pubblicati da Nietzsche, vale a dire nel testo intitolato Verità e menzogna in senso extramorale, pubblicato nel 1873, l’anno dopo La nascita della tragedia, quando il pensatore aveva dunque solo 29 anni. Ad esso risale infatti una critica alla nozione tradizionale della verità che è rimasta famosa. “Che cos’è dunque la verità? un esercito mobile di metafore, metonimie, antropomorfismi, in breve una somma di relazioni umane, che sono state sublimate, tradotte, abbellite poeticamente e retoricamente, e che per lunga consuetudine sembrano a un popolo salde, canoniche e vincolanti”. E poi aggiunge: “le verità sono illusioni, delle quali si è dimenticato che appunto non sono che illusioni, metafore, che si sono consumate e hanno perduto di forza, monete che hanno perduto la loro immagine e che quindi vengono prese in considerazione soltanto come metallo, non più come monete”.
Insomma, se ci riferiamo ai due testi nietzscheani – un testo giovanile, l’altro della piena maturità – ora considerati, risulterebbe che egli si fa banditore di un modo radicalmente nuovo di concepire la verità: non più oggetto, ma processo, non più culmine di un’attività esclusivamente teoretico-conoscitiva, ma esito aperto di una volontà, e dunque di un’attività pratico-trasformativa.
Come è ormai ampiamente assodato, la concezione nietzscheana della verità ha esercitato una influenza decisiva su tutto il pensiero e più ancora sulla cultura del Novecento. A questa concezione si può ricondurre infatti anche quell’affermazione di Nietzsche, contenuta nei Frammenti postumi, nella quale si afferma che – proprio in conseguenza dell’accezione di verità ora citata – non vi sono fatti, ma solo interpretazioni. Aggiungendo inoltre che anche questa affermazione non può essere contraddittoriamente considerata un fatto, ma anch’essa debba essere considerata solo un’interpretazione.
Per ritornare al tema centrale che stiamo affrontando, possiamo osservare che si pongono alcuni interrogativi, che si cercherà ora di formulare in maniera esplicita. Si può davvero affermare che in tutta la tradizione filosofica precedente a Nietzsche la verità sia stata concepita come una “cosa”, con la conseguenza di considerare la ricerca della verità come reperimento di qualcosa che preesiste, come scoperta di ciò che già è? E ancora: davvero l’unico statuto riconoscibile per la verità è quello di essere una metafora, o peggio ancora un’illusione? Possiamo davvero liquidare tutta la tradizione filosofica che giunge fino all’autore dello Zarathustra come prigioniera di una concezione illusoria della verità?
Per cercare di rispondere a questi interrogativi vi propongo di seguirmi in un perco...