Ribellarsi è giusto! L'attualità del Maggio 68
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Ribellarsi è giusto! L'attualità del Maggio 68

  1. 112 pagine
  2. Italian
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Ribellarsi è giusto! L'attualità del Maggio 68

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Il compito del filosofo, cinquant'anni dopo il Maggio 68, è duplice. Egli può misurare l'effettiva potenza detonante della vicenda, ma può anche individuare, oltre le molteplici istanze di lotta che l'hanno caratterizzata (studentesca, operaia e libertaria), una precisa diagonale del pensiero. Vale a dire l'inedita teoria dell'incontro politico che il Maggio 68 ha tentato di enunciare e consegnare alla storia. Questo nuovo principio organizzativo, quest'idea, certo silenziosa, non immediatamente discernibile, persiste fino ai nostri giorni e prescrive il nostro avvenire; solo se la riattiamo potremo dirci «contemporanei del Maggio 68». La concezione dell'evento di Badiou non è mai stata chiara come in questo testo: ad essere evenemenziale è l'emergenza di un modo singolare del politico, le sue conseguenze, non l'occupazione di un'università o di una fabbrica. La politica, quella vera, amministra insomma la realtà dell'idea. Essa è un problema di logica modale: «uno spinozismo accanito…». Su questa scorta, il bilancio del presente testo, pur nella sua flessuosità, non rinuncia filosoficamente all'iperbole: solo l'idea del Maggio 68 è reale.

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Informazioni

Editore
Orthotes
Anno
2019
ISBN
9788893141826
Argomento
Filosofia
1.
Destino delle ipotesi sul senso del Maggio 68
Si riparlerà dovunque, in occasione del cinquantenario, del Maggio 68. Vedremo troneggiare, in testa agli articoli–anniversari, l’idea vaga del Maggio 68 come la festa ribelle dei nuovi costumi contro il vecchio mondo, come l’avvento del femminismo, come la fase aurorale del movimento LGBT, come l’addio crepuscolare alla classe operaia, come l’ultima utopia, come la liberazione sessuale, come una danza della Storia a suon di rock, come l’ingresso cieco della Sinistra–al–potere nelle elezioni del 1981, come un fuoco d’artificio sindacale prima che la festa finisca, come l’anarchia dipinta di rosso, come una rivolta anti–autoritaria, come un insieme di piccoli scontri, come Godard regista della strada, come una battuta su Mao presa sul serio da qualche intellettuale alticcio, come una flebile Rivoluzione Culturale in salsa occidentale, come un pretesto per la creazione di mille gruppuscoli turgescenti, come l’occupazione delle università per universalizzare le occupazioni, come l’apogeo critico dei Trenta Gloriosi, come un futuro ricordo per vecchi pensionati rossi, come la rivoluzione proletaria senza proletari né rivoluzione, come uno sfogo degli adolescenti nati durante il baby–boom del dopo guerra, come la moda dei capelli lunghi e delle minigonne, come l’integrazione della classe operaia nella società dei consumi, come il rifiuto della società dei consumi da parte dei consumatori, come il logorio rosso del consumo commerciale, come il passaggio volteggiante dallo strutturalismo d’Althusser al vitalismo di Deleuze, come una creazione fallita di un nuovo comunismo, come una storia di una Cinese, o di un Cinese, come l’inizio della fine della guerra fredda, etc.
Bisogna ammetterlo: questa confusione è comprensibile. Anzitutto perché la verità del “Maggio 68” non si può cogliere nello stesso mese. Non dobbiamo mai dimenticare che è nel mese di Giugno che avvenne la più grande e partecipata manifestazione della borghesia impaurita sotto l’Arco di Trionfo, al cui vertice figurava un Malraux imbottito di farmaci. Che a Giugno de Gaulle si recò in Germania per capire se l’esercito francese sarebbe rimasto l’eterno pilastro degli Stati di classe. Infine, non dobbiamo neanche dimenticare che, nei mesi successivi, una schiacciante maggioranza elettorale riconsegnò il potere alla destra, sottolineando così quanto l’identità del Maggio 68 fosse un disordine invivibile.
La verità del Maggio 68, o la semplice descrizione della sua singolarità, è possibile solo se si considerano le sue conseguenze immediate – i dieci anni successivi – e la sua complessità interna. Poiché il Maggio 68 è più un coro polifonico atonale che un ensemble intonato di solisti.
La singolarità del Maggio 68 (e del decennio successivo) non dipende punto dalla semplicità di un’Idea, né dall’espansione massificata di una rivolta. Né la scintilla di un pensiero, né la potenza del numero possono caratterizzare questo momento. Quando Jean–Claude Milner, in Constat, vede nella vicenda una congiunzione tra la rivolta e il pensiero, si sbaglia.
Diciamo in primo luogo che l’aspetto riguardante la violenza e i numeri implicati non era una novità, anche se le immagini di quei tempi continuano a colpire. Durante la guerra d’Algeria vi sono stati, sin dalla fine degli anni cinquanta, non solo degli scontri molto duri con la polizia – che causarono più feriti e morti di quelli del Maggio 68 -, ma anche tutto un insieme di pratiche illegali, dal rifiuto del servizio militare in qualità di soldati coloniali fino alle reti di sostegno alle organizzazioni nazionaliste algerine, spesso pagate con lunghi esili, arresti, processi e, in Algeria, persino con torture ed esecuzioni. L’opinione pubblica stessa si trovò violentemente divisa a proposito di questa guerra, la quale, nel 1956, era stata rilanciata con un’energia realmente criminale dal governo socialista di Guy Mollet, dopo una campagna elettorale segnata dalla parola d’ordine “pace in Algeria”. Fu durante questo frangente, del resto, che mi convinsi che la social–democrazia fosse una specialista del rinnego e dell’inganno, aspetto che in seguito si è impegnata a confermare senza soluzione di continuità, sia sul versante del PS (da Mollet a Mitterrand, da Mitterand à Jospin, da Jospin a Hollande), sia su quello del PCF (da Waldeck Rochet a George Marchais, da Marchais a Robert Hue e Marie–George Buffet, e da quest’ultimi fino a Pierre Laurent). È in questione l’intera sinistra, di cui è importante pensare la quantità di misfatti che ha combinato lungo il periodo che va dagli anni cinquanta ai nostri giorni – e che coincide con la mia vita militante -, prima di sprofondare in una distensione nichilista. Eppure, già decine d’anni fa, Sartre scriveva: «La sinistra è un cada vere marcescente a testa in giù». Forse quest’Idea apparente e tenace quale è “la Sinistra” ha da sempre come correlato reale un morto vivente. Resta il fatto che, durante il regno del socialista Mollet, si affiggevano dei manifesti in cui venivano stigmatizzati con rara violenza gli “intellettuali disfattisti”, ossia gli oppositori dell’atroce guerra coloniale, mentre proprio noi, gli intellettuali, scendevamo regolarmente lungo il viale Saint–Michel – eravamo pochi, ma muniti di molto coraggio – per farci picchiare a colpi di manganelli e farci deportare nei cellulari della polizia.
Con ciò voglio dire che io fui più pervaso dal sentimento sublime di una divisione implacabile e di una violenza latente durante questi tempi di guerra rispetto al Maggio 68. Certo, nel Maggio 68 era in atto una ribellione. Ma c’era anche, durante l’intero maggio gioioso, specie nelle sue prime quattro settimane, nonostante le barricate e i fumi dei gas lacrimogeni, una sorta di consenso favorevole crescente, un’approvazione molto larga, il cui simbolo fu per me la visione di alcuni edifici, nei quartieri tranquilli di Parigi, paradossalmente ricoperti di rosso.
Per quanto concerne l’aspetto del pensiero nuovo, occorre dire che esso incoraggiò – ci ritornerò – la durata paziente e limitata, l’azione militante tenace, molto più dell’urgenza dell’azione di massa. Nel corso del Maggio 68 il lessico politico è rimasto essenzialmente convenzionale, anche se si ornava di certe trovate, in realtà più affascinanti che epiche, come “sotto le strade si trova una spiaggia” o “lasciate la paura del rosso ai tori”. Il motivo universale della “rivoluzione” era praticato come un luogo comune senza un contenuto reale accessibile e senza un’azione simbolica che, anche alla lontana, potesse evocare l’assalto del Palazzo delle Tuileries o la presa del Palazzo d’Inverno. Io stesso rimasi esterrefatto nel vedere delle manifestazioni molto importanti, nella città di provincia dove ai tempi abitavo e insegnavo, sfilare impavidamente davanti una prefettura totalmente priva di una difesa poliziesca – giacché tutto l’apparato repressivo era concentrato a Parigi -, senza che si presentasse la minima velleità di occuparla. Anch’io, d’altronde, che sognavo quest’assalto e che mi stupivo che nessuno vi pensasse, in realtà non lo consideravo seriamente perché non avevo fatto niente per organizzarlo o per difenderne pubblicamente l’evenienza, nelle innumerevoli assemblee generali dell’epoca. Per il resto, era certamente in questione una “lotta”, uno “scontro” e, nel registro negativo, vi era pur sempre un chiaro rifiuto della forma parlamentare di Stato, che si manifestò nel momento in cui, nel mese di giugno, una buona parte del movimento accolse l’annuncio delle votazioni col grido “Elezioni, una roba da coglioni”. Ma tutto ciò non comportava alcuna visione nuova della politica. Vi erano solo delle forme embrionali di negazione delle forme consolidate, specie dei partiti di sinistra, comunisti compresi, il cui fastidio per il movimento era ben visibile.
Devo ammettere, contro l’aforisma di Milner, che il Maggio 68 e le sue conseguenze causarono piuttosto una disgiunzione tra la rivolta e il pensiero. Abbiamo capito che il problema politico non riguardava un movimento enorme e gioioso contro l’inerzia dello Stato, bensì un’organizzazione da reinventare, contro la forma–partito come il PCF finita nel dimenticatoio. Il Maggio 68 segna al tempo stesso la fine della forma debole e astiosa del “partito della classe operaria” e l’inizio di un enigma ancora irrisolto che possiamo agilmente formulare nel modo seguente: se è vero che coloro che non possiedono nulla – né denaro, né armi, né potere, né strumenti di propaganda – hanno la sola forza della loro unità e della loro disciplina, e se è parimenti vero che la forma centralizzata e militarizzata del partito stalinista ha mostrato i suoi limiti, orbene, con quale disciplina nuova, con quale unità futura occorre sostenere l’azione popolare? E, allargando il campo, cos’è la politica, quella vera, quella che mira, come si legge nell’Internazionale, a cambiare radicalmente il mondo e a far sì che coloro che non sono niente diventino tutto?
Per comprendere tutto questo è necessario anzitutto farla finita con le visioni stereotipate del Maggio 68, visioni che senza dubbio, in occasione del suo cinquantenario, nutriranno tanto le celebrazioni quanto le vituperazioni, le nostalgie quanto i processi contro questo mese simbo...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Frontespizio Collana
  3. Title
  4. Copyright
  5. Indice
  6. 1. Destino delle ipotesi sul senso del Maggio 68
  7. 2. Ci sono stati tre “Maggio 68”. Il primo...
  8. 3. Ci sono stati tre “Maggio 68”. Il secondo...
  9. 4. Ci sono stati tre “Maggio 68”. Il terzo...
  10. 5. C’è stato anche un quarto “Maggio 68”, essenziale...
  11. 6. Piccolo racconto personale
  12. 7. E oggi?
  13. 8. Per concludere
  14. Postfazione
  15. Backcover