PARTE PRIMA
PRIMO INGREDIENTE: La voglia e il bisogno di raccontarsi all’amico e il piacere di stare insieme (Cicerone)
Sentiamo che cosa ha da dire Cicerone, l’oratore, uomo politico e filosofo romano che scrisse un trattatello specifico sul tema, Lelio o l’amicizia1. Si tratta di uno scritto tardo, che rientra nell’ambito delle relazioni interumane anche politiche e che fanno sì che il concetto e la prassi dell’amicizia ricadano per Cicerone in un contesto idealistico-umano come pure etico-sociale2. Cicerone definisce l’amico «un altro me stesso; l’altro la cui anima si mescola talmente con la mia, da fare quasi una sola cosa dei due»3. L’amico è insomma qualcuno a cui si vuole bene «senza pensare ad alcun bisogno da soddisfare, ad alcuna utilità da ricevere»4. E fin qui nulla di particolarmente originale, anzi. Un punto però peculiare dell’analisi di Cicerone è quello dove si dice che l’amico è la persona cui provi piacere a raccontare le tue esperienze. Anzi, aggiunge, partecipare a eventi bellissimi o vedere e ascoltare cose eccellenti senza poterle raccontare a un amico non provoca alcun piacere. Cicerone cita a questo proposito l’aneddoto del tarantino Archita, il quale «era solito ripetere che se qualcuno fosse salito al cielo e avesse contemplato la struttura del mondo e la bellezza degli astri, quella contemplazione non gli avrebbe dato nessun piacere; mentre glielo avrebbe dato grandissimo, s’egli avesse avuto qualcuno cui raccontare la cosa»5.
SECONDO INGREDIENTE: La condivisione di interessi e ideali (Nietzsche, Montaigne)
Un’altra posizione nei confronti dell’amicizia, quella di Nietzsche, sostiene che l’amicizia è l’unione di due persone alla ricerca di una verità o di un ideale superiore. L’amico è «chi ti trae alla sua altezza»6. In realtà non è che Nietzsche intenda dire che si può essere amici soltanto immolandosi per una causa e non anche commettendo insieme qualche marachella. L’amicizia, spiega ne La gaia scienza, è «una specie di continuazione dell’amore nel quale il desiderio avido di due persone l’una per l’altra dà luogo a un nuovo desiderio e a un nuovo appetito, una sete condivisa per un ideale sopra di loro»7, che può benissimo essere lo stesso interesse o aspirazione. È importante che gli amici abbiano molte cose in comune. Che abbiano tutto in comune, che la pensino nella stessa identica maniera?
Uno degli autori classici che più intensamente si è occupato della tematica dell’amicizia e che tra poco rincontreremo, il trattatista francese del ’500 Michel de Montaigne, ha una concezione ancor più rigorosa di questo sentimento, al punto di dichiarare che «non si può essere amici di più di una persona» perché «la perfetta amicizia è indivisibile»8. L’amicizia, afferma questo autore che faceva grandissimo conto di tale sentimento, da lui definito puramente spirituale, è il culmine della perfezione dei rapporti sociali.
Ma sarà proprio come dicono i classici? Che non si riesce a godere delle cose senza raccontarle a un amico, che con un amico si possono fare soltanto cose sublimi, che si debbono necessariamente condividere con lui interessi e aspirazioni, che l’amico ha da essere unico?
TERZO INGREDIENTE: La gratuità (Baroncelli, Helvétius e Kant)
«Uno dei maggiori divertimenti dei filosofi maliziosi è sempre stato notare che chi trova un amico trova un Tesoro, ma è ancora più certo che chi trova un tesoro – se lo fa sapere in giro – si fa un sacco di amici». Con l’arguzia che gli è propria, Flavio Baroncelli sottolinea l’aspetto di soddisfazione dell’egoismo proprio dell’amicizia, e continua citando una massima di Rochefoucauld: «Quella che gli uomini hanno chiamato amicizia non è altro che un’alleanza, una reciproca cura di interessi e uno scambio di servigi; insomma, una relazione in cui l’egoismo si prefigge sempre qualcosa di utile»9.
E difatti un punto importante che emerge dalla lettura dei filosofi classici, un punto decisamente di primo piano, è quello del ruolo dell’interesse nell’amicizia. Lo vediamo in particolare in due autori entrambi appartenti all’illuminismo, la corrente che esalta il trionfo della ragione, Helvétius e Kant. I loro pareri sono decisamente discordanti. Per Helvétius, medico materialista francese amico di Lucrezio, non c’è amicizia senza bisogno: bisogno di denaro, di confidare le proprie pene, di chiacchierare10. Ci sono quindi, elenca Helvétius, amici di piacere, di disgrazia, di denaro, di intrigo. Nel sostenere questa posizione un po’ provocatoria Helvétius molto probabilmente si dichiarava implicitamente seguace di Epicuro, anzi, dell’Epicuro costruito come bersaglio ad hoc dai suoi avversari stoici, primo fra tutti Cicerone; erano infatti gli stoici che attribuivano polemicamente all’epicureismo una concezione dell’amicizia fondata sul bisogno e derivata dalla debolezza umana, la quale «va in cerca d’uno con l’aiuto del quale si possa conseguire ciò di cui si sente la mancanza»11, una cosa che fanno gli sventurati più di quelli che si ritengono felici, i bisognosi più dei ricchi, le femminette (lat. mulierculae) più degli uomini12 (XIII, 45).
Contro questa posizione una persona con un senso del dovere incrollabile come Kant tuona che l’amicizia non può essere fondata sul vantaggio reciproco ma deve essere «puramente morale». L’amicizia, prosegue Kant, è l’unione di due persone legate da reciproco amore e rispetto, è un ideale di simpatia e benevolenza tra uomini uniti da «una volontà moralmente buona»13. Ora è vero che Kant è molto molto rigoroso, ma perfino lui ammette che non si può non desiderare un amico nel momento del bisogno, pronto a venire in aiuto. Purché l’assistenza morale e materiale sulla quale ognuno degli amici può contare non sia lo scopo e la ragione determinante dell’amicizia. Da notare che Kant introduce qui un sentimento important...