Dive e maestri
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Dive e maestri

  1. 718 pagine
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Dive e maestri

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Questo libro è il racconto affascinante della rappresentazione dell'opera lirica, attraverso i successi e talvolta i fallimenti della carriera di Philip Gossett, massimo esperto di allestimenti dell'opera italiana. "Dive e maestri" fa luce sui mille intrecci e sugli scandali che di frequente accompagnano quella grande impresa che è la messa in scena. Gossett delinea la storia sociale dei teatri italiani dell'Ottocento, svela il processo creativo a volte immediato, altre laborioso dei compositori. Rivela come le trattative dietro le quinte, tra gli studiosi delle opere, i direttori e gli artisti, siano spesso decisive nell'allestimento delle produzioni. Che cosa significa parlare della messa in scena di un'edizione critica? Come si determina quale musica suonare quando esistono molte versioni della stessa opera? Che cosa implica decidere di tagliare dei passi per un'esecuzione? Oltre a questi aspetti critici, spesso controversi, l'autore approfondisce anche i problemi di ornamentazione e trasposizione delle parti vocali, di traduzione e adattamento, senza tralasciare le scelte della regia e della scenografia. Gossett arricchisce la narrazione con le cronache delle sue esperienze personali presso i maggiori teatri lirici del mondo, dal Metropolitan di New York all'Opera di Santa Fe, e delle sue consulenze ad associazioni prestigiose, quale il Rossini Opera Festival di Pesaro.

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Informazioni

Anno
2010
ISBN
9788865760284
SECONDA PARTE
L’opera messa in scena

7. Scegliere una versione

Gli esecutori moderni e il retroterra storico
Il rapporto tra gli esecutori moderni e il retroterra storico che dovrebbe sostenerli non è mai stato così tormentato come nella vita musicale dei nostri giorni. Un numero sempre più grande di critici, di direttori d’orchestra, di studiosi e di strumentisti sta mettendo in dubbio molti dei princìpi che hanno guidato la vita musicale di buona parte del ventesimo secolo. Diffidiamo della tradizione, diffidiamo del sapere, diffidiamo della nostra capacità di prendere partito tra posizioni estetiche e strategie interpretative in competizione tra loro. Queste preoccupazioni sono divenute via via più ingombranti man mano che il loro raggio d’azione si è esteso all’ambito della musica scritta del tardo Settecento e dell’Ottocento, la musica con la quale siamo cresciuti e che sentiamo come nostra, un repertorio che in questo nuovo millennio sembra allontanarsi nel passato più che mai.
Musicisti e critici che danno per certa l’esistenza di una tradizione musicale che lega il presente al diciannovesimo secolo si trovano di fronte a un’evidenza sempre più ineludibile: quell’apparente continuità è una chimera.1 Gli strumenti e le tecniche individuali, gli stili vocali e l’uso dell’ornamentazione, il ruolo sociale della musica e le sue implicazioni per la struttura musicale e per le esecuzioni, tutte queste componenti hanno subìto ampi mutamenti dai tempi di Beethoven, Chopin, Rossini, e anche di Grieg, Elgar, Bartók. Alcuni direttori d’orchestra liquidano con arroganza questi dati di fatto come modi ignoranti da non musicisti, o come teorie che costituiscono il rifugio di anime belle incapaci di produrre una nota intonata. Ma perfino i più sprezzanti nei confronti di chi ricerca prassi esecutive rispondenti – anche per il repertorio più consueto – alle circostanze storiche in cui quel repertorio fu creato ed eseguito per la prima volta, non possono far finta di ignorare un movimento circondato da un diffuso entusiasmo.2
I princìpi sostenuti da musicisti e critici impegnati nello sviluppo di stili di esecuzione più sensibili alla loro origine storica sono, d’altra parte, anch’essi sotto assedio. Gli scontri si accendono nella letteratura specializzata e anche nella stampa divulgativa su numerosi aspetti: il modo migliore di applicare l’ornamentazione nei vari repertori, l’interpretazione delle indicazioni di tempo, la scelta degli strumenti da impiegare (in orchestra come nelle composizioni per sola tastiera, o per l’accompagnamento del recitativo secco). Ma la grande opportunità di sviluppare tali stili alternativi, caratterizzati da una sensibilità rivolta alle circostanze storiche, è stata attaccata da chi insiste sul fatto che numerosi direttori, da Toscanini a Roger Norrington, non manifestano altro che il trionfo del «modernismo» applicato al campo dell’interpretazione, una sensibilità antiromantica che non ha nulla a che vedere con il passato e molto a che fare con una rivolta tutta dell’oggi contro gli stili esecutivi immediatamente precedenti.
Siamo circondati da critici e da altri fautori di una non meglio definita tradizione, o di una discutibile autenticità, e dai sostenitori di una pessimistica, perfino nichilistica insistenza sul fatto che tutti i nostri sforzi conducono alla semplice incorporazione di tendenze moderniste o postmoderniste (o qualunque altro termine in «iste» ci si possa parare davanti), tipiche della nostra società attuale. Apparteniamo a una generazione di musicisti o amatori di musica formati da un secolo in qua sulla riproduzione meccanica della musica. La nostra memoria sovrappone innumerevoli registrazioni alle serate in teatro. Perdiamo le tracce del suono che ci proviene dalle esecuzioni dal vivo, seguendo incantati il suono sterilizzato offerto dalle case discografiche. Poca meraviglia allora se un piccolo ambito di attività abbia sviluppato analisi comparative di vecchie incisioni: il suo strumento di lavoro, un cronometro per confrontare esecuzioni di sinfonie di Beethoven, irrigidite su disco, con i segni di metronomo indicati dallo stesso compositore, a prescindere dal senso che a quelle indicazioni numeriche si voglia dare.
Evitiamo di considerare gli esecutori moderni come se dovessero essere sottomessi a un qualche obbligo (morale o altro) di rispettare determinate qualità di una composizone o le caratteristiche complessive dello stile di un compositore. Per fare un esempio che alcuni musicisti trovano irritante, io nutro una profonda ammirazione per Peter Brook e per la sua La tragédie de Carmen, arte teatrale ai livelli più elevati. Si tratta di un adattamento e di una trasformazione della novella di Prosper Merimée, che utilizza le melodie di Georges Bizet riorchestrate con intelligenza per un piccolo ensemble strumentale, ma che non ha la pretesa di essere la Carmen di Bizet, e aspira piuttosto a essere un’opera a modo suo, con una propria integrità estetica.
Messo da parte il modello di Peter Brook, e chiamata in causa l’opera del diciannovesimo secolo, gli interpreti si troveranno in una situazione completamente diversa. Anche qui, non mi interessa invocare il linguaggio dell’obbligo morale. Tuttavia, direttori, cantanti e registi (anche i più iconoclasti) affronteranno inevitabilmente il loro compito facendo leva sulla conoscenza, o sotto la pressione, di precedenti rappresentazioni di quell’opera o di opere affini, o anche tramite esperienze personali fatte in teatro, resoconti indiretti (l’opinione di insegnanti e maestri, per esempio) e registrazioni. Ogni cosa viene filtrata ulteriormente attraverso sensibilità che riflettono le nostre esperienze di cittadini internazionali dell’inizio del ventunesimo secolo. In breve, le rappresentazioni sono già «intrinsecamente storiche».
Il richiamo a storicizzare ulteriormente la nostra conoscenza dell’opera italiana non è, allora, un sotterfugio per sfuggire alla nostra identità moderna, o alle passioni personali di un artista, per il tramite dei modelli storici. Ha origine piuttosto dall’idea che un esecutore, se fa lo sforzo di aggiungere alle sue conoscenze specifiche la consapevolezza di quale sia il contesto storico, drammaturgico, musicale e sociale da cui è scaturita una composizione, possa trovare risposte più soddisfacenti per qualcuno dei problemi che gli si parano davanti; in effetti, gran parte della forma di una tipica opera italiana dell’Ottocento acquista il suo pieno significato soltanto nel suo contesto d’origine. Né le invocazioni all’autorità della tradizione (che troppo spesso è una traduzione eufemistica dell’intenzione di conservare lo statu quo) né l’ossequio all’idolo della ricostruzione storica offriranno promettenti percorsi alternativi.
Questo capitolo e i successivi intendono fornire vie d’accesso alla comprensione di quel contesto attraverso una varietà di punti di vista, e cioè attraverso la considerazione degli aspetti che gli interpreti affrontano ogni qualvolta sono impegnati a rappresentare un’opera italiana scritta durante la prima metà del diciannovesimo secolo. Con la combinazione di testimonianze storiche, modelli teoretici ed esempi concreti, queste discussioni potranno aiutare chi affronta l’opera italiana – che si tratti di esecutori, di critici o di ascoltatori – a capire i modi nei quali le lezioni della storia e la realtà della cultura musicale d’oggi possano interagire efficacemente nei teatri d’opera.
«È tutta opera di Bellini»
Prima che le prove di un’opera abbiano inizio, gli interpreti devono decidere quale musica eseguire in base al progetto di una determinata produzione. Un primo insieme di decisioni riguarda la scelta tra versioni alternative, quando le versioni alternative esistono. Questo è il tema del presente capitolo. Stabilita una versione, gli esecutori devono concentrarsi sul problema dei tagli, che sarà argomento del prossimo. Troppo spesso tali questioni vengono espresse implicitamente o esplicitamente in termini di estetica o di pratica musicale, limitando il ricorso alla storia solo per il passato più immediato.
In un’opera come Lucia di Lammermoor, i tradizionalisti insistono nell’aderire a una versione pesantemente tagliata, rigidamente definita, di cui ignorano le radici storiche. Più o meno consapevolmente, di fatto seguono la versione di Lucia registrata sotto la direzione di Tullio Serafin negli anni cinquanta. A quella versione, oltretutto, fu data una parvenza di stabilità in uno dei più ostinati libri sull’opera italiana, intitolato Stile, tradijoni e convenzoni del melodramma italiano del diciottesimo e del diciannovesimo secolo,3 pubblicato da Ricordi nel 1958, sul quale ci soffermeremo nel prossimo capitolo. Il pensare la storia della rappresentazione attraverso singole opere appare oggi una pratica fallimentare, che però si è estesa ben oltre le opere come Lucia, che dopo tutto ha avuto una storia della rappresentazione pressoché continua dal tempo della sua composizione fino a oggi.
Nel 1977, mentre seguiva per la New York City Opera la prima rappresentazione del Turco in Italia di Rossini nella nuova edizione critica, il noto regista Tito Capobianco mi disse che certe decisioni su versioni e tagli appartenevano alla tradizione, e ne parlava come se quelle decisioni risalissero all’Ottocento. Ma di fatto non esisteva una tradizione rappresentativa continua del Turco in Italia, che era scomparso dal repertorio per un centinaio d’anni prima di essere riportato in vita dalla bacchetta di Gianandrea Gavazzeni al Teatro Eliseo di Roma nel 1950 (con la presenza di Maria Callas). L’opera fu registrata alla Scala nell’estate del 1954, e presentata in teatro il marzo successivo, sempre con la Callas. Ovviamente conosco quelle rappresentazioni soltanto dalle registrazioni, eppure anche solo da quelle si apprezzano l’intelligenza di gran parte delle scelte direttoriali di Gavazzeni e la maestria stilistica dell’interpretazione della Callas.4 Nel volumetto di programma John Steane scrive che «ella eccelle nei recitativi». E riferendosi alla conclusione dell’opera dopo il grande quartetto del ballo mascherato («Oh! guardate che accidente»), aggiunge: «Poi, nell’assolo del finale dell’opera, “Sì mi è forza partir”, il sentimento è reale: l’accento tragico procede da uno sviluppo ricco di verità e il personaggio guadagna in intensità e profondità, in un modo che forse solo un’artista con le capacità e l’esperienza della Callas può tirare fuori». Ciò che Steane non può che ignorare è che questa parte dell’opera è stata decimata. Nella versione che in quel caso si scelse di eseguire, sicuramente all’insaputa della Callas, Gavazzeni tagliò l’aria principale e una delle più sbalorditive composizioni, «Squallida veste». È l’aria in cui Fiorilla, saputo che il marito le ha chiuso la porta di casa, si pente della sua condotta frivola; il banale recitativo secco che segue («Sì, mi è forza partir») – scritto da uno dei collaboratori di Rossini, non dal compositore – è totalmente privo di significato drammatico, senza la scena precedente. Chi le aveva detto che avrebbe dovuto lasciare Napoli per la casa dei parenti a Sorrento? Naturalmente, ci sarebbe da meravigliarsi se la Callas non avesse avuto nulla da ridire, conoscendo i tagli decisi da Gavazzeni!
D’altra parte, nella loro monotona insistenza sul fatto che di una partitura come La traviata debba essere suonata in teatro ogni singola nota, i riformatori mostrano un’altrettanto scarsa consapevolezza della storia testuale e rappresentativa delle opere di cui si fanno campioni, e delle condizioni in cui versavano i teatri, perfino nelle circostanze migliori, durante la prima metà dell’Ottocento. Come ha affermato Charles Rosen, storicizzare la rappresentazione di un pezzo musicale limitando la nostra considerazione alle note, ai ritmi, alle risorse orchestrali e allo stile vocale, facendo astrazione dell’opera come artefatto scaturito dalle circostanze storiche e sociali che le diedero vita, presumere cioè, per dirla in breve, che sia possibile creare una rappresentazione autentica in un ambiente inautentico è fortemente sospetto. E tuttavia, chi si sentirebbe obbligato, nel migliorare un testo musicale di un’opera dell’Ottocento, a riprodurre anche le spaventevoli circostanze nelle quali molti noti capolavori della nostra storia musicale sono nati?5
Queste linee tracciate in modo un po’ schematico possono avere l’effetto di confondere ancor di più il problema: in che modo possiamo rendere produttive la nostra conoscenza della storia della rappresentazione, la nostra comprensione della realtà storica dell’opera dell’Ottocento, le nostre capacità di analisi, le nostre percezioni estetiche, per rendere più responsabile la scelta di quale musica inserire in una rappresentazione moderna? Per mettere a fuoco la questione abbiamo bisogno di ritornare alla realtà sociale dell’opera italiana e alle implicazioni relative alla natura del «testo» operistico. In che modo possiamo parlare di una composizione come di qualcosa che esiste in molteplici versioni, che costituiscono, a tutti gli effetti, un’opera? Dobbiamo interpetare queste opere liriche come se fossero conglomerati di pezzi sciolti manipolabili in qualunque modo?
Per quanto molti di noi, nel discutere di una rappresentazione, evitino un linguaggio moraleggiante, rimane comunque un luogo comune parlare dell’obbligo morale da parte di un’edizione critica a stampare la forma più vicina possibile alle intenzioni dell’autore, anche se le difficoltà ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Prefazione
  3. Ringraziamenti
  4. Prologo
  5. Prima Parte - Conoscere la partitura
  6. Intermezzo
  7. Seconda Parte - L’opera messa in scena
  8. Coda
  9. Note
  10. Glossario
  11. Bibliografia