Emancipazione/i
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Emancipazione/i

  1. 150 pagine
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Emancipazione/i

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Cosa rimane del concetto di emancipazione così com'è stato formulato sin dall'Illuminismo in seguito ai cambiamenti negli assetti mondiali avvenuti alla fine del XX secolo? Ernesto Laclau risponde a questa domanda con una penetrante analisi sul tramonto delle ideologie totalizzanti, e sulle opportunità aperte dalla conseguente esperienza del decentramento. Eppure tramonto non significa rottura con il passato, bensì apertura a una sfida, quella di rimodulare le classiche categorie della teoria politica moderna, come quella, appunto, di "emancipazione". L'originale riflessione di Laclau sui "significanti vuoti" e sull'articolazione tra le classiche coppie concettuali "contingenza/necessità", "universalismo/particolarismo", ci prospetta nuove possibilità nel pensiero e nella prassi politica, come quella del progetto di una "democrazia radicale". Venire a patti con la nostra finitudine è la parola d'ordine della post-modernità, il segno dei nostri tempi è la fine del sogno di una società totalmente riconciliata con se stessa: ma questo, lungi dal rappresentare una prospettiva paralizzante, crea per la prima volta la possibilità di una concezione radicalmente politica della società.

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Informazioni

Editore
Orthotes
Anno
2016
ISBN
9788893140294
CAPITOLO SESTO
POTERE E RAPPRESENTANZA
L’intento di questo saggio è di esplorare alcune delle conseguenze derivanti – sia per la teoria politica sia per l’azione politica – dalla nostra cosiddetta “condizione postmoderna”. C’è la sensazione assai diffusa che l’esaurimento delle grandi narrative della modernità, la sfocatura dei confini degli spazi pubblici, l’operazione della logica dell’indecidibilità, che sembrano togliere ogni significato all’azione politica, conducano a una ritirata generale dal politico. Vorrei provare ad approfondire questa tematica e lo farò considerando, come punto di partenza, alcuni degli assunti fondamentali dell’approccio moderno alla politica. Dal punto di vista del significato di qualunque intervento politico rilevante, nella modernità c’era la convinzione generalizzata che questo intervento dovesse aver luogo al livello del fondamento del sociale – cioè che la politica avesse i mezzi per realizzare una trasformazione radicale del sociale, sia che tale trasformazione fosse concepita come atto rivoluzionario fondativo, come insieme ordinato di dispositivi burocratici che procede da una élite illuminata, sia come singolo atto che apre la strada al funzionamento di quei meccanismi il cui dispiegamento automatico sarebbe sufficiente a produrre un “effetto società”. C’è, inoltre, la questione del contesto che permette la comprensione concettuale di un intervento politico così congegnato. Tale comprensione era garantita dalla nozione di totalità sociale e dalla serie di connessioni causali che necessariamente seguivano. Come è stato mostrato,1 se prendiamo Machiavelli e Hobbes come poli opposti dell’approccio moderno alla politica – il primo incentra la sua analisi su una teoria di calcolo strategico nel sociale, il secondo sul meccanismo che produce la società come totalità – è l’approccio hobbesiano a costituire la corrente principale della teoria politica moderna. Questo ci porta a un terzo aspetto dell’azione politica così com’è concepita nell’età moderna: la sua rappresentabilità radicale. Non potrebbe essere altrimenti; se c’è un fondamento del sociale – che è una condizione della sua intelligibilità – e se, di conseguenza, la società può essere considerata solo come un insieme ordinato di effetti, e cioè come totalità, allora un’azione il cui significato derivi da tale fondamento e tale totalità deve essere pienamente trasparente a se stessa e dunque dotata di rappresentabilità illimitata. Inoltre, trasparenza e rappresentabilità dovevano essere necessariamente messe in atto dall’agente della trasformazione storica. Un attore storico limitato potrebbe svolgere un compito universale solo nella misura in cui gli fosse impedito l’accesso al significato delle sue azioni, nella misura in cui la sua coscienza fosse una “falsa” coscienza. Ma come sapevano bene sia Hegel che Marx, una totalità sociale che manca dello specchio della sua rappresentazione è una totalità sociale incompleta e, di conseguenza, non è affatto una totalità sociale. Solo una piena riconciliazione tra sostanza e soggetto, tra essere e sapere, può cancellare la distanza tra il razionale e il reale. Ma, in tal caso, la rappresentazione è un momento necessario nell’auto-costituzione della totalità, e quest’ultima si raggiunge solo fintantoché la distinzione tra azione e rappresentazione è abolita. Solo un attore storico illimitato – una “classe universale” – può rendere questa abolizione reale. Questo movimento duale, per cui il fondamento diventa soggetto attraverso una classe universale che abolisce ogni “alienazione” nelle forme della rappresentazione e per cui il soggetto diventa fondamento abolendo ogni limitazione esterna posta dall’oggetto, è al centro della visione moderna della storia e della società.
Questi quattro aspetti convergono in un quinto che potrebbe essere considerato forse come il vero orizzonte dell’approccio moderno alla politica: una volta che la fondazione della politica è resa pienamente visibile, il potere diventa un mero fenomeno d’apparenza. Le ragioni di questa riduzione sono chiare: se un gruppo sociale esercita un potere su un altro, questo potere sarà esperito dal secondo gruppo come irrazionale; ma se la storia è comunque un processo puramente razionale, l’irrazionalità del potere deve essere semplicemente un’apparenza. In tal caso, o la razionalità storica appartiene al discorso dei gruppi dominanti – e le richieste degli oppressi sono l’espressione necessaria seppure distorta di una più alta razionalità che genera, come sua condizione di possibilità, un’area di opacità; o i discorsi degli oppressi sono quelli che contengono i semi di una più alta razionalità – nel qual caso, la loro piena realizzazione comporta l’eliminazione di ogni opacità (e dunque di ogni potere). Nel primo caso, coercizione e opacità sono davvero presenti; ma, dal momento che il potere del gruppo dominante è pienamente razionale, la resistenza al potere non può essere esterna ma interna al potere stesso; in tal caso, la coercizione e l’opacità del fatto brutale della dominazione possono essere solo le necessarie forme d’apparenza con cui la razionalità del potere prende forma. Se un sistema di dominazione è razionale, il suo carattere repressivo può essere solo un’apparenza. Questo ci lascia con due sole alternative: o lo sguardo del gruppo dominante è pienamente razionale, nel qual caso quel gruppo è un attore storico illimitato, o gli sguardi sia del gruppo dominante che dei dominati sono parziali e limitati, nel qual caso, gli attributi di piena razionalità sono automaticamente trasferiti all’analista storico. Il punto importante è che in entrambi i casi, la realtà del potere e la rappresentabilità della storia sono in relazione inversa.
Questi aspetti distintivi della modernità sono così profondamente consolidati nel nostro modo usuale di concepire la società e la storia che i tentativi recenti di metterli in discussione (ciò che è stato chiamato, in termini molto generici, “postmodernità”) hanno fatto sorgere una tendenza a sopperire alla loro assenza con la semplice negazione del loro contenuto, una negazione che continua ad abitare il terreno intellettuale che questi aspetti positivi avevano delineato. Dunque, la negazione che ci sia un fondamento dal quale ogni contenuto sociale ottiene un preciso significato può essere facilmente trasformata nell’affermazione che la società è interamente priva di significato; mettere in dubbio l’universalità degli agenti della trasformazione storica conduce spesso alla dichiarazione che ogni intervento storico è ugualmente e disperatamente limitato; e mostrare l’opacità del processo di rappresentanza è solitamente considerato equivalente alla negazione che la rappresentanza sia possibile. È, ovviamente, facile mostrare che – in un senso fondamentale – queste posizioni nichiliste continuano a dimorare nel terreno intellettuale da cui cercano di prendere le distanze. Affermare, per esempio, che qualcosa sia privo di significato vuol dire sostenere una concezione di significato molto classica, aggiungendo solo che è assente. Ma in un senso ancor più significativo, è possibile mostrare che queste inversioni apparentemente radicali riescono ad acquisire forza di convinzione per mezzo di un’inconsistenza chiaramente individuabile. Se concludo – come farò dopo in questo testo – che nessuna relazione pura di rappresentazione si può ottenere perché fa parte dell’essenza del processo di rappresentanza il fatto che il rappresentante debba contribuire all’identità di ciò che è rappresentato, allora questa conclusione non può essere trasformata senza contraddittorietà nella proposizione per cui la “rappresentanza” è un concetto che dovrebbe essere abbandonato. Perché in tal caso, saremmo lasciati con le nude identità dei rappresentati e con i rappresentanti come esseri auto-sufficienti, che è precisamente l’assunto che l’intera critica del concetto di rappresentazione stava mettendo in discussione. Allo stesso modo, la critica al concetto di “universalità” implicito nell’idea di agente universale non può essere trasformata nell’affermazione dell’uguale limitatezza di tutti gli agenti – perché allora ci potremmo chiedere, limitatezza rispetto a cosa? E la risposta può essere: solo rispetto a una struttura che limita allo stesso modo tutti gli agenti e che, in questo senso, assume il ruolo di vera universalità. Infine, si può dire che qualcosa, per essere radicalmente priva di significato, richieda come sua condizione di possibilità la presenza di un significato pienamente dispiegato che la contrasti. La mancanza di significato viene dal significato o, come affermato da una proposizione che esprime esattamente lo stesso, il significato viene dal nonsignificato.
Contro questi movimenti di pensiero, che rimangono nel terreno della modernità invertendo semplicemente i suoi princìpi fondamentali, vorrei suggerire una strategia alternativa: invece di invertire i contenuti della modernità, decostruire il terreno che rende possibile l’alternativa modernità/postmodernità. Vale a dire, invece di rimanere dentro una polarizzazione le cui opzioni sono interamente governate dalle categorie basilari della modernità, mostrare che queste ultime non costituiscono un blocco essenzialmente unificato, ma sono piuttosto il risultato sedimentato di una serie di articolazioni contingenti. Riattivare l’intuizione del carattere contingente di queste articolazioni produrrà dunque un’apertura di orizzonti, nella misura in cui anche le altre articolazioni – ugualmente contingenti – mostreranno la loro possibilità. Questo comporta, da una parte, un nuovo atteggiamento verso la modernità: non una rottura radicale con essa ma una nuova modulazione dei suoi temi; non un abbandono dei suoi dogmi basilari ma un’egemonizzazione di questi da una prospettiva diversa. Ciò comporta anche, dall’altra parte, un’espansione del campo della politica invece della sua ritirata – un’apertura del campo dell’indecidibilità strutturale che apre la strada a un allargamento del campo della decisione politica. È qui che “decostruzione” ed “egemonia” mostrano la loro complementarità in quanto due lati di una singola operazione. È su questi due lati che mi soffermerò ora.
Comincerò riferendomi a uno dei testi fondatori della decostruzione: l’analisi del rapporto tra significato e conoscenza in Husserl (i lati “formalista” e “intuizionista” del suo approccio), come sono stati presentati da Derrida in La voce e il fenomeno. Husserl, in un primo momento, emancipa il significato dalla necessità di riempirlo con l’intuizione di un oggetto. Vale a dire, egli emancipa il significato dalla conoscenza. Un’espressione come “quadratura del cerchio” ha effettivamente un significato: è un significato che mi permette di dire che l’espressione si riferisce a un oggetto impossibile. Il significato e il riempimento dell’oggetto, di conseguenza, non si richiedono necessariamente l’un l’altro. Per di più, Derrida conclude che se il significato può essere rigidamente differenziato dalla conoscenza, l’essenza del significato è meglio mostrata quando tale riempimento non ha luogo. Ma, in un secondo momento, Husserl ha rapidamente chiuso le possibilità che questa breccia stabilita tra conoscenza e significato ha appena aperto:
In altre parole, il vero e autentico voler-dire è il voler dire-vero. Questo spostamento sottile è la ripresa dell’eidos nel telos e del linguaggio nel sapere. Un discorso aveva un bell’essere già conforme alla sua essenza di discorso quando fosse stato falso. Non raggiunge meno la sua entelechia quando è vero. Si può parlare bene dicendo «il cerchio è quadrato», si parla bene dicendo che non lo è. Nella prima proposizione vi è già del senso. Ma si avrebbe torto a indurne che il senso non tende alla verità. Esso non tende alla verità in quanto vi tende, non la precede che come la sua anticipazione. In verità, il telos che annuncia il compimento promesso per «dopo» aveva già, prima, aperto il senso come rapporto all’oggetto.2
Il punto importante – il momento decostruttivo dell’analisi di Derrida – è che se “significato” e “intuizione dell’oggetto” non sono in rapporto reciproco in modo teleologico, in questo caso – dal punto di vista del significato – è indecidibile se questo sarà o no subordinato alla conoscenza. A questo riguardo il cammino seguito da Joyce, come ci indica Derrida, è molto diverso da quello di Husserl. Ma se Husserl subordina il significato alla conoscenza, e se questa subordinazione non è richiesta dall’essenza del significato, può essere solo il risultato di un intervento che è contingente rispetto al significato. È il risultato di ciò che Derrida chiama una “decisione etico-teoretica” da parte di Husserl. Possiamo vedere come l’allargamento del campo dell’indecidibilità strutturale determinata dall’intervento decostruttivo ha, allo stesso tempo, ampliato il terreno che la decisione deve riempire. Ora, un intervento contingente che ha luogo in un terreno indecidibile è esattamente ciò che abbiamo chiamato un intervento egemonico.3
Vorrei esplorare più in dettaglio questa relazione di implicazione reciproca tra decostruzione ed egemonia. Quello che la mossa decostruttiva ha mostrato non è la reale separazione tra significato e conoscenza, perché i due sono strettamente collegati nel testo di Husserl – infatti, questa unità risulta dal doppio requisito per cui il significato deve essere sia subordinato alla conoscenza sia differenziato dalla conoscenza. Così, l’intervento decostruttivo mostra, in primo luogo, la contingenza di una connessione, e in secondo luogo, la contingenza di una connessione. Ciò comporta un’importante conseguenza per il nostro ragionamento. Se fosse sottolineata solo la dimensione della contingenza, avremmo semplicemente affermato il carattere sintetico della connessione tra due identità, ciascuna pienamente costituita in se stessa e che non richiede altro al di fuori di se stessa per tale piena costituzione. Saremmo nel terreno della pura dispersione, una nuova e contraddittoria forma di essenzialismo, dato che ciascuna delle identità monadiche sarebbe definita in sé e per sé (primo estremo) e che, poiché la dispersione è comunque una forma di relazione tra oggetti, è necessario un terreno che operi come fondamento o condizione di possibilità di quella dispersione (secondo estremo); in tal caso le identità non potrebbero, dopotutto, essere monadiche. Così, una connessione a qualcos’altro è assolutamente necessaria per la costituzione di ogni identità, e questa connessione deve essere di natura contingente. In tal caso, appartiene all’essenza di una cosa avere connessioni contingenti e pertanto la contingenza diventa una parte necessaria dell’essenza di quella cosa. Ciò ci conduce alle seguenti conclusioni. Se l’accidente è un aspetto essenziale di una sostanza – o, se il contingente è una parte essenziale del necessario – questo significa che c’è un’indecidibilità necessaria inscritta in ogni struttura (per “struttura” intendo un’identità complessa costituita da una pluralità di momenti); perché la struttura richiede connessioni contingenti come parti necessarie della sua identità, ma queste connessioni – proprio perché sono contingenti – non possono essere logicamente derivate da nessun punto interno alla struttura. Dunque, che si segua uno solo dei possibili cammini, che solo una delle possibili connessioni contingenti si realizzi, è un fatto indecidibile dall’interno della struttura. La “strutturalità” della struttura, dal momento che è la realizzazione di una serie di connessioni contingenti, non può trovare la fonte di questi connessioni in se stessa. Questo è il motivo per cui nell’analisi di Derrida, la decisione etico-teoretica di Husserl deve essere inserita nel quadro come elemento essenziale per stabilire la subordinazione del significato alla conoscenza. Una fonte esterna a una certa serie di connessioni strutturali è ciò che chiameremo forza.4
Questo è esattamente il punto in cui decostruzione ed egemonia si intersecano, poiché se la decostruzione scopre il ruolo della decisione nell’indecidibilità della struttura, l’egemonia come teoria della decisione presa in un terreno indecidibile richiede che il carattere contingente delle connessioni esistenti in quel terreno sia pienamente mostrato dalla decostruzione. La categoria di egemonia è emersa per pensare al carattere politico delle relazioni sociali in un’arena teoretica che aveva visto il collasso della classica concezione marxista di “classe dominante” – concepita come effetto necessario e immanente di una struttura pienamente costituita. Le articolazioni egemoniche erano concepite sin dall’inizio come costruzioni contingenti, precarie e pragmatiche. Per questo motivo in Gramsci c’è il costante sforzo a rinunciare all’identificazione delle autorità egemoniche con posizioni sociali oggettive all’interno della struttura. La sua nozione di “volontà collettiva” cerca precisamente di attuare questa rottura, poiché le volontà collettive sono concepite come autorità sociali instabili, con confini imprecisi e continuamente ridefiniti, e costituite grazie all’articolazione contingente di una pluralità di identità e relazioni sociali. I due aspetti centrali di un intervento egemonico sono, in questo senso, il carattere contingente delle articolazioni egemoniche e il loro carattere costitutivo, nel senso che queste istituiscono rapporti sociali primari, che non dipendono da nessuna razionalità sociale a priori.
Questo, tuttavia, pone due problemi. Il primo riguarda l’istanza esterna che prende la decisione. Questa non deve forse reintrodurre un nuovo essenzialismo tramite il soggetto? Non deve rimpiazzare una chiusura oggettiva del...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Book Name
  3. Title
  4. Copyright
  5. Indice
  6. Presentazione
  7. Prefazione
  8. Riconoscimenti
  9. Capitolo primo Oltre l’Emancipazione
  10. Capitolo secondo Universalismo, particolarismo e il problema dell’identità
  11. Capitolo terzo Perché i significanti vuoti interessano la politica?
  12. Capitolo quarto Il soggetto della politica. La politica del soggetto
  13. Capitolo quinto “Il tempo è fuor di sesto”
  14. Capitolo sesto Potere e rappresentanza
  15. Capitolo settimo La comunità e i suoi paradossi. L’utopia liberale di Richard Rorty
  16. Backcover