Capitolo secondo
Automatismo, abitudine, ripetizione. Cenni teorici
Imparare, dunque, non significa mai divenire capaci di ripetere lo stesso gesto, bensì di fornire alla situazione una risposta adeguata con mezzi diversi. E non è più esatto dire che la reazione venga acquisita nei confronti di una situazione individuale. Si tratta invece di una nuova attitudine a risolvere una serie di problemi che hanno la stessa forma.
Maurice Merleau-Ponty
1. L’automatismo in Janet e Bergson
La concezione che emerge dalla definizione di automatismo analizzata nel capitolo precedente, è caratterizzata da un’apertura al problema piuttosto che dalla rassicurante perimetrazione. L’aspetto prevalentemente psichico dell’automatismo vi arretra decisamente in funzione di una sua estensione alla corporeità e, in un senso che chiariremo in seguito, ai suoi schemi corporeo-motori, in una pseudoevocazione della nozione di Körperschema di Schilder.1 Tuttavia l’automatismo in senso psicologico non svanisce, come si può evincere dalle considerazioni conclusive sull’automatismo autoctono, preriflessivo, impulsivo, biologico: esso non può venire ridotto. Un certo automatismo permane sullo sfondo, senza venire mai del tutto ricompreso nelle figure degli automatismi traducibili nei termini via via più complessi, che vedremo, di ripetizione, esercizio, abitudine, costume, ethos.
Questa definizione, scritta alla fine degli anni Venti, può essere un buon punto di partenza anche perché tende a riflettere la complessità del quadro storico del sapere dell’epoca sul tema “automatismo”. Se essa non arriva a una sintesi filosofica, nondimeno contiene riferimenti alle diverse aree di ricerca che in qualche modo avevano tentato una prima riflessione sul tema. Vi ritroviamo, sia pure in modo indiretto, le teorie di Pierre Janet2 come pure quelle sulla suggestione di Alfred Binet3 e più in generale il portato delle ricerche della biologia neuroscientifica e della psicofisiologia della seconda metà dell’Ottocento. Si ode l’eco di certe tesi nietzschiane: non va dimenticato che Nietzsche elabora in quegli stessi anni le sue più importanti concezioni in ambito fisiologico-filosofico,4 nutrendosi spesso di letture scientifiche da cui maturerà le sue idee tipiche sull’organismo come campo di forze che, in un certo senso, agiscono in modo automatico, e più in generale sul valore dell’ involontario. Nella definizione risuonano, insomma, queste modalità di approccio che nel loro complesso, come ha mostrato Henri Ellenberger in La scoperta dell’inconscio. Storia della psichiatria dinamica,5 aprono il campo anche alla riflessione di Freud sulla dimensione inconscia dei processi psichici. L’inconscio è direttamente citato, benché subito auto-censurato. Si avverte anche un carattere più filosofico e morale di riflessione sulla ripetizione nel vivente, probabilmente via Bergson, e un riferimento a quel filone di studio dell’abitudine che era ormai “nell’aria” almeno in Francia (Chevalier6 e, prima, Ravaisson7) e che non così facilmente, però, risolveva le tensioni tra biologico e morale.8 Pavlov ha già ricevuto il Nobel e pubblicato i suoi studi più importanti di neurofisiologia:9 in effetti, lo schema euristico del riflesso è anch’esso presente. Così come lo è un rapporto alla Gestaltpsychologie e alla nozione di Körperschema.
Veniamo così al saggio di Pierre Janet del 1889, L’automatismo psicologico. Saggio di psicologia sperimentale sulle forme inferiori dell’attività umana, testo fondamentale nella storia della psicologia medica e dinamica.10 Prima di Janet altri, in Francia, avevano utilizzato l’espressione automatismo psicologico, tra cui Despine nel suo libro Psychologie naturelle.11 Ma fu Janet il primo a fare un uso consistente del termine ponendo le basi per lo studio unitario dei fenomeni automatici caratterizzati, a vario livello, da un’assenza di consapevolezza, dunque dall’involontario e dalla ripetizione: ipnagogia, sonnambulismo, suggestione, isteria, compulsione a ripetere (idee fisse). Evidentemente, l’approccio di Janet risente di un interesse di tipo clinico. Nella sua ottica, l’automatismo è una patologia, un disturbo che il buon equilibrio della personalità dovrà confinare, rendendone trascurabile gli effetti nella vita cosciente. Non va dimenticato anche il coté medico in cui opererà Janet, che fu direttore del laboratorio di psicologia sperimentale alla Salpêtriere di Parigi, in contatto con Charcot, ambiente come noto frequentato anche da Freud.
Ma anche da un punto di vista filosofico,12 le acquisizioni di questo studio sono rilevanti per i nostri scopi. In qualche modo l’intero costrutto di Janet rivela la forma di un’indecidibilità. Si tratta esattamente di quale sia il posto (e il tempo) dell’automatismo in una teoria del comportamento umano. Da un lato all’automatismo viene riconosciuto un paradossale valore di verità per il soggetto pensante: l’automatismo è un elemento che sfugge alla souveraineté del soggetto, ma che al contempo non è estraneo (sia pure in negativo) alla sua strutturazione, al suo assumere una forma. Dall’altro lato, ma nello stesso movimento, Janet certifica l’esistenza e l’attività di una sfera inconscia del soggetto, una dimensione legata all’involontario, radicata nelle emozioni elementari e nell’istinto, come ad esempio nel caso degli acts inconscients.13 Ma, come detto, tale attività lascia le proprie tracce passive non nella luce della coscienza, da cui per definizione sono escluse, ma nella concavità oscura che ne contiene la forma. Janet intende ricondurre l’automatico all’«attività elementare»14 dell’essere umano nelle «sue forme più semplici, più rudimentali», constatate «negli animali» ma anche «nell’uomo stesso dai medici alienisti». Tale attività, prosegue Janet, è denotabile come « automatica»,15 termine la cui etimologia « autos, stesso, e mao, ho in me la facoltà di operare (Littré), sembra applicarsi molto bene ai caratteri che queste azioni presentano».16
La definizione che ne segue, tuttavia, è tutt’altro che lineare. Per Janet automatico è difatti quel movimento caratterizzato dal fatto che «deve avere qualcosa di spontaneo, almeno in apparenza, avere origine nell’oggetto stesso che si muove e non provenire da un impulso esterno», come «una bambola meccanica».17 In questa definizione, spicca il riferimento alla bambola meccanica, che richiama immediatamente l’immagine dell’automa (che una certa tradizione – anche filosofica, da Cartesio a Husserl – ha lungamente pensato), come oggetto che ha due caratteristiche: è inanimato e si muove da sé. Naturalmente, l’attributo della spontaneità (uno dei significati maggiori di to automaton, in Aristotele) complica le cose, tanto che Janet si affretta a ridimensionarne il ruolo, come in quel «almeno in apparenza». In ogni caso, aggiunge Janet, «è necessario che il movimento rimanga quindi molto regolare e sia soggetto a un rigoroso determinismo, senza variazioni o capricci».18
Ora, ed è proprio questo il nodo centrale da evidenziare, tale inerire all’automa, al movimento da sé, alla meccanica senza senso del corpo, non è estraneo all’essere-umano. Sarebbero difatti proprio le fasi incoative della motilità antropica, quello strano rapporto e sconfinamento col dehors, ovvero «i primi sforzi dell’attività umana [che] presentano esattamente questi due caratteri: sono provocati e non creati da impulsi esterni; provengono dal soggetto stesso e tuttavia sono così regolari che non si può parlare nei loro confronti del libero arbitrio richiesto dalle facoltà superiori».19
Janet ha così scolpito, sin dalle prime pagine de L’automatismo psicologico, il quadro problematico, che, anche per lui, rimane quello della coscienza. Che ne è del soggetto, dell’attività spirituale superiore, se l’automatismo basale, origine poi dell’organizzazione spirituale futura, è di tipo meccanico, inumano, soltanto sensibile? «Molti filosofi si rifiutano di riconoscer...