Nota del curatore
Il lavoro di curatela sul testo di Rensi è consistito, in primo luogo, nell’emendare le inesattezze che, nell’edizione Guanda del 1937, “sfigurano” moltissime parole greche e qualche parola tedesca o latina nei numerosissimi passi di testi filosofici e letterari citati da Rensi, e, in secondo luogo, nel fornire al lettore in nota a piè di pagina la traduzione italiana di quelli fra quei passi di cui non provvede Rensi stesso ad inserire la traduzione nel corpo dei suoi frammenti. Dunque le note a piè di pagina sono tutte del curatore, anche perché il testo di Rensi ne è completamente privo.
Nei casi in cui è appunto Rensi ad offrire la sua traduzione del passo che cita – sia che la espliciti negli immediati paraggi della citazione stessa, sia che (come qualche volta accade) la faccia “sospirare” fino al termine o quasi del suo frammento nel quale la citazione appare –, il curatore non ha mai preteso di “migliorare” la traduzione rensiana, anche nelle non rarissime occasioni in cui il pensatore italiano si discosta in modo più o meno netto dalla “ideale” traduzione letterale. Due sono i motivi di questa scelta di non-intervento: da un lato, Rensi è uno scrittore finissimo dotato di una squisita sensibilità letteraria e quindi delle sue traduzioni ci si può e ci si deve fidare, e, d’altro lato, il quando e il come si allontana dalla traduzione strettamente letterale o da quella più comune non è casuale ma sottintende specifiche ragioni teoretico-speculative.
FRAMMENTI D’UNA FILOSOFIA DELL’ERRORE
E DEL DOLORE, DEL MALE E DELLA MORTE
Πάντα γέλως καὶ πάντα κόνις καὶ πάντα τὸ μηδέν·
πάντα γὰρ ἐξ ἀλόγων ἐστὶ τὰ γιγνόμενα 1
Glycone (Anth. Pal., X, 124)
Al Dott. Paolo Perantoni
La posizione scettica è questa: «Io non so che cosa sia l’essenza dell’universo, ma l’interpretazione che ne danno Platone o Aristotele, Kant o Hegel ecc. ecc., è falsa». Posizione meramente negativa. Nessuna verità è affermata.
«Lo scettico si contraddice perché afferma la verità che non c’è verità». Questa è l’acuta trovata di cui i dogmatici vanni superbi. Non s’accorgono che quella proposizione è negativa, non affermativa; che cioè con essa lo scettico non afferma nulla; non fa che porre il segno di negazione davanti a tutte le pretese «verità», cioè davanti a tutte le tesi o soluzioni filosofiche che si asseriscono verità, senza punto affermarne come vera una per conto suo.
Ma contro quella posizione si ricorre spesso e volentieri anche alla seguente obbiezione: «Ciò non si può dire se non commisurando o raffrontando questa falsità asserita di tutti i sistemi alla Verità che si sa esistente, sebbene non conosciuta. Non si può asserire il falso se non in contrapposto col Vero esistente, come non ha nessun senso il male se non in raffronto al bene esistente. Se non esiste il bene non esiste nemmeno il suo contrapposto, il male; e precisamente così se non esiste il Vero non esiste nemmeno il falso, e voi quindi, affermando il falso di tutti i sistemi, fate capo implicitamente al Vero, visto dal quale soltanto quel falso si può affermare».
Questa obbiezione è, come al solito, un mero verbalismo, la cui apparenza di ferrea logicità si dissipa facilmente.
Quando si afferma il male, o si dichiara che tutto è male, l’affermazione sta e regge, non di fronte a un bene esistente, ma semplicemente di fronte all’idea, o ideale, o immaginazione, o fantasma, o speranza e sogno del bene, che è (e basta che sia) nella mia mente, anche come una mera fantasticheria, senza essere nella realtà. Se si dice: «male è morire, bene vivere eternamente sulla terra», forse che quel male si afferma solo in raffronto all’esistenza reale di questo bene, o non piuttosto ad una solo immaginata?
Così per la verità. Ecco la quadratura del cerchio. Tutti i tentativi di soluzione sono confutati, dimostrati falsi. Si dovrà dire che tale falsità sta ed è affermabile solo rispetto ad una verità, esistente nel mondo delle Idee, della quadratura del cerchio? Tutti i sistemi filosofici sono falsi, falsi tutti i tentativi di interpretazione o spiegazione dell’universo. Ciò, del pari, sta ed è affermabile, non in raffronto ad una Verità esistente, ma a una semplice idea o ideale di verità, a un’ipotesi o sogno o immaginazione di verità, alla verità meramente immaginata.
Senza contare che quand’anche l’obbiezione provasse l’esistenza della Verità, la posizione scettica dianzi enunciata ne dimostra l’inconoscibilità: il che è sufficiente perché quella posizione resti suffragata.
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Filosofo e farmacista.
Un filosofo maturo ed esperto a chi gli chiede consiglio sui libri di filosofia da studiare, dovrebbe rispondere: che filosofia vuoi? Perché io so già che tu ne vuoi una: ossia che tu vuoi una dottrina filosofica che ti dimostri ciò che previamente e già sin d’ora credi e vuoi credere. Che vuoi adunque? Dio o gli atomi? La libertà o il determinismo? Dimmelo. Io ho qui nella mia farmacia i barattoli che contengono ciascuna di queste cose. Ti posso dare dell’una o dell’altra a seconda dei tuoi desideri o bisogni.
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L’unico sapere per l’uomo è di ciò che egli può vedere e toccare, per quanto non soltanto con le mani e gli occhi nudi, bensì muniti degli stromenti dell’indagine scientifica.
Solo entro quest’ambito arriva la sua certezza, ossia il suo sapere. Il resto è incerto, e perciò variamente e divergentemente pensato.
Ma circa questo insieme di fatti che si vedono e si toccano e che formano l’unica certezza, l’unico sapere dell’uomo, si può fare una domanda. Si può chiedere ad uno: «Tu non sai che quello che vedi e che tocchi; sin qui arriva il tuo sapere, la tua certezza; ma come valuti, come apprezzi, come interpreti questo insieme di fatti che vedi e che tocchi, e oltre dei quali tu non sai altro? che impressione ti fanno?».
Si badi; non si può chiedere: «intorno ed oltre ai fatti che vedi e che tocchi, che cosa sai?». Non c’è sapere qui, non c’è certezza, e quindi non c’è unanimità delle menti; ma ipotesi, opinioni, e quindi divergenza. Si può perciò solo chiedere: «Come valuti questi fatti? Che impressione ti fanno? Che cosa ti pare, che cosa pare a te personalmente che vogliano dire?».
O la filosofia è il primo di questi due momenti, cioè il sapere dei fatti, e allora essa è positivismo, comtismo, filosofia intesa non più come metafisica, ma come sistemazione dei risultati sommi delle scienze.
O la filosofia è il secondo di questi due momenti, l’impressione che mi fanno i fatti, ciò che mi pare vogliano in ultimo significare (a me – e non posso dir che così, dal momento che vedo parer diversamente ad altri); e allora essa è espressione d’impressione, descrizione, riproduzione di stati di animo: cioè arte, come la lirica o il romanzo.
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Che ogni metafisica e ogni religione, quanto più è vera metafisica e vera religione, implichi una visuale radicalmente pessimistica della realtà; che il profondo unico motivo propulsore delle sue costruzioni non sia se non il riconoscimento, più o meno esplicito, del totale assurdo, etico e logico, del mondo; lo dimostra già, svelando così tale occulto motore pessimistico di tutte le successive metafisiche, la prima grande di queste, per chi sa penetrarne il movente intimo: l’Eleatismo.
«L’Essere è». Che cosa si può pensare di apparentemente più astratto dalla vita, d’una più pacifica e indifferente, anzi insignificante, tesi, che questa proposizione fondamentale degli Eleati? L’uomo di mondo che la legge si stringe nelle spalle. Essa non gli dice assolutamente nulla. Egli sta davanti ad essa con un «si capisce!» o con un sorriso d’interiore stupefazione pel fatto che si possa darsi la pena di mettere in piedi una proposizione così sterile o meglio così tautologica. Eppure in quella proposizione dall’apparenza sterilmente dottrinaria è condensato, racchiuso, nascosto, un terribile grido d’angoscia, un ansioso gemito d’orrore, un tentativo spasmodico di uscire dall’angoscia e dall’orrore. Appunto l’angoscia e l’orrore per l’assurdo del mondo, e il tentativo di toglierlo via o meglio di non pensarvi, di non vederlo, di calare su di esso davanti ai nostri occhi il sipario.
Ecco il mondo. Mondo in cui ogni cosa nasce oggi per morire domani, resta a galla, alla superficie, alla luce solo un istante, per dissiparsi tosto nelle tenebre e nel nulla. Mondo ove tutto trapassa, tutto perisce; ove non possiamo contare sulla permanenza di nulla; ove ciò in cui abbiamo riposto il nostro affetto o il nostro cuore, un attimo dopo non è più. Mondo di cose, di eventi, di enti, che, solo pel fatto di essere ciascuno diverso dall’altro, di non essere l’altro, di non essere fuso e unificato con l’altro, si urtano tra loro, si contraddicono a vicenda, o lottano, si combattono, si uccidono. Mondo, cioè, il quale muta di continuo, ossia appunto di continuo perisce, ché questo vuol dire mutare; mondo che è preso in un incessante scorrimento o movimento, che è scorrimento o movimento verso una progressiva morte. Mondo che è costituito di Più, di Molti, di io e tu, diversi, contrastanti, contradittori, nemici. Mondo quindi che non si può capire, cioè che è illogico e assurdo, perché la Pluralità, il Mutamento, il Movimento, chiamati davanti al tribunale della ragione, non possono logicamente giustificare sé stessi: ed essendo lo spazio infinitamente divisibile, la freccia che parte dall’arco, poiché deve passare per un numero infinito di parti, non passa mai, e non può riuscire mai, secondo la ragione, a toccare il bersaglio.
Questo mondo, ove tutto è assurdo e contradittorio, ove tutto è caduco, muta, trapassa, muore, ove in siffatto universale mutamento e scorrimento noi sentiamo veramente il suolo sfuggirci sotto i piedi e non possiamo posarli su nulla di solido e fermo, questo mondo manca dunque in verità di Essere. Questa è la sua piaga cancerosa, la sua iattura mortale. È solo Divenire, ossia scorrimento e morte, senza Essere, ossia stabilità e permanenza. In questo mondo noi ci sentiamo abbandonati nel vuoto, in un abisso che non ha fondo, in cui tutto, e noi insieme, senza fine irresistibilmente precipita.
Pensiero terribile, che stringe alla gola, che fa mancare il respiro, che dà le vertigini… Ah, non può essere così, non deve essere così; sarebbe cosa troppo orrenda, troppo terrificante. Non può essere che non ci sia se non il vuoto e il precipizio d’un mutamento universale, d’un eterno divenire, senza un sostegno, senza la permanenza, la consistenza, la terra ferma dell’Essere. Ah, no! L’Essere ci deve...